Mercoledì, 30 Aprile 2025

Backstage: Il caso Kabaivanska: l'avventura di un repertorio - di Matteo MARAZZI

Aggiunto il 15 Settembre, 2013

Per il cantante d’opera la costruzione del repertorio non è (o non dovrebbe essere) la semplice conseguenza di una data vocalità, ma cammino creativo meditato, sofferto, costellato di dubbi e rivelazioni, sfide e rifiuti, su cui – più ancora della voce – è la personalità a condurlo. Poterne parlare con Raina Kabaivanska è illuminante: il suo caso è esemplare non solo per la lunga, ricchissima carriera, ma anche per la singolare varietà di esperienze, che ha potuto permettersi in virtù di una rara consapevolezza culturale e di una leggendaria popolarità. Si aggiunga l’ulteriore punto di vista di cui oggi dispone: quello di docente apprezzatissima che continua a produrre cantanti dalle grandi carriere.

"Ai ragazzi che mi si affidano suggerisco di ascoltare il mercato e le sue esigenze. Inseguire un credo artistico a prescindere dalla domanda e dall’offerta può, almeno inizialmente, essere nocivo. Oggi domina un certo repertorio? Occorrerà conoscerlo. Bellezza e fotogenia sono divenute importanti? Ci si dovrà lavorare. Non sono sempre entusiasta delle innovazioni registiche, ma il cantante contemporaneo deve essere pronto ad affrontarle. Un tempo, infine, a voci bellissime si perdonava una scarsa scolarizzazione musicale: ricordo colleghi che giravano il mondo con nozioni rudimentali persino nel solfeggio. Quando ho iniziato io, i direttori artistici erano sorpresi che suonassi il pianoforte e avessi studiato all’università; oggi farebbe meno effetto, perché una solida formazione scolastica è generalmente richiesta. In compenso si sorvola su questioni prettamente vocali che ai miei tempi erano condizionanti"

Nel costruire il repertorio, il cantante non è l’unico attore coinvolto. I primi condizionamenti vengono dal maestro di canto o, in certi casi, dalla ridda di maestri a cui si affida. Successivamente entrano in gioco consulenti, foniatri, critici e, naturalmente, pubblico e direttori artistici. Anche gli agenti da qualche decennio si

sono ricavati uno spazio forse eccessivo.

"In un settore come il nostro, dove le competenze sono sempre più rare, la “praticaccia” degli agenti gode di gran credito. Ai miei tempi erano utili ma non indispensabili, tanto che personalmente ne ho fatto a meno per molto tempo. Mi sono arresa solo quando ho capito di non poter più gestire i calendari da sola, essendo caduta in due errori clamorosi: per una produzione a Bilbao mi presentai con un anno di anticipo, gettando nel panico il teatro. A Parigi invece non mi presentai affatto, convinta che il mio Don Carlo fosse l’anno successivo. Quelle volte fui perdonata, ma compresi la necessità di farmi aiutare. I miei agenti, tuttavia, non sono stati altro che un supporto organizzativo; non erano certo loro a dirmi cosa cantare e dove. Oggi invece sono divenuti il principale filtro fra i giovani e i teatri, il presupposto stesso di una carriera".

Fra i condizionamenti che intervengono nell’elaborazione di un repertorio vi sono anche le tradizionali tipizzazioni che, fin dal conservatorio, vengono applicate alle giovani voci: le famose etichette.

"Anche se mutate, le etichette esistono ancora; esisteranno sempre e in fondo non è un male, all’inizio di una carriera. L’importante è avere poi la forza di scrollarsele di dosso. Io sono stata etichettata per anni come pucciniana e questo bastava a molte persone. A un certo punto non è più bastato a me. Ho amato moltissimo Puccini: è l’autore a cui devo di più e a cui forse ho dato di più, ma sapevo di poter fare anche altre cose. Saper dire di no (a se stessi prima che agli altri) è molto importante, ma lo è anche guardarsi intorno e non smettere mai di cercare"

1. Primi passi e prime costanti
…seguono anch'essi un sogno, una chimera.
(Ruggero Leoncavallo – Pagliacci)
Dai primi ingaggi dipende l’immagine che l’artista offre di sé, il primo coagulo di repertorio che apparirà su curriculum e articoli di giornale. La matrice italiana (fra ‘800 e ‘900) delle iniziali scritture di Raina Kabaivanska è ideale a valorizzarne la formazione di antica scuola e il già notevole potenziale di attrice.

"All’inizio l’artista non sceglie, ma è scelto. La necessità di farsi largo e di guadagnarsi il pane gli impone di accettare praticamente tutto e sperare che i ruoli proposti siano adatti. Io sono stata fortunata, perché quando iniziai a propormi in Italia – correva il 1958 – ricevetti scritture appropriate. A Vercelli mi fu offerta Giorgetta (Il tabarro), forse un po’ ardua per una debuttante ma in linea con la mia formazione. Poi arrivarono Mimì a San Remo e soprattutto Nedda, personaggio che - insieme a Desdemona - divenne il mio biglietto da visita. Fu nei Pagliacci che gli emissari newyorkesi mi ascoltarono, assicurando una svolta internazionale alla mia carriera. Al Met correvo per il palco a piedi nudi, consapevole del mio fascino di ventiseienne. La stampa mi premiò come migliore debuttante in loco e il mio felice rapporto con quella città proseguì nei vent’anni successivi. Anche Mimì e Desdemona mi furono richieste in tutto il mondo: credo che a colpire fosse la mia freschezza giovane, in contrasto con i modelli più sontuosi che allora dominavano questi personaggi. Con Desdemona approdai al Covent Garden (dirigeva Solti) e nella San Francisco di Kurt Adler. Fui soffocata dai maggiori Otelli dell’epoca: Del Monaco, Vickers, Craig, McCracken"

Il nocciolo primigenio del repertorio è definito. Intanto c’è Puccini, accolto per ora nella variante più lirica ereditata dalla Fumagalli-Riva: da Mimì fioriscono presto Liù e Suor Angelica, fino a Manon Lescaut e Madama Butterfly. A latere – con Desdemona – si va affermando una prima specializzazione boitiana (forse già impercettibilmente “dusiana”) che l’avrebbe condotta a Falstaff e Mefistofele. Semmai occorre ridimensionare una presunta specializzazione verista, circoscritta ai soli Pagliacci e

vissuta più come occasione di impeto adolescenziale che di esternazione tragica.
Si mette già in luce uno stile molto personale, dinamico e nervoso, molto giovanile, non ancora arricchito dai futuri preziosismi déco. Scevri dalle rotondità e dai velluti di tradizione tebaldiana, i primi Puccini della Kabaivanska colpiscono per un’asciuttezza energica in cui l’emotività non sconfina nel sentimentalismo. Negli anni successivi le sue Butterfly e Manon Lescaut avrebbero accolto nuove suggestioni, nutrendosi di memorie liberty e nostalgie ottocentesche: questa nuova sensibilità la porterà a calpestare un terreno di confine fra tramonto dell’800 e alba del Naturalismo, come i salotti crepuscolari di Čajkovskij (Pikovaja Dama e più tardi Evgenij Onegin), le memorie tardo-romantiche di Andrea Chénier (Giordano) e i sogni alpestri e wagnerofili di Wally (Catalani). È vero che questi due ultimi titoli, benché applauditissimi, furono presto abbandonati, ma solo per la scarsa simpatia dell’artista verso eroine di eccessiva irruenza.
Sorprende invece che – in questa già chiara definizione di sé – non abbia trovato uno spazio maggiore la letteratura francese fin de siècle; in particolare Jules Massenet - il realista che smentisce la realtà - avrebbe potuto dar abito alle migliori vocazioni della cantante. Più ancora di Puccini, infatti, il francese era riuscito a cristallizzare – a cavallo fra i due secoli - una femminilità piegata al ricordo, consumata nella sconfitta di un’epoca, vacillante ai raggi di tramonti decadenti. La Kabaivanska non ebbe purtroppo occasione di far sue Charlotte, Salomé di Hérodiade, Chimène del Cid; con Thaïs un contatto ci fu, ma fuggevole, nel 1969 a Catania, senza conseguenze. Undici anni più tardi - a carriera già radicalmente mutata – avvenne invece l’incontro con Manon, questa volta in un grande centro musicale, in lingua originale e con la complicità di Alfredo Kraus. Alle volte anche le carriere più coerenti non mancano distranezze: Thaïs, epitome di una bellezza che sfiorisce, nostalgia di sensualità che cerca rifugio dal mondo, riflesso di una borghesia che piange la fine di un sogno, avrebbe potuto essere – a lato di Adriana Lecouvreur e Francesca da Rimini – il fiore della Kabaivanska matura; fu invece solo lambita e troppo presto. Manon, al contrario, trillante di sessualità puberale e sovvertitrice di morali, divenne un rôle-fétiche per la diva alla soglia dei cinquant’anni. La stessa Kabaivansa ci racconta che, alla notizia del debutto, alcuni amici espressero perplessità («uno, spiritosamente, mi pregò di cantare qualsiasi cosa …ma non Manon»); nemmeno la scrittura vocale (gli arabeschi floreali e acutissimi con cui Massenet trapunta l’irrequietezza della sua Lolita) pareva la più indicata. Con un’alzata di spalle e una convinzione più trascinante del solito, il soprano vi colse invece uno dei suoi più sensazionali trionfi e la facilità con cui sovrastò, dopo vent’anni di carriera, una scrittura tanto virtuosa ha del miracoloso. Sarà pure stata troppo rigogliosa, troppo diva, troppo donna, ma quella Manon a cui l’Italia si inchinò, dai sorrisi velati di presagio e dal disperato anelito di vita, conferma le insondabili affinità che la “cantatrice del rimpianto” avrebbe potuto rivelare nell’opera di Massenet.

2. Alla conquista di Verdi
...un fato inesorabile sospinge a stranio lido.
(Francesco Maria Piave – La forza del destino)
Oltre ai debutti londinesi e americani, la Kabaivanska vive nei primi anni ‘60 un’intensa collaborazione con la Scala, in cui - senza trascurare le piste già consolidate verso Falstaff, Suor Angelica e Mefistofele - si sperimenta in operazioni più insolite.

"Mi interpellavano per oratori di Perosi e Rossi, per il ‘900 di Malipiero (Il torneo notturno) e Busoni (Turandot) e persino per il Belcanto di Beatrice di Tenda (Agnese del Majno, a fianco di Joan Sutherland). Affrontai inoltre Scarlatti (Sedacia)e il mio unico Wagner: Irene nel Rienzi (1964) in italiano. Mi ero preparata molto; peccato che Scherchen avesse tagliato drasticamente la mia parte"

Per nulla intimidita, la cantante si lascia condurre senza troppe preoccupazioni per linguaggi tanto diversi («non mi rendevo conto, ad esempio, di quanto stancante potesse essere la Turandot di Busoni»). L’irruenza la rende irriconoscibile nel finale del Rienzi, i cui fendenti lascerebbero presagire una Senta. Resta da capire il senso di simili esplorazioni, che l’artista si concesse solo in ambito meneghino. Il fatto è che allora in Italia la singolarità timbrica veniva esorcizzata con l’eclettismo e (in rapporto ai criteri dell’epoca) la sua voce di singolarità ne aveva: nonostante l’estrema flessibilità, il suono lasciava filtrare anche colori aspri.

"È vero! Era prassi allora distinguere fra soprani “con la bella voce” e soprani “intelligenti”, come se questi due aspetti fossero in competizione. Verdi ad esempio era proprietà dei primi. Una voce come la mia, al contrario, era orientata su repertori più inconsueti"

Non si può dire che l’eclettismo milanese abbia lasciato grandi tracce sul repertorio futuro; è servito però a divulgare da subito l’immagine di artista sofisticata e curiosa. Negli stessi anni, tuttavia, fece capolino alla Scala anche un grande personaggio verdiano: Elisabetta di Valois del Don Carlo, opera che la Kabaivanska aveva scoperto pochi mesi prima al Metropolitan di New York.
È interessante investigare il suo rapporto con le eroine della maturità verdiana, composte nel ventennio 1860-80. Per monolitica consuetudine, il XX secolo ha destinato a voci maestose e matronali l’intera galleria, che da Amelia di Un ballo in maschera conduce ai rifacimenti di Don Carlo e Simon Boccanegra, passando per Leonora (La forza del destino) e Aida, con l’aggiunta un po’ arbitraria di Il trovatore. A ben guardare, il ricorso alla grande voce non si giustificané sulle partiture (dove gli insistenti pianissimi sembrano alludere a un sostanziale lirismo), né su elementi psicologici: diversamente dalle tigri e usurpatrici del Verdi giovane, queste eroine sono perseguitate e remissive. Nondimeno la pratica è diventata legge e in parte lo è ancora. Proprio al Met non ci si poteva definire “soprano verdiano” senza lo spessore di una Varnay o di una Milanov. La Kabaivanska non confuta la tradizione, anzi la approva: lo dimostra il rifiuto opposto ad almeno due di questi personaggi che - per qualche ragione - dovette giudicare più inaccessibili.

"Non avrei mai potuto cantare Aida. Quanto al Ballo in Maschera, in un momento di leggerezza avevo sottoscritto un contratto con la Scala. Mi sono fermata in tempo. Ci vuole per quei titoli un vero soprano drammatico"

Fortunatamente tali remore non le impedirono di cimentarsi, ancora molto giovane, con Don Carlo e La forza del destino. Sorprende però che tali approdi siano avvenuti al Metropolitan, dove Rudolf Bing perpetuava la logica del “Verdi grande”. Fu lui curiosamente a scritturare in queste parti (dopo la Rysanek, la Tebaldi, la Milanov e la Farrell) un soprano non ancora trentenne, apertamente lirico e che nel suo teatro si era cimentata solo con Nedda e Mimì. Lo strappo si spiega col legame che la cantante aveva stretto nel frattempo con una leggenda del vecchio Met, quella Rosa Ponselle (lei sì voce grande e maestosa) che - non a caso - era stata la prima Leonora di Vargas e la prima Elisabetta di Valois al Met, nel 1918 e nel 1920.

"Comuni conoscenti, molto ammirati da una mia Desdemona a Londra, decisero di presentarci. In occasione del mio primo contratto negli USA, mi prelevarono a New York in limousine e mi portarono a Baltimora, dove la Ponselle aveva eretto il suo esilio dorato. Pensavo di incontrare una vecchia signora e invece mi trovai di fronte una donna giovanile e affascinante, appena sessantenne (si era ritiratagiovanissima), concreta e maestosa quanto basta, carica di gloria e di gioielli. Mi ascoltò; trovò che la mia voce avesse un qualcosa di slavo su cui si doveva lavorare, ma in sostanza le piacqui. Da quel momento, ogni volta che ero in America, correvo a Villa Pace da lei e dai suoi venti gatti, dove studiavamo per giornate intere. Dopo la Fumagalli-Riva, la Ponselle fu la mia più amata insegnante"

La conseguenza fu che Bing ritenne di poter impegnare la giovane artista - in cui la Ponselle vedeva un’erede – anche nei grandi ruoli verdiani (e magari Gioconda e Norma). A raffreddare i suoi entusiasmi ci pensò la stessa Kabaivanska, che in quell’occasione ebbe la forza di opporre il suo primo “no”.

"Durante la mia seconda stagione al Met partecipai a un gala in onore del tenore Martinelli. Nell’impaginare i brani, Bing mi chiese di eseguire “Suicidio” dalla Gioconda. Era solo un’aria, così accettai. In realtà si trattava di un test. Pochi giorni dopo il sovrintendente mi offrì recite di Gioconda che immediatamente rifiutai. Oltre a lui, temo di aver deluso anche la Ponselle, che avrebbe voluto fare di me una sua continuatrice, virtuosa e scultorea come lei. Mi propose persino di interrompere la carriera, evitare i ruoli pucciniani e lavorare a un suono diverso. Istintivamente non me la sentii; continuai a frequentarla e ad accogliere i suoi consigli, ma la mia carriera seguì la strada che avevo scelto"

Oggi sappiamo che fu la decisione giusta. Il lascito della Ponselle fu comunque notevole: lo misuriamo nella tendenza, dopo la metà degli anni ’60, a valorizzare di più il respiro della melodia e ad applicare, anche ai ruoli della Giovane Scuola, un fraseggiare più tornito, con qualcosa di estetizzante e antico. È inoltre altamente probabile che la maestra le abbia passato quel senso di misterioso sacerdozio connesso allo statuto di primadonna che successivamente la Kabaivanska avrebbe trasfuso nelle sue maggioricaratterizzazioni “meta-teatrali”: Adriana Lecouvreur, Tosca o Elina Makropulos.
In termini di repertorio le conseguenze si limitarono a una lunga consuetudine con il Verdi maturo: dopo Elisabetta e Leonora, arrivarono Il trovatore, illuminato dalla collaborazione con Karajan, il Requiem e Simon Boccanegra, a Washington nel fortunato allestimento di Abbado e Strehler.

3. Diva della controrivoluzione
…e fa tacere queste grida
(Gabriele d’Annunzio – Francesca da Rimini)
Gli anni successivi, quelli burrascosi a cavallo della Contestazione, conducono l’artista a nuove, determinanti conquiste di repertorio. Molte cose stanno cambiando anche nella sua vita: il matrimonio con Franco Guandalini (singolare figura di esteta del milieu modenese, regista, collezionista d’arte e d’ora in poi lucido, caustico, appassionato consigliere della consorte) e la nascita della loro bambina impongono un ridimensionamento alle scorribande nel jet-set operistico e un distacco dalle scritture transoceaniche. Da questo momento l’Italia sarebbe diventata il centro d’azione della cantante. Negli stessi anni, però, cambiamenti radicali agitano il mondo dell’opera. Il ’68 travolge valori ed estetiche e persino il lussureggiante rituale melodrammatico - fiore all’occhiello dei padri – finisce nel mirino dei figli. Le conseguenze non si limitano a pittoreschi fenomeni di costume (i lanci di uova alle prime della Scala), ma allontanano dai teatri un’intera generazione di pubblico. L’ostilità dei nuovi intellettuali e il calo delle presenze fa vacillare il sistema produttivo e la crisi è tale che alcuni (poi smentiti) considerano ormai prossima la fine dell’Opera. Il pubblico ancora fedele - non più abbastanza numeroso da assicurare la sopravvivenza del genere e comunque destinato a esaurirsi – viene messo sotto accusa: i colossi della discografia, ancora capaci di muovere grandi interessi, tendono a scavalcarlo, puntando con mentalità sfacciatamentemass-mediatica a mercati più vasti e generalisti; i teatri invece tentano di riconquistare i “giovani” assecondandone i gusti e aggredendo la tradizione. Viene allargato a dismisura, ad esempio, il margine di libertà (e dissacrazione) dei registi; il repertorio più caro al pubblico “tradizionale” (1830-1930) è costretto a cedere spazi alle avanguardie novecentesche e soprattutto al Barocco (che per essere “anti-romantico” diviene, un po’ frettolosamente, “anti-borghese”). Per il Barocco si introducono persino nuovi stilemi esecutivi – detti filologici – salutati da molti e odiati da altri specialmente per la portata demolitrice rispetto ai linguaggi tradizionali. Vedendo come sono andate le cose, va riconosciuto a queste strategie di avere, nel tempo, scongiurato il peggio e aperto la strada alla successiva rinascita; sul momento, però, dovettero fronteggiare l’ostilità del pubblico militante, che scatenò a livello internazionale (specialmente in Italia e in America) una controrivoluzione colorita e combattiva. Ci fu anche qualche critico che se ne fece paladino, assicurandosi (nel confuso disfattismo contro discografici, agenti, registi, filologi, falsettisti e altre pericolose derive moderniste) fama di santone.
Il caso volle che proprio allora - a metà degli anni ’70 - la quarantenne Kabaivanska fosse disponibile in Italia nello splendore dei suoi mezzi e della sua maturità artistica. La gloria internazionale, l’avvenenza fisica, l’immediatezza sapiente e fascinosa da vera star, così come un repertorio incentrato sui capisaldi della tradizione (Puccini e Verdi), la predisponevano all’amore di un pubblico che in lei riconobbe rapidamente la propria patrona, depositaria della tradizione melodrammatica e custode di una civiltà minacciata. Nel volgere di pochi anni, i frequentatori dell’Opera si accorparono intorno a lei come un esercito, fedele, battagliero e vastissimo. Nella Kabaivanska, ormai signora delle folle, il pubblico italiano elesse la sua ultima evera “diva”, secondo un’accezione del termine che oggi si è persa. La naturale conseguenza fu un’evoluzione del suo repertorio verso personaggi più maestosi, simbolici, tragici. E così fu che colei che negli anni ’60 aveva conquistato il mondo come anti-diva giovane ed energica, la formidabile ragazza che aveva sgrassato Puccini di fronzoli, crinoline e lirismi al caramello, iniziò ad avvolgersi di manti e diademi, scoprendo in sé un’originale e suggestiva vocazione da tragédienne.
In realtà era da un certo tempo che i fondali floreali e simbolisti avevano preso ad attirarla; anche la sua eloquenza di attrice si era andata ammorbidendo in una scenosità più plastica, scultorea, e la sua emissione – drappeggiata dalla lezione della Ponselle – esalava da qualche anno un raffinato profumo retrò. Nel fraseggio erano comparse nuove circonlocuzioni, più screziate, evocative, in certi casi arcaizzanti, in cui molti coglievano reminescenze di una Muzio o di una Jeritza. Stava nascendo, insomma, quell’inclinazione umana e culturale alla retrospettiva che in breve tempo sarebbe divenuta la sua più potente cifra stilistica.

4. Regina del ‘900 storico
…ed è un palco il mio trono, un falso altar.
(Arturo Colautti - Adriana Lecouvreur)
Raina Kabaivanska non ama essere considerata la continuatrice di Magda Olivero.

"Non sarebbe nemmeno stato possibile, dato che non ho avuto occasione di ascoltarla prima del 1970 e a quel punto la mia voce, la mia tecnica, il mio stile erano già forgiati da tre lustri di carriera. Inoltre, se devo essere sincera, non amavo l’estrema propulsione emotiva che scatenava in scena: era la sua cifra, ma assolutamente non la mia. Io preferisco l’introversione, il non detto"

C’erano alcune affinità timbriche, come lei stessa ammette («una volta alcuni amici mi fecero sentire una sua registrazione di “Vissi d’arte” nella quale, alle prime battute, credetti di riconoscere la mia voce»).Comuni a entrambe erano anche l’ampio ventaglio dinamico e il fascino antico del vibrato stretto. È anche vero che i repertori, a un certo punto, diventarono simili, tanto che una parte del pubblico volle scorgervi un passaggio di consegne. Furono i teatri emiliani i primi a sollecitarla verso personaggi tipici della torinese: Adriana Lecouvreur nel 1969 e Francesca da Rimini nel 1972 a Reggio Emilia; Tosca pochi chilometri a est, a Modena nel 1971. Fu ancora il precedente della Olivero a giustificare successive esplorazioni come La voix humaine, Madame de Croissy, la Kostelnička e la Contessa della Dama di Picche. Il tempo avrebbe infatti rivelato l’ulteriore analogia dell’eccezionale longevità artistica (anche se la Kabaivanska, la cui autoironia è proverbiale, non esita a scherzarci sopra: «quando mi proposero la parte di Elina Makropulos nel 1993 scoprii che il personaggio aveva 327 anni. Ho pensato: più o meno...»). Nondimeno le due cantanti, figlie di estetiche lontanissime e persino contrapposte, corrono lungo rette parallele.
Di fatto, se entrambe si sono dedicate al ‘900 storico italiano - che ai loro anni (e forse ancora oggi) era considerato un fenomeno esaurito, per certi versi sospetto - l’approccio interpretativo era del tutto divergente. La Olivero aveva mosso i primi passi negli stessi anni ’30 in cui molte eroine della Giovane Scuola furono scritte; nei successivi decenni della sua lunga carriera avrebbe continuato a difenderne la verità, incurante dei tempi che cambiano, cocciutamente arroccata a un linguaggio sopravvissuto solo in lei, carico di pietas rurale e sussulti da telefoni bianchi. E anche se il pubblico degli anni ’60 e ‘70 vedeva nella sua retorica l’eco di un mondo estinto - e la amava per questo – in lei quel mondo era ancora ben vivo e pulsante. Per la Kabaivanska invece - più giovane di un quarto di secolo e formatasi in ben diversi contesti - l’evocazione di quei lontani scenari era idealizzazione poetica, rito dellamemoria, consapevolezza di antico, riflesso di un gusto nostalgico e pre-raffaelitico filtrato con occhi contemporanei. Se la Olivero, con i suoi superbi e disusati costrutti, inseguiva il personaggio e le sue ragioni, senza concessioni e con furente integrità, la Kabaivanska puntava invece a trascenderlo, a trasformarlo in sintesi estetica e illuminazione manieristica. Ciò che nella Olivero era impeto di emotività, di volta in volta sfrenata o miniaturista, nella Kabaivanska era investigazione di atmosfere e rimpianti, magia di un certo modo di amare il passato. Con rinnovata ricercatezza scenica, vaporosa e stilizzata fin nella magniloquenza, adagiata in mollezze da Art Nouveau, la Kabaivanska degli anni ’70 percorse una strada più allegorica che psicologica ed è in questa prospettiva che si misura l’enorme differenza dal presunto modello. In Tosca, Adriana, Madama Butterfly e Francesca, la cantante definì il suo storico contributo non in quanto “verista” (come era stata la Olivero), ma in quanto ideatrice di un inedito, soffuso, vagamente ansioso Crepuscolarismo di fine millennio.

5. Ritorno al passato
Ah si celi questo pianto!
(Salvatore Cammarano – Roberto Devereux)
Se la scoperta del ‘900 italiano le aveva permesso di accedere alla sfera più rivoluzionaria della sua espressività, Raina Kabaivanska si volse poco dopo a un linguaggio più arcaico, proto-romantico, immerso in quel pelago che un po’ arbitrariamente chiamiamo Belcanto. A dire il vero, qualche contatto c’era già stato tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70, quando - dopo il fortunale callassiano - era esploso in Italia l’interesse per i capolavori composti fra il 1820 e il 1850, rimasti in ombra per quasi un secolo. Tutte le primedonne degli anni ‘60 vi furono sollecitate e anche lei, benché la sua tecnica (classica e versatile, ma refrattaria a brillantezze virtuosistiche) le procurasse una certa apprensione a contatto con le “odiate” agilità.

"Uno dei mie rifiuti più sofferti è stata Lady Macbeth. Mi è stata richiesta in molte occasioni; ho anche inciso qualche brano. Eppure, tutte le volte che mi mettevo al piano a studiarla, erano le pagine virtuosistiche (ad esempio il brindisi) che finivano per dissuadermi. Anche al primo atto di Traviata i miei limiti nel canto fiorito mi irrigidivano. Il “Sempre libera” non era per me"

I titoli belcantistici che sfiorò dal 1965 al 1973 furono Guillaume Tell a Buenos Aires, seguito a Catania da due eroine belliniane (Il pirata e Beatrice di Tenda) e, per finire, due Verdi giovanili, battaglieri e virtuosistici (Ernani e I vespri siciliani). Nonostante il successo, nessuno di questi approcci ebbe un seguito.

"A Catania ottenni il plauso dei grandi maestri con cui lavoravo: De Fabritiis (che inizialmente non credeva sarei riuscita a sormontare gli scogli di Imogene) e Vittorio Gui, di cui eseguii la discussa variante nel finale di Beatrice. In seguito si chiuse il mio rapporto con Bellini, resistendo a tante richieste per Norma. Quanto all’Ernani, che aprì la stagione alla Scala nel 1969, ricordo che la regia di De Lullo mi costringeva a una fissità per me poco naturale. Il pubblico premiò il mio impegno anche a Torino per i Vespri, ma non ebbi più occasione di ripetere l’esperimento".

Appena un anno dopo, nel 1974, sarebbe arrivata Violetta, altra eroina connessa ai modelli primo-ottocenteschi. La Kabaivanska ne ricavò uno dei suoi personaggi più potenti e affascinanti (assecondata dal taglio registico di Mauro Bolognini) e tuttavia - ormai scoperta la propria ideale collocazione fra le poetiche decadenti e simboliste - la visse più come bagliore tardo-romantico e presagio naturalista che come omaggio belcantistico.
Furono, comunque, questi contatti con Bellini e il primo Verdi a preparare il terreno per la clamorosa rivalsa donizettiana degli anni ‘80. Vicina ai cinquant’anni e forte di una popolaritàvastissima, la cantante era a quel punto totalmente padrona delle sue scelte. Se accettò di cimentarsi con due nuovi personaggi belcantistici - insoliti per linguaggio e persino per psicologia (cupi e malsani, come Donizetti amava scolpire sull’enorme talento di Giuseppina Ronzi de Begnis) - è perché qualcosa di loro la attraeva. Nel 1981 a Roma riportò alla luce, in prima novecentesca, Fausta, sorta di Fedra invaghita del figliastro; in seguito si appropriò di Elisabetta, regina di Inghilterra, protagonista di Roberto Devereux.

"Prima di firmare per questi debutti, ho studiato a lungo le partiture. Ho anche chiesto aiuto a Rodolfo Celletti che di questo repertorio era considerato il massimo esperto. Non cercavo consigli di tipo tecnico, non dopo venticinque anni di carriera. Quello che mi serviva era un giudizio competente: se fossi risultata accettabile per lui, lo sarei stata anche per me. Quindi mi sono buttata: quelle due donne tormentate, incupite dagli anni e da sentimenti disonorevoli, mi hanno invitato a esplorare lati della mia espressività che, in quella fase, chiedevano di emergere".

Tanto Fausta quanto Devereux rappresentano capitoli fra i più impressionanti della sua carriera; le circospezioni vocalistiche passano in secondo piano rispetto a un modo tagliente e per lei nuovissimo di aggredire gli intervalli, addentare l’invettiva e abbandonarsi, fra cullanti chiaroscuri, al lamento morboso dei cantabili. Anche il gesto si arricchisce di sostanza tragica, facendosi più violento e maestoso, specie in Elisabetta, dalla mimica tesa e contratta e con le braccia minacciosamente protese, che si bloccano a mezz’aria per lasciarsi infine ricadere, vinte. Il successo spinse alcuni teatri a giocare anche la carta della classicità: sia quella scultorea, ancora settecentesca, di Gluck, sia quella pre-romantica di Spontini. Nel 1984 vennero Armide a Bologna e La vestale a Genova. Ancora una volta i successi furono clamorosi e, oltre arinsaldare lo statuto di maggiore primadonna in Italia, confermarono l’eccezionale versatilità di interessi. Ciò rende ancora più strana l’assenza, fra le sue creazioni, della Medea di Cherubini.

"In effetti non mancarono le offerte, anche lusinghiere e insistenti. Mentirei se dicessi di non averci riflettuto, tanto che in concerto volli testare “Dei tuoi figli la madre”. Il risultato non mi ha soddisfatta: era la prova che cercavo".

Ammirevole prudenza. A noi però resta il sospetto di aver perso una grande Medea.

6. La svolta
Ah, si la liberté
(Philippe Quinault – Armide)
Siamo entrati nella seconda metà degli anni ’80. Raina Kabaivanska è nello splendore dei cinquant’anni, metà dei quali trascorsi in una carriera folgorante: lo strumento è sempre più saldo e svettante e la curiosità culturale a dir poco ardimentosa. Le grandi eroine della “seconda maniera” (specialmente Tosca, Madama Butterfly, Adriana e Francesca) le hanno permesso di collaudare una sintassi espressiva inconfondibile, intessuta di reminescenze sontuose e ricercatezza nostalgica. La discesa fra le proporzioni della classicità francese e del malessere donizettiano hanno inoltre sviluppato una vocazione tutta nuova alla grandeur tragica. Potrebbe appagarsi delle postazioni acquisite e invece si sta preparando a compiere il balzo più estremo della sua carriera. Idolatrata dall’anima conservatrice del pubblico, l’artista tende ora la mano agli innovatori, offrendo la sua grandezza e l’enorme carisma all’intuito di dirigenti brillantissimi come Carlo Fontana e Carlo Majer e a registi considerati d’avanguardia (memorabili le sue collaborazioni con Luca Ronconi). Da questo momento, pur continuando a sostenere il peso di centinaia di Adriane e CioCioSan (quest’ultima magari in tre diverse produzioni, lungo un arco di quindici anni, sugli spalti dell’Arena di Verona), il suo repertorio diventa un processo creativo sbalorditivo edesaltante.
Il primo segnale viene dal ‘900, quello considerato difficile di Richard Strauss e Leóš Janáček. L’incontro per di più cade su titoli che sulla penisola non erano affatto i più eseguiti e popolari: Capriccio e Věc Makropulos, rispettivamente nel 1987 e nel 1993. In entrambe le opere si imprime il tema – a lei caro – del tempo che non si rassegna al futuro, trascolora in sfinimento e si fa metafora di commiato. Capriccio è l’“Abschied” di uno Strauss quasi ottantenne, travolto dalle contraddizioni di una lunga, troppo lunga vita: è il sospiro di una vecchiaia vinta dalla sua stessa tenerezza, che osserva il proprio mondo frantumarsi fra i lampi della seconda guerra mondiale. Anche il Makropulos nasce dall’inquietudine pugnace di un grande vecchio: l’inane cavalcata del quotidiano ha spinto il settantenne Janáček a risalire le sorgenti delle paure umane in una surreale riflessione sulla morte. Protese, nella prima parte, in una conversazione continua, frastagliata e prosaica, volutamente realistica, entrambe le opere si concludono con due finali giganteschi: i monologhi delle due protagoniste, in apparenza diversi (aperto e vibrante di melanconia quello di Strauss; liturgico e filosoficamente risolutivo quello di Janáček) stillano la stessa illusione di immortalità. Da personaggi, le due eroine diventano improvvisamente archetipi di una definitività che vince il tempo e ne fissa la corsa in luce. Ideale cantatrice della rimembranza, Raina Kabaivanska coglie in queste pagine la sintesi della propria poetica: le violette sfiorite e venefiche di Adriana, il sospiro decadente di Francesca e l’incertezza esistenziale di Tosca (donna e artista, proprio come Madeleine ed Elina) si riversano nelle nuove opere e se ne fanno sostanza simbolica che il pubblico avverte con stupefazione e trasporto. Operazioni che potevano essere elitarie, diventano fenomeni di massa.
Vinta la sfida a livello poetico, resta il cimento tecnico-vocale.Dovendo trovare una sintesi fra il suo canto alteramente classico e le esigenze di partiture modulate sulla più estrema declamazione novecentesca, la cantante decide di richiamarsi alle radici più ottocentesche del vocalismo, valorizzando la fluidità tutta italiana del suo legato. Il melodismo ampio ed elegiaco che sprigiona dalla sua voce aggiunge una sfumatura insolita alle dissolvenze di Strauss e alle schegge di Janáček: alonate di filature struggenti e vaste arcate di fiato, Madeleine ed Elina escono di scena in una luce ancora più straniante e simbolica; il canto antico della Kabaivanska ne profuma l’addio di ulteriore mistero. Consapevole della conquista, ammette sottovoce che «se dovessi salvare una sola cosa fra quelle che ho fatto, sarebbe il monologo di Madeleine».

7. Sperimentazione e vertigine
Very soon I shall know what’s in store for me.
(Myfanwy Piper – The turn of the screw)
Dalla seconda metà degli anni ’90 l’ansia di nuove conquiste non trova riposo. L’immenso successo, che rimbalza nel mondo, di Capriccio e Věc Makropulos ha dato la stura a una frenetica ricerca di approdi, sempre più arditi ed esaltanti, tanto che ci si rammarica che non tutti siano potuti giungere a compimento: «si è parlato a lungo, per esempio, della Gloriana di Britten, che avrei tanto voluto cantare, come già la Marescialla». Proprio con Britten in compenso la Kabaivanska mette a segno un altro colpo da maestro, cimentandosi nell’istitutrice di The turn of the screw (celebre ghost story tratta da Henry James) e realizzandovi una delle più stupefacenti performance della sua vita. È già notevole, per una cantante della sua formazione, superare le difficoltà della scrittura britteniana, per di più in una lingua (l’inglese) in cui ancora non si era provata. Ma è sul personaggio che la Kabaivanska realizza il capolavoro: invece dell’educatrice alle prime armi, con la testa affollata di romanticherie, sogni, strani moralismi (e, sottosotto, inconfessabili mostri), l’artista - splendida sessantenne - si inventa una di quelle inflessibili tutrici d’altri tempi, che oppongono ai mali del mondo la smorfia di una severità grigia e puritana: la sua governess si staglia altera e luttuosa, come un monumento di probità vittoriana, contro gli spettri che popolano il maniero di Bly e la propria coscienza.
Ugualmente sensazionale sarà il successivo debutto nella Voix humaine di Poulenc su testo di Cocteau, in cui una donna al telefono implora il proprio amante – per un’interminabile notte - di non abbandonarla.

"Solo in scena per un’ora, il personaggio brancola in una condizione di moralità sospesa, smarrito nel proprio incubo. La grande difficoltà è riuscire a tenere il pubblico in questo continuo punto interrogativo, senza permettergli di placarsi nella sensazione di afferrare il personaggio".

A latere di questa spregiudicata “corsa al difficile” si collocano alcune immersioni - ugualmente stupefacenti - nel teatro considerato popolare: dapprima Die lustige Witwe di Lehár, apoteosi dell’operetta viennese, poi addirittura un musical, Lady in the dark, agitato esperimento americano di Kurt Weill. Ancora una volta le rotte della Kabaivanska sono senza precedenti. In altri paesi (in America e nella Mitteleuropa) le barriere fra teatro colto e popolare sono più permeabili; in Italia invece simili contaminazioni potevano ancora - nell’ultimo ventennio del secolo scorso - dar scandalo. Forte del suo ascendente imperiale, l’artista non ha difficoltà a rovesciare convenzioni e reticenze e addirittura si diverte – anticipando una delle maggiori rivoluzioni dei nostri tempi - a collegare queste esplorazioni “pop” alle svolte più intellettualistiche del repertorio. Hanna Glawari nasce nel 1985 fra due debutti sofisticati come Armide e Capriccio; Liza Elliott fiorisce nel 2000 a fianco di Jenůfa e La voix humaine. Trionfale, in entrambi casi, è la risposta del pubblico: illinguaggio frizzante e nostalgico di Lehár conviene idealmente alla poetica dell’interprete, la quale però risulta meno convinta a proposito di Lady in the dark. Il personaggio dell’imprenditrice cinica e manipolatrice sarebbe perfetto per il suo trasformismo e umorismo pungente, ma in questo caso non si sente aiutata dall’allestimento. Resta comunque l’incredibile lezione di una primadonna che, a quarant’anni di carriera, non si appaga di alcun traguardo e (vinta la sfida con Gluck e Strauss, Janáček e Poulenc, Britten e Šostakovič) trascina anche Kurt Weill nel proprio orizzonte.
Ad apertura del nuovo millennio, la Kabaivanska affronta a Napoli la Kostelnička della Jenůfa di Leóš Janáček, sotto la direzione di Vladimir Jurowski e, questa volta, nell’originale ceco. Il debutto è molto atteso, in quanto il personaggio della vecchia infanticida (che uccide il nipote, figlio del peccato, per scongiurare il disonore) è cavallo di battaglia di tante star nell’ultima stagione di carriera. Per la cantante (che anche oggi, tredici anni dopo, splende di vigore e bellezza) è la prima occasione di calarsi nei panni di un personaggio apertamente anziano, che avrebbe potuto inaugurare per lei una nuova galleria di mature signore dell’Opera. Stranamente l’occasione fu lasciata cadere, non contando qualche rada - seppure applauditissima - concessione: la contessa della Pikovaja dama e la prima priora dei Dialogues des Carmelites addirittura con Carsen. Interrogata, si schermisce col suo tipico tuffo scherzoso.

"Sai com’è... oggi l’arte è tanta, la voce meno! In realtà ho moltissimi impegni che non mi lasciano respiro. Seguo i miei allievi non solo nelle aule del conservatorio; li promuovo, li aiuto a trovare scritture, li sostengo quando decollano. Tengo poi masterclasses, intervengo a convegni, presiedo giurie di concorsi e collaboro con teatri. E non dimentichiamo il più recente personaggio del mio repertorio: la nonna!"

8. Il vero nell’arte
Akh, postyl mne etot svet!
(Modest Čajkovskij – Pikovaja dama)
Ora che la sua avventura artistica è tutta sotto i nostri occhi e possiamo correrla in un unico scorcio, ci rendiamo conto che – nonostante l’eccezionale vastità – il repertorio della Kabaivanska presenta costanti significative, che ci aiutano a decifrare la sua poetica. Per prima cosa occorre demolire uno degli equivoci più tenaci: l’etichetta di verista che - forse per la lunga frequentazione di Puccini e del ‘900 storico - le è stata attribuita. Nulla in realtà è più distante da lei del Verismo e di qualsiasi altra poetica che, più o meno apertamente, si ponga l’obbiettivo di mescolare il Vero all’Arte. In una delle nostre prime conversazioni, mi confidò apertamente: «Il Verismo non mi piace. Non capisco come possa piacere. Non è fatto per me». L’assunto è sorprendente, ma dimostrato nei fatti con impeccabile coerenza: di tutti i suoi personaggi, in effetti, solo Nedda germoglia da quell’humus; nessun’altra eroina schiettamente verista (tantomeno Santuzza) è mai apparsa nel suo repertorio. Non ne volle sapere nemmeno di Fedora, personaggio sì verista e bellincioniano, ma dai natali esotici e aristocratici che sedussero anche interpreti coturnate.

"A Bologna mi avevano convinta a firmare il contratto; avevano imbastito una nuova produzione di Fedora appositamente per me. Mentre procedevo nello studio, però, mi rendevo conto che quella musica non mi piaceva. I dirigenti del Comunale mi hanno capita e lasciata libera".

La stessa insofferenza non risparmiò l’amato Puccini, i cui personaggi più espliciti in senso naturalista (Giorgetta - sfiorata a inizio carriera e mai più ripresa - e soprattutto Minnie) furono accuratamente evitati. A sentir lei, la decisione di non debuttare in La fanciulla del West - a dispetto di innumerevoli richieste - era legata al timore per le sciabolate acute e gli impeti declamatori del ruolo.Strano argomento, per un’artista che non si è fatta scrupolo di affrontare Tosca, quasi altrettanto pugnace, ben quattrocento volte nel mondo (caso da annali dell’opera); vien da credere semmai che i costumi aulici e napoleonici dell’eroina di Sardou, i fondali di una Roma lontana e neoclassica ne smorzassero - ai suoi occhi - il cotè scopertamente verista. Inoltre fra Tosca e il mondo reale è posto un grande filtro: anch’essa, come Raina Kabaivanska, è una cantante d’opera, è una diva, è un’interprete; è il personaggio intento a recitare se stesso, trionfo del “meta-teatrale”. A rifletterci, anche Nedda è una commediante. Anche Adriana Lecouvreur ed Elina Makropulos lo sono: la finzione è l’habitat di tutte loro. La contessa Madeleine poi è più che un’artista: è apologo della trasfigurazione dell’umano nell’artistico. Curiosamente, insomma, a dispetto delle sue straordinarie risorse sceniche (la Kabaivanska è un’attrice vera, magnetica, variegata, efficacissima), i personaggi da cui si sente più attratta sono allegorici e anti-realistici, immersi nel limbo della simulazione e dell’utopia. Non è un caso che alcune delle sue incarnazioni più poetiche riguardino donne affette da negazionismo, che non accettano la realtà, se ne inventano un’altra, come Fausta, Margherita, Thaïs, Violetta, Liza Elliott, l’istitutrice del Giro di vite, Tatiana, la protagonista della Voix Humaine e soprattutto Madama Butterfly, che respinge e contraddice con incredibile forza la sua triste realtà, si impone di non vederla benché sotto gli occhi di tutti e la sostituisce con un palcoscenico fiorito e diroccato, irrimediabilmente finto.

Che siano teatranti, mentitrici, ammaliatrici o semplicemente metafore di qualcos’altro, le più incisive incarnazioni di Raina Kabaivanska hanno in comune un rapporto contraddittorio con la realtà, che è loro nemica proprio come la Verità (nell’ottica della cantante) è nemica dell’Arte. Per lei l’Arte è sublimazione ieratica, non ossessione diautentico; è acuto e sofisticato cerimoniale che pone l’interprete su un piano più alto del verisimile. Se vuol definirsi artista, l’interprete - a suo giudizio - può affidarsi solo alla tecnica: nemmeno l’umana partecipazione ai dolori del personaggio è ammessa. «Se l’artista piange» è solita ripetere ai suoi allievi «il pubblico non piangerà».
Una volta le ho chiesto se esistessero personaggi nei confronti dei quali avesse provato una sorta di comunità psicologica, di empatia emotiva e se magari li avesse scelti proprio per questo. La risposta mi è giunta seria, perentoria, senza quell’ironia amabile e pragmatica che sempre accompagna i suoi discorsi.

"Non ho mai cercato affinità umane fra me e i miei personaggi, né ho mai inseguito legami fra le mie motivazioni e le loro. È un approccio che ritengo illegittimo, scorretto. L’interprete non deve confondersi con ciò che interpreta: noi non “siamo” un personaggio, noi “facciamo” un personaggio".
Affermazioni come questa (che istintivamente recuperano autorevoli tradizioni formalistiche) sembrano alludere a qualcosa di molto profondo: un timore forse del corto circuito fra vita e scena, che spiega anche la tenerezza dimostrata nei confronti di ciò che il passato tramanda, il bisogno di nutrirsi della sua lontananza, fosse anche nel gesto studiato ed eloquente, nei velluti vocali e nei mascheramenti, nella malinconia di tanti fraseggi. Avvolgendole nelle figure della mimesi canora, nel mistero sapiente di messe di voce e filature disincarnate, è come se la Kabaivanska avesse protetto le sue creature dall’alito sordido della verità, rendendole però più vere di quanto immaginasse. Le sue Butterfly, le sue Adriane, le sue Madeleine, le sue Manon lottano per il sueño, non per la vida. E se anche, alla fine, è la realtà ad avere la meglio (è questa la loro tragedia), il genio della Kabaivanska è di aver profuso nella loro sconfitta – trasfigurata in eleganza suprema e profondissima lucidità –una verità più grande di qualsiasi Verismo.

MATTEO MARAZZI

Categoria: Backstage

 

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