Editoriale: Il sound mozartiano
Aggiunto il 19 Agosto, 2007
Sul “Giornale” di oggi, domenica 19-08-2007, l’inviato a Salisburgo Pietro Acquafredda fa un resoconto piuttosto interessante su “Le nozze di Figaro” nell’allestimento che, con altri cantanti, aveva fatto parte della serie di recite che l’anno scorso aveva festeggiato l’anniversario mozartiano.
Del DVD che testimoniava quell’evento ha parlato anche il nostro sito con una recensione che sottolineava le peculiarità di uno spettacolo centrato dal regista Klaus Guth sull’erotismo che pervade l’opera mozartiana.
Dicevamo, tra l’altro, a proposito dei tempi staccati da chi dirigeva la rappresentazione, e cioè Nikolaus Harnoncourt: “Questa lentezza di base è stata sottolineata da molti critici, ma spesso senza rilevare un paio di aspetti tipici di Harnoncourt: l’estrema chiarezza espositiva della materia e la leggerezza della trama orchestrale che, pur nella lentezza dell’agogica, riesce a dipanare la materia con molta souplesse. Sono lente, queste Nozze, ma francamente non ce ne si accorge più che tanto, proprio per la sagacia con cui il direttore amministra gli equilibri riuscendo a dare il giusto spazio ad ogni aspetto”.
Quest’anno, invece, la direzione è passata nelle mani di Daniel Harding, l’enfant gatè dell’intellighenzia culturale che sembra ancora cullarsi nei privilegi che tutti gli esperti sembrano volergli attribuire in onore a quell’età che, pur se non più giovane, tale sembra essere tuttora grazie a quella faccia da eterno ragazzino con cui sorride al mondo.
Non sappiamo se effettivamente la sua prestazione sia stata all’altezza dell’evento (quella di Salisburgo è pur sempre una delle principali “piazze” nel panorama culturale contemporaneo), e “in absentia” siamo più che disposti a dare il massimo credito all’inviato del “Giornale”, che ne parla peraltro molto bene; ma le sue ultime performances ci inducono quanto meno ad un minimo di perplessità indotta più che altro dall’impossibilità ad identificare in lui un preciso profiloche lo renda immediatamente riconoscibile nel nutrito parco degli interpreti odierni. In assenza di ciò, per il momento non ci sentiamo di dargli la patente di interprete di riferimento del repertorio mozartiano, che invece concediamo sulla carta ad altri personaggi fra cui lo stesso Harnoncourt, sir Simon Rattle oppure, tanto per stare a quelli più iconoclasti, a René Jacobs.
E questa affermazione ci porta dritti al cuore di un altro problema sollevato da Acquafredda, e cioè che gran parte del merito di Harding stia nei Wiener che possiedono come nessun altro il suono e lo stile mozartiano.
A parte il fatto che, normalmente, il suono e lo stile un’orchestra come quella dei Wiener lo mutuano dal direttore che in quel momento li sta guidando (è una di quelle orchestre di straordinario virtuosismo in grado di “plasmare” il proprio suono sulla base dei desideri del direttore), sarebbe ora di chiedersi quale sia effettivamente questo fantomatico “stile mozartiano” che corre il rischio di essere un’entità persino più enigmatica del suo stesso Autore.
Negli anni che vanno dai primi del Novecento (a partire, cioè, dalle prime testimonianze discografiche, una volta di più indispensabili alla piena comprensione dei percorsi esecutivi), sino a tutti i Sessanta, l’ha fatta da padrona la scuola di area austro-tedesca, profondamente stigmatizzata dai critici di casa nostra che le hanno sempre anteposto il suono di tipo “italiano”, indispensabile – a loro dire (e noi non siamo d’accordo, lo diciamo preventivamente a scanso di equivoci: come sempre stigmatizziamo tutte le affermazioni che cercano di mettere in sella aprioristicamente una “scuola” senza tener conto dei contesti storici) – per poter rendere al meglio le opere dapontiane. Se andiamo a leggere le recensioni, noteremo che – in “Così fan tutte” – viene data larga preponderanza all’edizione live di Guido Cantelli che potrebbe esserne indicato tranquillamente come il più importante deiprimi esegeti di area italiana e, da alcuni critici, modello tuttora insuperato di stile.
Ma quali sono le differenze fra questi modelli?
Sicuramente, agli inizi di queste distinzioni stilistiche, il “sound” tedesco è più brillante e risente di esperienze musicali successive, come per esempio la produzione valzeristica della famiglia Strauss, mentre quello italiano – più calmo e rilassato – ha in sé risonanze che rimandano ad autori come Cimarosa e Paisiello. A ciò contribuiscono, in modo non indifferente, anche le compagnie di canto: è evidente che ci siano differenze stilistiche fra la Susanna di una Graziella Sciutti e quella di Irmgard Seefried, che non possono essere ricondotte semplicemente ad una maggior o minor padronanza della prosodia italiana.
Successivamente tali distinzioni diventano meno evidenti, più che altro per una maggiore globalizzazione del repertorio che porta interpreti italiani come per esempio Riccardo Muti (tra l’altro, uno dei direttori in assoluto più presenti sul podio dei Wiener) a misurarsi con opere di area non italiana. Non è il solo esempio, si capisce: a partire da Arturo Toscanini, grande interprete del Flauto Magico (e non solo, si capisce; ma vogliamo limitarci al repertorio mozartiano), sino a Claudio Abbado, si riesce a vedere uno spostamento in senso mitteleuropeo dei criteri interpretativi che, sino a quel momento, sembravano caratterizzare le interpretazioni del Mozart “italiano” che finisce per perdere quell’aura di “mediterraneità”, a nostro avviso piuttosto impropria, a vantaggio di un’omogeneizzazione dei contenuti che tende ad assimilare le performances. In altre parole, e per esemplificare il discorso, la velocità terrificante che Muti imprime alla propria interpretazione delle “Nozze” non è un carattere italiano – ché, se volessimo identificare una connotazione “italiana” in un’interpretazione di questa opera, la cercheremmo nella rilassatezza estetizzante di un Gui – ma bensì un topos tipicodello stesso Muti, peraltro – a dirla tutta – non diverso in questo da altri direttori a lui completamente distante come, per esempio, sir John Eliot Gardiner. E aggiungiamo: il modo di Muti di misurarsi con le opere di Mozart è molto diverso da quello con cui si confronta con quelle di Cimarosa!
Peraltro, all’opposto ci sta anche la scomparsa di quel carattere da commedia brillante e vagamente “operettistico” che caratterizzava le interpretazioni di area viennese; e questo, ben lungi dal semplificare la questione, non fa che gettarci maggiormente nel dubbio su quale criterio sia più “giusto” per affrontare questo repertorio.
A complicare ulteriormente le cose ci si sono messi anche alcuni “énfants terribles”, alla testa dei quali ci sembra giusto mettere il già citato René Jacobs che, alla testa di complessi di eccezionale virtuosismo e di abituale repertorio barocco, stanno operando una revisione profonda e radicale del modo di eseguire queste opere che, nelle loro mani, acquisiscono fisionomia affatto particolare.
Produzioni discografiche come quelle di Jacobs delle “Nozze”, del “Così” o del “Tito” stanno letteralmente sconvolgendo il branco proponendo un sound che sta alla visione tradizionale – “tedesca” o “italiana” che sia – come Elvis Presley al rock dei uoi tempi: per il momento un apax legomenon, prevedibilmente destinato però a rivoluzionare completamente il modo di interpretare Mozart.
Quali sono i caratteri di questa rivoluzione?
Difficile da sintetizzare il discorso in poche parole: sicuramente quello che risalta ad un ascolto anche superficiale è una maggior asciuttezza espressiva che si evidenzia attraverso dinamiche più serrate e riduzione degli organici orchestrali; un’attenzione maniacale ai recitativi e al loro accompagnamento; un’eliminazione di tutto ciò che rendeva immediatamente riconoscibile il suono mozartiano, soprattutto attraverso un ridimensionamento del ruolo dei legni che non suonano più languidi edinsinuanti. Quello che risulta è un più immediato apparentamento delle partiture mozartiane al repertorio settecentesco di cui è figlio.
Alla fine di tutto ciò, ci sembra che non sia corretto parlare di uno stile mozartiano, soprattutto ai nostri tempi. Lo stile – o il sound, come abbiamo scelto di chiamarlo – è qualcosa che è frutto dei tempi in cui viene plasmato e ha un senso e una ragion d’essere se ad essi viene rapportato, come noi peraltro sosteniamo con convinizione da sempre. È sicuramente presto per capire se il percorso interpretativo di Jacobs porterà a risultati duraturi nel tempo; ma è ora di superare quelle distinzioni prevalentemente scioviniste che sinora hanno bloccato la piena comprensione dei percorsi alla base della storia dell’interpretazione
Pietro Bagnoli