Giovedì, 25 Aprile 2024

The Verdi tenor di Marcelo Alvarez

Aggiunto il 09 Dicembre, 2010


Elenco delle tracce:

1. Aida: Se quel guerrier io fossi
2. Un ballo in maschera: Di’ tu se fedele
3. Un ballo in maschera: Forse la soglia attinse… Ma se m’è forza perderti
4. Luisa Miller: Fede negar potessi
5. Luisa Miller: Quando le sere al placido
6. Luisa Miller: L’ara o l’avello apprestami
7. La forza del destino: La vita è inferno all’infelice
8. La forza del destino: Oh tu che in seno agli angeli
9. Il Trovatore: Qual d’armi fragor poc’anzi intesi?
10. Il Trovatore: Ah sì ben mio
11. Il Trovatore: L’onda de suoni mistici
12. Il Trovatore: Di quella pira
13. I Lombardi alla prima crociata: La mia letizia infondere
14. Ernani: Mercè diletti amici… Come rugiada al cespite
15. Ernani: Nell’esilio, nel dolore
16. Don Carlo: Io l’ho perduta… Io la vidi
17. Macbeth: O figli, o figli miei… Ah la paterna mano
18. Otello: Niun mi tema
19. Requiem: Ingemisco

The Verdi Tenor
MARCELO ALVAREZ



Coro di Milano Giuseppe Verdi
Chorus Master: non indicato
Orchestra di Milano Giuseppe Verdi
DANIEL OREN

Con: Annalisa Raspagliosi e Arturo Chacón-Cruz

Luogo e data di registrazione: Auditorium di Milano 4-11 Agosto 2008
Ed. discografica: Decca, 1 CD a prezzo pieno (o, in alternativa, un download mp3 da iTunes a prezzo ridotto, con libretto completo in file pdf)

Note tecniche di registrazione: notevole e ottimamente spaziata anche nella versione mp3 per iTunes
Pregi: chi si accontenta si accomodi
Difetti: un Verdi dal ciuffo unto
Valutazione finale: images/giudizi/mediocre-sufficiente.png



Se volessimo essere più cattivi di quanto già non siamo, potremmo dire che in questa eletta crestomazia di brani famosissimi manca il celebre “Pippo dammi la mela”, che vediano non è, ma che chiarirebbe bene agli ascoltatori le intenzioni stilistiche del celebre “tenore dal ciuffo unto”.
Questo, per chi non se lo ricordasse, è un tenore che aveva iniziato come Arturo dei “Puritani”; dopo di che ha abbandonato la strada per lui maestra del Belcanto – ovviamente non è per tutti così: c’è cantante e cantante, a ognuno il suo stile – per cui sembrava essere discretamente strutturato, per intraprendere quella del “buono per tutti gli usi”.
Vi sembra che questo concetto contenga una sfumatura fastidiosamente dispregiativa? Allora sostituitelo con “nazional-popolare”, o altro termine di vostro gradimento e di pari ambito semantico: avrete la definizione di questo cantante che, partito con mezzi naturali fra i più importanti mai sentiti (l’ultimo così dotato da Madre Natura era stato più di quarant’anni fa probabilmente Jaume Aragall: un altro maestro dello sperpero), ha scelto di raccogliere il testimone di quella categoria di cantanti che regalano alla folla in delirio un acuto come un pelo del torace, un “O sole mio” o un “Core ingrato”. Qualcosa di molto simile, insomma, a Franco Bonisolli buonanima, a parte probabilmente il proverbiale caratteraccio e, forse (ma lo diciamo sommessamente), una maggior saldezza del mezzo vocale.
Ma com’è il Verdi di Alvarez?
Col ciuffo unto, ovviamente: e ci si perdoni la boutade. Greve, caciarone, urlato o mezzoforte. E questo rilievo, in particolare, fa irritare profondamente l’ascoltatore mediamente scaltrito proprio perché le doti di questo cantante, anche se comunque non arriverebbero mai e poi mai a definire un cantante verdiano di riferimento (per le cui connotazioni sarà meglio andarsi a riascoltare i dischi di Rosvaenge, Wittrisch o di Lauri-Volpi), indurrebbero comunque ad aspettarsi qualcosa di meglio.
Le mezze voci non sono sostenute dal fiato, e infatti sono poco più di un soffio appena esalato.
I singhiozzi hanno ormai ampiamente superato il livello di guardia, segno di problemi di organizzazione vocale o di fraintendimento del concetto di “espressività”.
Per un cantante come lui, ormai da molti anni in Italia o comunque a contatto con il repertorio italiano, si potrebbe e dovrebbe fare qualcosa di più per il continuo raddoppiamento delle consonanti (“l’ombra dei suoni misticci”; “o tecco almen corro a morrir”; “come rucciada al cespite”; “d’araconesse vergine”; “io l’ho perdutta”; e l’elenco potrebbe continuare a lungo), peraltro spesso sbagliate: siamo in una registrazione in studio, non dal vivo, si dovrebbe poter correggere le imperfezioni. E comunque anche questa approssimazione nella cura della pronuncia è la classica parte per il tutto e rende perfettamente l’idea.

Ma l’inizio del disco, in effetti, non è male. Anzi, induce all’ottimismo.
C’è il “Celeste Aida”, che potrebbe insospettire l’ascoltatore che avesse presente la tremenda performance di Londra di quest’anno. Invece no: l’attacco è molto bello davvero. Tutta la prima sezione viene eseguita con un tono assorto e meditativo che è qualcosa che non capita davvero di ascoltare molto spesso; ed è pure bello. Non sarà probabilmente ortodosso dal punto di vista vocale, magari nemmeno completamente riproducibile in teatro, però il disco esiste apposta per questo tipo di operazioni. Poi inizia la seconda sezione e Alvarez ricomincia a mettersi il gel sul ciuffo arrotolandosi le maniche della camicia; il camionista sostituisce il tenore e il brano termina con la consueta esibizione di testosterone. Non solo: l’attacco del si bemolle scoperto di “Ergerti un trono” è proprio brutto e balla mica male.
E, a proposito di balli, il “Ballo in maschera” è un altro cavallo di battaglia, ma anche “Forse la soglia attinse” è cosparsa di sanglot. Nella Barcarola del secondo quadro fa il famoso salto di tredicesima dal la bemolle acuto al do grave su “Irati sfidar” e “Le forze del cuor”: da un punto di vista tecnico è una bella manovra, tra l’altro prescritta dallo spartito, ma non appare particolarmente necessaria alla definizione del personaggio, che invece è quello che ci aspettiamo da un aspirante tenore verdiano.
Nel cantabile della “Luisa Miller” manca totalmente l’abbandono; fatto particolarmente riprovevole in un personaggio sul quale Alvarez ha costruito una fetta della propria recente fama. Non siamo sicuramente fra quelli che amano paragoni con i grandi esempi del passato, esercizio che solitamente giudichiamo sterile e fine a se stesso, ma l’ascolto di Giacomo Lauri-Volpi nello stesso brano ci chiarirà bene i termini del problema. Arrivato a “Amo te sol dicea”, la voce del tenore di Lanuvio si spegne in un’estatica mezzavoce, magari in sospetto di falsettone ma non ci stracceremo le vesti per questo; nello stesso passaggio, Alvarez si produce nell’ennesimo acuto muscolare.
Nell’ampia sezione dedicata al finale del terzo atto del Trovatore – in cui il Nostro duetta con una Raspagliosi non più che gradevole – c’è tutto quello che caratterizza il Verdi dal ciuffo unto di cui parlavamo. Il canto del tenore sul coro nella cabaletta deve essere giustificato da una prestazione che sbaragli, e che invece non viene nemmeno agevolata in sede di rimasterizzazione.
“La mia letizia infondere” ha un piglio pompier che non ci si spiega, oltre ad avere una linea inficiata da talmente tanti sanglot da risultare veramente sgradevole.
“Come rugiada al cespite” presenta alla fine la terribile puntatura che si credeva ormai definitivamente scomparsa e che non c’entra proprio nulla col tono evocativo del brano.
“Niun mi tema” presenterebbe a regola una voce “giusta” per questo ruolo, non artificiosamente iscurita. Ma la virilità è farlocca. La sequenza di “Ah morta, morta, morta!” è talmente piena di singhiozzi da far pensare a Canio sul cadavere ancora caldo di Nedda. Sarà probabilmente un ruolo che il nostro toccherà prossimamente, e in cui lo ascolteremo con piacere per disintossicarci della solita pletora di tenorastri bovini, ma sarà meglio per Alvarez ragionare un po’ sullo stile, altrimenti sembrerà solo un Domingo col ciuffo unto.
Ottimo invece l’attacco di “Ingemisco”: smarrito comme il faut e chiuso con una bella mezza voce sul “…parce Deus”. Poi però verso la fine del brano, il nostro recupera la solita emissione che procede a colpi di sanglot sino ad un acuto davvero poco bello.
Dirige alla garibaldina Oren, che non si fatica ad immaginare degno accompagnatore di cotanto tenore.

Bastano gli acuti (nemmeno tanto belli, e decisamente molto problematici dal vivo, almeno a quanto fatto sentire nell’Aida di Londra di quest’anno) presi alla garibaldina per definire “verdiano” un tenore?
Nossignore: occorre gusto, sensibilità, capacità di sfumare – protratta per tutto il brano, e non solo accennata –, virilità, buon gusto, omogeneità dei registri, abbandono della pessima abitudine di utilizzo dei sanglot, fantasia interpretativa: un insieme di qualità, insomma, che giustifichi la registrazione di un disco di arie singole. Le qualità messe in campo da Alvarez definiscono tutt’al più un onesto Verdi da provincia.
Per un cantante della scuderia Decca che abbia la pretesa di collocarsi fra i più importanti del mondo, a nostro personalissimo gusto questo non basta

Categoria: Recitals

 

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