Mercoledì, 18 Settembre 2024

Meistersinger

Aggiunto il 20 Febbraio, 2012


RICHARD WAGNER
I MAESTRI CANTORI DI NORIMBERGA

• Hans Sachs THEO ADAM
• Veit Pogner KARL RIDDERBUSCH
• Kunz Vogelgesang SEBASTIAN FEIERSINGER
• Konrad Nachtigall DIETER SLEMBECK
• Sixtus Beckmesser THOMAS HEMSLEY
• Fritz Kothner GERD NIENSTEDT
• Balthasar Zorn GÜNTHER TREPTOW
• Ulrich Eisslinger ERICH KLAUS
• Augustin Moser WILLIAM JOHNS
• Hermann Ortel HEINZ FELDHOFF
• Hans Schwarz FRITZ LINKE
• Hans Foltz HANS FRANZEN
• Walther von Stolzing WALDEMAR KMENTT
• David HERMIN ESSER
• Eva GWYNETH JONES
• Magdalene JANIS MARTIN
• Un guardiano notturno KURT MOLL

Chor der Bayreuther Festspiele
Chorus Master: Wilhelm Pitz

Orchester der Bayreuther Festspiele
KARL BÖHM

Luogo e data di registrazione: Bayreuth, 25/7/1968

Edizione discografica: Orfeo, 4 CD economici

Note tecniche: suono di eccezionale presenza

Pregi: cast meraviglioso, soprattutto la Jones

Difetti: si percepisce un sostanziale anacronismo: il direttore fa una direzione splendida ma molto “old style” (vedi trattazione)

Giudizio complessivo: images/giudizi/ottimo-eccezionale.png

Trovo fondamentali le iniziative di Orfeo nel recupero – con suono spesso migliorato per l’accesso a matrici più pulite – dei grandi documenti della Neue Bayreuth: hanno già pubblicato due Ring importantissimi (Knappertsbusch 1956 e Krauss 1953, quest’ultimo con suono molto migliore rispetto a qualunque altro precedente).
Non fa eccezione questo splendido documento, che impreziosisce ulteriormente una discografia già di per se stessa ricchissima.

Desumiamo dalle dense note di introduzione i riferimenti al complesso periodo in cui è maturata la rappresentazione di cui stiamo parlando.
Quando, nel 1951, il Festival di Bayreuth aveva riaperto i battenti, i Meistersinger vennero messi in programma in un allestimento di Rudolf Hartmann molto tradizionale. Questo, ovviamente, avveniva in contemporanea al ciclone che Wieland aveva scatenato ribaltando tutte le prospettive sul Ring e sul Parsifal. Rivista con il senno di poi, questa scelta di Wieland e Wolfgang appare particolarmente saggia e prudente: i Meistersinger erano l’opera più compromessa con il precedente regime, era necessario che la materia decantasse un po’. A partire dal 1956 Wieland ritenne che i tempi fossero maturi e pensò la prima di due produzioni per i Meistersinger (la seconda fu nel 1963). Il primo allestimento fu quello che abolì la topografia di Norimberga come tutti avevano imparato a amarla: e fu anche quella che scatenò la stampa come non era ancora accaduto né con il Ring né con Parsifal (“Chi protegge Wagner a Bayreuth”?). Nel 1966 Wieland morì lasciando tutto nelle mani di Wolfgang, il fratello meno geniale ma, in compenso, molto più scaltro come manager.
Nel 1968, Wolfgang si stava appunto dedicando alla preparazione dei Meistersinger del Centenario; alla sua morte, Wieland stava proprio lavorando all’allestimento dei suoi terzi Meistersinger. Il lavoro era già fatto a metà: era già stato scritturato Böhm e buona parte del cast. Al punto in cui era, Wolfgang era a metà del guado in tutti i sensi: pur senza avere la genialità del fratello, aveva già maturato un minimo di autonomia sin dal 1956 quando, a Roma, aveva allestito i Meistersinger a Roma in perfetta autonomia; e soprattutto aveva ben presenti gli scandali scatenati da Wieland a Bayreuth con le due produzioni del 1956 e del 1963.
Lo aspettavano al varco: questo era ben chiaro. È probabile che questa del 1966 sia stata per Wolfgang la prima vera prova di maturità non come “fratello di Wieland”.
La scelta, in buona sostanza, fu questa: sbarazzarsi ovviamente di tutti i residui riferimenti al nazismo – per pochi che fossero ancora – e, nel contempo, di tutte le atmosfere idilliache; ma questo lo aveva già fatto Wieland a cominciare dal 1956, suscitando uno scandalo tremendo.
Wolfgang poi, dimenticati tutti i riferimenti importanti alla libertà dell’Arte e dell’Artista, si concentrò solo sull’aspetto borghese della vicenda, in modo che apparisse come una “allegra e semplice festa popolare” (Dietrich Mack). Naturalmente nemmeno questa scelta, che avrebbe dovuto appagare i tradizionalisti, andò completamente bene: dopotutto eravamo nel 1968. Il giorno dell’apertura del Festival, alcuni esponenti della Sinistra extraparlamentare fecero volantinaggio; gli slogan erano ovviamente quelli tipici dell’epoca.
Comunque, nonostante tensioni e polemiche la prima del 25 luglio (testimoniata da questa incisione) ebbe un notevole successo: oltre mezz’ora di applausi alla fine dello spettacolo, ampiamente giustificati – in mancanza del video – senza dubbio dalla bellezza di quello che gli spettatori ascoltarono.
Wolfgang spiegò, nel corso di una conferenza, i suoi intendimenti nella progettazione dell’allestimento (non solo dal punto di vista scenografico, evidentemente): “Si tratta per Wagner di affermare un ideale estetico, non una sorta di sciovinismo tedesco. L’Arte si pone al di sopra dell’idea di Nazione: questo è il leitmotiv che mi sono sforzato di seguire”.
I critici dell’epoca non condivisero il suo punto di vista: a prescindere dall’aderenza di un assunto come questo con la poetica dei Meistersinger (la Sacra Arte Tedesca), a tutti sembrò che la produzione di Wolfgang fosse assolutamente “tradizionale” nella forma e nella sostanza. L’aggettivo non voleva essere peggiorativo: era solo la banale constatazione che la sua visione registica si accordava con la musica meglio della geniale lettura del fratello. I tradizionalisti ritrovavano le botteghe aperte sul davanti, il panchetto del calzolaio e il lillà; ma non mancava qualche voce di dissenso tipo quella di Karl Löbl del quotidiano viennese “Express” che si chiedeva: “Wieland ha lavorato per niente? Il pubblico aveva l’aria incantata. Nessun fischio è venuto a turbare la soddisfazione dei ‘patrioti’ tedeschi, giovani o meno giovani”; Löbl lamentava il fatto che i Meistersinger fossero stati chiusi nuovamente in una specie di museo nazionale. Più in generale, la stampa lamentava la mancanza di una vera riflessione sull’opera e sui conflitti che ci sono alla base.

Quali siano questi conflitti, che increspano la serena bellezza di uno dei maggiori capolavori della Storia del teatro musicale, oggi lo sappiamo molto bene.
I Meistersinger sono un’opera molto più problematica di quello che pensavano una volta e di quello che penseremmo anche oggi, se ci fermassimo alla patina superficiale dei profumi estivi e dei meravigliosi colori orchestrali, delle baruffe amorose di ragazzi appena cresciuti e di adulti in fregola, di borghesi che affermano i valori della Sacra Arte Tedesca.
La questione non è la sopravvivenza della Sacra Arte Tedesca anche di fronte al crollo di tutte le certezze (era quello che l’aveva fatta amare ai gerarchi nazisti a Bayreuth in prossimità della Caduta degli dei): è invece la libertà dell’Arte e dell’Artista, la poetica della rinuncia, il conflitto fra l’arte del passato e quella del futuro e il conflitto generazionale, l’illusoria vittoria della fantasia sulla ristrettezza di prospettive.
Ben l’ha evidenziato Katharina Wagner nel suo controverso e complesso allestimento proprio a Bayreuth, esaltando al massimo la poliedricità della contrapposizione fra Walther, Beckmesser e, soprattutto, Sachs, spostandone l’asse molto più in là delle banali baruffe sentimentali.
Di tutto questo coacervo, ovviamente, nulla esiste nella direzione di Böhm, l’unico elemento che possiamo apprezzare atteso che dello spettacolo abbiamo solo poche foto. Se le cose stanno come ce le raccontano le cronache dell’epoca, è peraltro evidente che quella di Böhm, fra le più “belle” direzioni che sia dato ascoltare di questo meraviglioso capolavoro, è anche quella che meglio s’accorda con la visione registica di Wolfgang che ripristinava il lillà nel secondo atto e la sfilata delle corporazioni nel terzo.
Ma Karl Böhm, sublime musicista, era rimasto quello della registrazione del 1944: ritmi aerei, vaporosi, tranquilli, sereni; accompagnamento equilibratissimo al canto; senso del ritmo e estrema pulizia formale. Sul piano della pura “aisthesis” non si sarebbe potuto desiderare nulla di meglio. Di tutto il resto, che pure cominciava a essere intravisto (una volta di più, attraverso il fondamentale lavoro svolto da Wieland dal 1956 sino alla sua morte), a Böhm non poteva importare di meno; figuriamoci poi in un contesto come questo in cui si ripristinavano alcuni topoi che appartenevano a una tradizione bozzettistica e oleografica.
Pensare invece, in mano a altri artisti, che cosa sarebbero potuto diventare i Meistersinger nel 1968, anno di conflitti! Pensare, per dire, alla vecchia frase su cui la contestazione sessantottina basava i propri sogni: la Fantasia ucciderà il potere e una risata lo seppellirà. Sembrerebbe fatto apposta per commentare il conflitto fra i tre protagonisti maschili del capolavoro wagneriano; e invece, bisognerà aspettare.

Quanto al canto, la produzione nasceva sotto cattivi auspici.
Erwin Wohlfahrt, il tenore inizialmente scritturato per David era gravemente ammalato (sarebbe morto dopo pochi mesi, a soli 37 anni) e fu sostituito da Hermin Esser. Per Sachs era previsto inizialmente nel cast principale Walter Berry, che però partecipò solo alla generale e se ne andò, sembra per aver steccato; fu sostituito al volo da Theo Adam, scritturato per il secondo cast. Non mi risulta che poi Berry si sia mai più confrontato né con il ruolo di Sachs, né con Bayreuth.
Eppure, nonostante queste topiche iniziali, questi Meistersinger furono un trionfo e, a distanza di così tanti anni, si pongono ancora fra quelli meglio cantati di sempre.
Sugli scudi la grandissima Gwyneth Jones. All’epoca di questa registrazione aveva 32 anni ed era già lei, in tutto e per tutto. Era arrivata a Bayreuth due anni prima come Sieglinde e l’anno successivo avrebbe affrontato Senta e Kundry; il primo confronto con Brunnhilde sarebbe arrivato solo nel 1974, nel Götterdammerüng. Acuti sfolgoranti, espressione ironica e divertita, emissione sana, piena e rigogliosa: questa è probabilmente la Eva più combattiva e coriacea di tutta la discografia e risalta meravigliosamente in un parterre di fanciulle in fiore.
Accanto a lei, da registrare l’eccezionale presenza di un’altra bella e giovane ragazza: Janis Martin, all’epoca nemmeno trentenne. È forse la prima volta che si sente una Magdalene polposa e florida come dovrebbe essere l’amante di un ragazzotto. Canta meravigliosamente!
Debutto vero a Bayreuth per Waldemar Kmentt, all’epoca quarantenne: e altro capolavoro. Il suo Walther risuona di accenti mozartiani e ha colori stupendi, ambrati e acuti sfolgoranti. Eccellente in tutto e affettuosissimo.
Eccellente anche Thomas Hemsley, anch’egli esordiente a Bayreuth, ma non nel ruolo; di questo esiste almeno un’altra testimonianza fondamentale, quella del 1967 diretta da Kubelik (con Stewart, Konya e Janowitz). Un Beckmesser intelligente, secco, puntuto, in possesso di un ottimo declamato asciutto. Sicuramente uno dei migliori interpreti di sempre di questo ruolo.
Pogner è nientemeno che Karl Ridderbusch. Si possono discutere le virtù morali del nostro (noto anche in quegli anni per le sue nostalgie naziste), ma non la sua bravura nel caricare di umanità debordante ogni singola frase; il suo vocione nero ma morbidissimo è, ascoltato ancora oggi, né più né meno che una meraviglia!
Theo Adam non è il mio ideale in questa parte, ma si fa valere sempre: burbero, riservato, apparentemente scontroso ma con un cuore grande così. È chiaramente una visione del problema che non si discosta una virgola dallo Schoeffler di quasi un quarto di secolo prima ma, date le caratteristiche dello spettacolo e il direttore, probabilmente non ci si doveva aspettare nulla di diverso. Mi chiedo se ci fosse stato – per dire – Neidlinger che contemporaneamente faceva lo stesso ruolo a Buenos Aires, cosa sarebbe saltato fuori… anch’io ogni tanto mi lascio andare ai giochini di fantalirica.
I Maestri – come sempre a Bayreuth – sono tutti all’altezza della situazione; fra di essi, eccellente il Kothner di Nienstedt, ma c’è un pizzico di passerella in palcoscenico anche per una vecchia gloria come Treptow.
Coro meraviglioso: e basta sentire la baruffa alla fine del secondo atto in qualunque altra locazione che non sia la Bassa Franconia per rendersi conto di come e quanto conti la compagine all’epoca guidata in modo divino dal grandissimo Wilhelm Pitz.
Una menzione infine per Kurt Moll, che dispiega la propria inconfondibile cavata nel richiamo del Guardiano Notturno.

Insomma, una festa per le orecchie.
Rimane la sensazione di qualcosa di irrisolto, specie tenuto conto del periodo in cui maturò questa registrazione, ma comunque la si rigiri questa rimane una delle più belle versioni del capolavoro di Wagner
Pietro Bagnoli

Categoria: Dischi

 

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