Norma
Aggiunto il 13 Maggio, 2007
Quest’edizione è sostanzialmente coeva alla performance anconetana della Cedolins e segna anch’essa un debutto rilevante della protagonista.
Anche quest’edizione si segnala per un assemblaggio piuttosto fantasioso: un’orchestra e un coro volenterosi ma non da grandissimo evento; una direzione orchestrale la cui principale preoccupazione è la devozione totale nei confronti della Diva (col che si definisce subito che ogni rapporto con la coppia Sutherland-Bonynge è da ritenersi assolutamente casuale); un tenore inadatto all’evento non tanto per mancanza di caratura vocale specifica, quanto per scarsa fantasia esecutiva; e una Adalgisa – qui mezzosoprano – dotata di personalità e fantasia da prima della classe.
Le analogie sono talmente inquietanti da far pensare che sia un paradigma odierno quello di confezionare gli esordi in Norma di primedonne carismatiche in contesti che distolgano il meno possibile l’attenzione degli spettatori dal vero evento, confezionando spettacoli stereotipati in cui risuona – per così dire – solo la performance della protagonista.
Qui, ad onor del vero, siamo in un contesto nettamente superiore rispetto a quello anconetano: vuoi per la statura della protagonista che – con tutto il rispetto – ha un palmares un po’ diverso rispetto alla nostra, oltre che una ben diversa formazione; vuoi per il contesto che, difficoltà per difficoltà, mette in campo nomi ben più interessanti e meglio contestualizzati.
Quanto alla Gruberova, ascoltandola c’è solo da meravigliarsi che non abbia affrontato prima questo ruolo. Se vogliamo, l’unica spiegazione potrebbe stare nel fatto che negli ultimi anni della sua carriera l’attenzione maggiore l’ha riservata ai grandi ruoli Ronzi de Begnis piuttosto che ai Pasta verso cui l’avrebbe portata la sua vocalità intrinsecamente delicata. Perché questo grande ritorno ai ruoli Pasta è segnato da un autentico trionfo, siglato da una vocalità astratta e lunare, lontanissima da quel mordere le consonanti tipico, per esempio, della sua Elisabetta del Roberto Devereux. Manca ovviamente di mordente nel “Sediziose voci” ma, in compenso, il “Casta Diva”, nell’orgogliosa tonalità di sol maggiore, è diafano, languidamente malinconico, estatico come non lo si sentiva dai tempi della prima incisione di Joan Sutherland e concluso da una cadenzina inedita ma affascinante. E il “Bello a me ritorna” ha una sua giustezza che trova l’aplomb nella precisione del ritmo più ancora che nella perfezione del canto d’agilità, una di quelle peculiarità su cui Edita ha costruito la propria fama imperitura.
Splendidi, ovviamente, i passaggi più intensamente lirici e meditativi, come il “Dormono entrambi”, ma anche quelli che richiedono più mordente ed aggressività come il “Sì fino all’ore estreme” che, tra l’altro, può contare sull’appoggio per niente banale del canto della Garanča; e l’ “In mia man” che, se non ha la violenza che riusciva ad infondervi la Callas, in compenso vive delle angosce che la Gruberova ha imparato a distillare nei grandi ruoli Ronzi che le permettono di superare con l’intelligenza quello che la mancanza di forza esecutiva le negherebbe. Insomma, siamo dalle parti del capolavoro, e qui si evidenzia la differenza fra la prestazione del fuoriclasse e l’onesto compitino.
Analogamente rilevante la prestazione di Elina Garanča, che fruisce dell’antica distribuzione del ruolo per mezzosoprano anziché per soprano come era all’origine e come dovrebbe essere sempre; il vantaggio è, intuitivamente, una migliore distribuzione dei piani sonori nei momenti di insieme con Norma. La Garanča è poi una stilista di notevole levatura, che da un punto di vista tecnico può guardare chiunque senza timori e che, per di più, ha già raggiunto una piena maturità artistica che le permette di dare uno spessore drammatico notevole a quello che canta, sin dal suo ingresso per passare ai vari duetti con Norma e con Pollione.
Il quale Pollione è Aquiles Machado, che continua così la recente tradizione dei tenori lirico-leggeri che si cimentano con questo ruolo. Niente di particolare da dire: il personaggio è ben cantato, affrontato con discreto piglio e mantenuto in un ambito di buon professionismo. Certo, ammesso che se ne possano ricavare emozioni, decisamente non abitano da queste parti: Machado, che canta con la propria voce senza pensare di far diventare il proprio personaggio una specie di antenato di Otello, è però molto preoccupato dalle note che deve emettere e rimane piuttosto sulle sue, chiudendosi in una specie di riserbo espressivo che non serve a molto se non a confermare nell’ascoltatore l’idea che il bravo tenore si muova in un territorio non suo.
Più interessante l’agile Miles – un basso che qui in Italia non ha mai goduto (misteriosamente) di fortuna – ma che ha notevoli capacità espressive e che si è costruito un repertorio molto ampio, che spazia dal Barocco a Verdi. Pur nei limiti di un ruolo poco probante, fa la sua onesta figura e si disimpegna con notevole intelligenza.
Ottima la compagine orchestrale e funzionale la direzione di Haider che, ovviamente, si preoccupa di sostenere adeguatamente l’augusta esordiente senza dimostra particolare fantasia, ma lo fa con buona tensione narrativa, logica e buon senso