Venerdì, 26 Aprile 2024

Aida

Aggiunto il 10 Aprile, 2009


Giuseppe VERDI
AIDA

Aida MONTSERRAT CABALLÉ
Radames PLACIDO DOMINGO
Amneris FIORENZA COSSOTTO
Amonasro PIERO CAPPUCCILLI
Ramfis NICOLAI GHIAUROV
Il Re LUIGI RONI
Il Messaggero NICOLA MARTINUCCI
Una Sacerdotessa ESTHER CASAS



Chorus of The Royal Opera House, Covent Garden
Chorus Master: Douglas Robinson

New Philharmonia Orchestra
RICCARDO MUTI

Luogo e data di registrazione: Walthamstowe Assembly Halls, London 2-9 & 11/7/1974
Ed. discografica: Emi

Note tecniche sulla registrazione: eccellente, sostanzialmente senza difetti

Pregi: direzione

Difetti: entrambe le donne

Valutazione finale: images/giudizi/discreto-buono.png


Ricordo ancora un sonnacchioso sabato pomeriggio di qualche anno fa: c’erano a casa mia il solito Matteo Marazzi e l’amico Pietro Puca di Napoli. Proposi qualche ascolto dalla recente incisione di “Aida” di Harnoncourt che, per il vero, ascoltavo anch’io per la prima volta. Ascoltammo un po’ di cose, con perplessità crescente, arrivando infine alla “Marcia trionfale”, ansiosi di vedere cosa combinasse l’eclettico direttore austriaco alle prese con un pezzo così nazional-popolare. Dopo circa quattro minuti di quella pena, Matteo mi ordinò sibilando fra i denti: “Adesso basta: metti su Muti”, e io obbedii prontamente: gli accordi di “Gloria all’Egitto, ad Iside” sparati a mille dalla New Philharmonia sotto la ben altrimenti energica guida del Cigno di Molfetta ci riconciliarono immediatamente con Verdi, Busseto, Guareschi, tortellini, parmigiano e Italia intera. Olè.
Il piccolo aneddoto chiarisce, secondo me, meglio di qualunque altra considerazione l’ambito culturale in cui nasce questa registrazione, che ha qualche strana incongruenza, ma che fissa su disco ufficiale un qualunque cartellone teatrale di “Aida” degli Anni Settanta; per chi non ne fosse convinto, basta andare a vedere la recensione dell’edizione scaligera diretta da Abbado due anni prima, in cui differiscono solo protagonista, Messaggero e Sacerdotessa.
È questa l’ “Aida” di Muti o della Caballé?
La risposta a questa domanda è che questa, inequivocabilmente, è la registrazione di un direttore megalomane, anche se eccezionalmente dotato e che sembra dare una più o meno involontaria rispostaalla lettera che Verdi nel 1875 indirizzava a Giulio Ricordi e che viene riportata nel libretto accluso: “... ora è di moda applaudire perfino i direttori, e a me spiace non soltanto per i pochi che ammiro, ma quanto più mi spiace è vedere la robaccia che passa da un teatro all’altro senza posa. Un tempo era necessario sopportare la tirannia delle Prime Donne; ora è necessario sopportare anche quella dei direttori. È arte questa?”. All’epoca di questa reprimenda verdiana, Toscanini aveva 8 anni e avrebbe debuttato undici anni dopo proprio in “Aida”, dimostrando al mondo che, sì, c’era spazio abbondante anche per questa nuova Arte, quella del direttore, una figura che proprio in quest’opera è assolutamente indispensabile per poter distillare quei colori e quei profumi che fanno parte integrante della partitura.
Muti amministra la materia in modo eccellente: a soli 33 anni manifesta una competenza, una professionalità e una personalità che lasciano sconcertati ancora oggi, a quasi trentacinque anni di tempo. Il senso del ritmo è diabolico, ma non meno intrigante è il gioco di colori messi in campo, che rimandano ad un espressionismo che non sarebbe terreno di elezione né di Muti, né tanto meno di Verdi. Questo lo si percepisce soprattutto nel terzo atto dove la seduzione dell’Africa notturna, calda, ricca di profumi stordenti e sensuale di sudore che appiccica gli indumenti alla pelle è evocata non dal canto, bensì dai colori di un’orchestra, quanto a questo aspetto, assolutamente trascendentale e – va detto – meravigliosamente diretta. E il Muti di quegli anni, quello che ancora non aveva intorno a sé l’aura mistica dell’erede di Toscanini, dotato di personalità soverchiante ma non ancora megalomane egocentrico, sapeva accompagnare splendidamente il canto, anche quello di una compagnia come questa che già per lo più si conosceva alla perfezione per lunga frequentazione sui palcoscenici italiani e non.
Con un’eccezione: ovviamente madame Caballè. La quale Caballè, grande distillatrice di suoni filigranati nel suo repertorio di elezione (sostanzialmente certi ruoli Pasta e, discutibilmente, alcuni ruoli Ronzi de Begnis di cui si è più o meno proditoriamente appropriata), nei grandi ruoli verdiani si è sempre trovata alquanto a malpartito. C’è sicuramente, alle quote alte, la bellezza trascendentale di un mezzo vocale che trovava il suo fascino nelle messe di voce, nei pianissimi filigranati, nelle smorzature flottanti, come quella – giustamente ricordata da Elvio Giudici – del do diesis di “Cieli azzurri”. Tutte cose che – si badi – la grande cantante catalana sapeva fare benissimo non solo in studio, ma anche dal vivo.
Però: nelle note basse il suono era spessissimo intubato, sordo e con risonanze di stampo verista che nulla hanno a che vedere con la poetica verdiana in genere e di Aida in particolare; la dizione, soprattutto sui passi più concitati, è fatta di vocali singolarmente prive di consonanti (e poi dicono della Sutherland); l’accento è di un’inespressività talmente piatta da lasciare desolati; le bellurie vocali, messe lì fini a se stesse, senza il sostegno di una verità drammatica degna di tal nome, mostrano pesantemente le rughe e destituiscono di fondamento una lettura che è priva di ogni spessore interpretativo.
È un giudizio pesante?
Sì, in parte probabilmente lo è, e non me ne vogliano i fans più turibolari della grandissima Montsy, ma con Aida non si può barare e il ruolo non può essere costruito solo sui fiatini, per affascinanti che possano essere. Non manca la voce, per lo meno sui settori più alti del pentagramma (non c’è invece in basso, ma non essendo un fanatico vociofilo lo posso perdonare): manca clamorosamente il personaggio, e questo, trattandosi di un’opera teatrale, è un peccato che non perdono a nessuno, nemmeno a Montserrat Caballè.
Sugli altri, sono costretto a ribadire il parere già espresso altrove: questo è un tipico cast da teatro italiano Anni Settanta, qualcosa cioè che ancora oggi fa spuntare lacrime di commozione negli occhi di tutti gli appassionati, anche di quelli che non c’erano ma che la sanno lunga. Quelli, cioè, che sentono una voce di quell’epoca e dicono la solita puttanata di “Avessimo oggi, un cantante così, gli faremmo fare tutto”.
Che Fiorenza Cossotto sia stata una grandissima cantante, non si discute. Che sia stata una celebratissima Amneris, è un’altra verità storica indiscutibile e ben testimoniata da centinaia di recite. La voce, splendida nel settore medio-alto (quello basso è invece singolarmente avaro di armonici), trova in Amneris un territorio di elezione soprattutto nelle sfuriate contro Aida e contro i Sacerdoti, momento quest’ultimo che ha sempre visto scattare in piedi il pubblico in preda al delirio. Se Amneris si limitasse a qualche sfuriata, la Cossotto sarebbe a tutt’oggi senza rivali. Peccato, però, che quello della bizzosa principessa ereditaria sia un ruolo meraviglioso, sfaccettato, ricco di implicazioni psicologiche complesse, connotato da una mania di persecuzione ai limiti della paranoia: l’ultimo, quindi, ad essere veramente adatto al canto monocorde della Cossotto, la cui interpretazione si limita alle sciabolate sonore di cui sopra senza andare a cercare altre ragioni per lei di scarso interesse. Qui, per il vero, a darle ragione c’è anche la direzione di Muti che non mostra eccessivo interesse per l’approfondimento del suo personaggio.
Domingo – all’epoca probabilmente coetaneo di Muti, quindi trentatreenne, a meno di non voler credere alle malelingue che anticipano la sua data di nascita di 7 anni, nel qual caso sarebbe stato di un anno più giovane della Caballè – era già El Tenòr, quindi nel bene e nel male il protagonista che molti amano ancora ed alcuni detestano. Gli si deve riconoscere la capacità non comune di parlare un linguaggio confidenziale all’ascoltatore: su questa dote vive di rendita ancora adesso, negli impegni vocali che ancora si concede. Per quanto riguarda l’annoso problema degli acuti, che forse risentono di un’organizzazione anfibia ai suoi esordi (Domingo aveva iniziato come baritono), trovo interessante un passaggio che si legge sulla sempre eccellente Wikipedia: “Si è spesso discusso se la voce di Domingo sia da classificarsi o meno come autenticamente tenorile (la stessa cosa, del resto, si è detta di Caruso). Classificazione resa più ardua dalla complessa evoluzione vocale nel corso della sua carriera. Nella massima estensione del suo range vocale, Domingo è in grado di emettere note propriamente da basso-baritono (raggiungendo agilmente il Fa della prima ottava), mentre, anche in gioventù, ha sempre ottenuto con difficoltà il Do della quarta (senza essere in grado di emetterlo di petto). Tessitura che lo avvicina a baritoni quali Sherrill Milnes o Thomas Hampson piuttosto che a tenori "puri" come Alfredo Kraus o Luciano Pavarotti (che raggiungono il re della quarta ottava, mentre difficilmente scendono oltre il La della prima)”. Radames è stato uno dei suoi ruoli favoriti, e questo vorrà pur dir qualcosa; solo che, in modo contrario alla Cossotto, sposta l’asse dell’attenzione dello spettatore dal dato vocale a quello interpretativo. Grande atout o furbata, a seconda dei gusti e dei punti di vista: come nel caso della Cossotto parlano le scelte del pubblico, che gli ha sempre tributato un trionfo.
Cappuccilli e Ghiaurov fissano su disco i rispettivi personaggi già abbondantemente rodati in teatro, e lo fanno al meglio delle loro possibilità, ma sempre con una notevole esteriorità. Roni è meno interessante che non in altre registrazioni live, mentre si denota con curiosità la presenza di Nicola Martinucci nella breve ma ispida parte del Messaggero.
La registrazione è – tecnicamente parlando - una festa da godere al meglio con un impianto di tutto rispetto

Categoria: Dischi

 

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