Sabato, 27 Aprile 2024

Tosca

Aggiunto il 03 Giugno, 2017


GIACOMO PUCCINI
TOSCA

• Tosca RENATA TEBALDI
• Cavaradossi MARIO DEL MONACO
• Scarpia GEORGE LONDON
• Angelotti SILVIO MAIONICA
• Il sagrestano FERNANDO CORENA
• Spoletta PIERO DE PALMA
• Sciarrone GIOVANNI MORRESE
• Un carceriere GIOVANNI MORRESE
• Un pastore ERNESTO PALERINI


Coro dell’Accademia di Santa Cecilia
Chorus Master:

Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia
FRANCESCO MOLINARI-PRADELLI

Luogo e data di registrazione: Roma, 1959
Ed. discografica: Decca «Grand Opera» 411 871-2 {2CDS} (1991)ª; Decca «Rouge Opera» 455 871-2 (France) (1997)ª

Note tecniche sulla registrazione: fantastica presa di suono

Pregi: direzione d’orchestra, London

Difetti: Del Monaco

Valutazione finale: images/giudizi/buono-ottimo.png

Tosca è un’opera da orchestra, più ancora che da voci; e questa edizione discografica lo conferma, proponendo una delle più belle direzioni del capolavoro pucciniano.
Ne è artefice uno dei tanti direttori definiti di routine di quel periodo, il bolognese Francesco Molinari-Pradelli. Nato nel 1911, si era diplomato nemmeno trentenne e subito dopo aveva debuttato proprio nella sua città ne L’elisir d’amore. Tre anni prima di questa registrazione, il debutto all’estero, al Covent Garden, proprio in Tosca e – guarda caso – proprio con Renata Tebaldi; l’anno dopo, nel 1957, approda in America, esattamente a San Francisco. Dicunt avesse un carattere piuttosto difficile, ma questo lo accomuna a gran parte dei suoi colleghi; in compenso, il musicista era davvero sopraffino, molto di più di un battisolfa come spesso viene definito in modo alquanto snob.
La sua Tosca è felpata, scura, misteriosa nei momenti più polizieschi; e, allo stesso tempo, molle e languida nei risvolti più propriamente amorosi, in ciò facendo miracoli considerando che razza di sfingi si scambino effusioni. Non arriverà forse al notturno sublime realizzato da Karajan, o al capolavoro post-mahleriano di Sinopoli, ma ci tiriamo molto vicino e, quanto a verità scenica, siamo anche superiori.
Eccellente il dominio di tutta l’opera nel suo insieme, in un modo che va al di là del mero ossequio ai cantanti. L’unico che sfugge al controllo, al solito, è Marione che fa un po’ quello che vuole, ma tanto ci siamo abituati.
Se proprio dovessi segnalare qualche momento, consiglierei l’atmosfera davvero tenebrosa del Te Deum, la tortura e la meravigliosa, luminosa alba su Roma.

La Tebaldi propone una Floria diversissima da quella di Maria Callas ma non meno affascinante e, per certi versi, anche superiore.
Tanto nevrotica, paranoica, esagerata è la cantante greca, quanto placida, femminile, materna è quella italiana. Attenzione: questo non vuol dire che l’interprete sia inerte. In un modo tutto suo, la Tebaldi tira fuori le unghie, alle volte anche platealmente, specie negli affondi verso il basso. In alto, invece, tanto lunga non è mai stata e nel 1959, a 37 anni, la fatica si sente. In mezzo, invece, la voce mantiene il fascino di uno dei materiali più intrinsecamente belli della storia del canto documentata da disco.
Di fatto, questo è probabilmente uno dei pochi ruoli in cui non solo le due grandi Artiste possono essere paragonate, ma anche in cui probabilmente la cantante pesarese si è ritagliata un suo modo di essere preciso, personale, ben identificabile, con una sua storia e ragion d’essere e – a mio personalissimo gusto – una certa qual preferibilità; e, in questo, la vedo diversamente da Elvio Giudici. Ogni volta che ascolto la Callas, per lo più purtroppo a confronto con l’orrido birignao di Gobbi, con tutti i suoi isterismi e le sue scene da tragedienne, non posso fare a meno di pensare al sorriso allarmante della Tebaldi e alla sua finta, pericolosa calma.
Dal punto di vista vocale, dicevo, finché si sta nella zona centrale i conti tornano alla perfezione; quando invece l’espressione diventa più incandescente, l’emissione è più faticosa. In questo senso, il secondo atto è più problematico del primo, ma l’Avanti a lui tremava tutta Roma ha una solennità particolare che merita di essere conosciuta. E il Vissi d’arte, nella sua ben nota inutilità ai fini drammaturgici, offre alla grande cantante l’opportunità di espandere la voce nella zona del passaggio con una cantabilità di una bellezza struggente, eguagliata forse da Germaine Lubin e poche, pochissime altre.

Ma questa è soprattutto la Tosca di Scarpia, nella fattispecie un grandissimo bass-baritono: George London, qui quasi quarantenne. Il cantante canadese, grande specialista di ruoli wagneriani, trovò in Scarpia uno dei propri personaggi migliori, grazie a un eloquio soggiogante grandioso.
Qui non è da meno e giganteggia letteralmente tutto l’arco dell’opera.
Se un appunto gli si può fare, è di essere forse un po’ troppo plateale e violento, mentre altri cantanti sono stati più sottili.
Ma la voce è davvero torrenziale; non se ne sentiranno più così, a questo livello, sino a Bryn Terfel. Il Te Deum, grazie anche all’accompagnamento thrilling di Molinari-Pradelli (i rintocchi delle campane, in particolare, sono davvero oustanding, forse le migliori della sterminata discografia), è un grande momento di teatro. Il secondo atto è un capolavoro di violenza fisica e psicologica. Questo Scarpia è un prevaricatore violento nel più pieno senso del termine. Gli manca la dialettica di un Fischer-Dieskau o di un Metternich, ma lui la mette su altri piani: sugli scudi.

Ancora una volta, quindi, a fare una figura modesta è il tenore, il solito Mario Del Monaco, eroe della scuderia Decca e partner fisso della Tebaldi. Il suo canto, come al solito stentoreo, questa volta è anche discretamente minato nel fiato e quindi balla sul passaggio; inoltre, gli acuti sono presi di forza e sono fibrosi.
La prestazione è globalmente scarsa, tenuto conto del nome importante del cantante. Si va da un Recondita armonia berciato come uno stornello da posteggiatore, con una pessima ovalizzazione della “a” che diventa “o” (Too-scOO-O-OOO, sei tu), a un E lucevan le stelle concluso da un acuto che dura circa 15 minuti (dopo i primi dieci secondi ci si stufa di cronometrarli), ma di una bruttezza davvero mortificante. In mezzo non c’è mai uno straccio di affettuosità, o un eroismo che non sia posticcio. Roba da riascoltarsi mille volte la vocalità sgangherata di un Pippo Di Stefano o il riserbo campagnolo di Bergonzi.

Molto meglio i comprimari. In testa, ovviamente, lo Spoletta di Big Piero, ma Maionica e Morrese sono nell’élite dei migliori di sempre e il Sacrestano di Corena è sempre un must impagabile
Pietro Bagnoli

Categoria: Dischi

 

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