Tucidide ha scritto:L'unico occhio "neutro" sarebbe una telecamera fissa che riprendesse tutto il palcoscenico e non si spostasse mai. Altrimenti, ogni singola azione della telecamera costituisce atto esegetico.
Tucidide ha scritto:Come dicevo in un messaggio precedente, l'unico occhio che rende davvero la sensazione di essere a teatro è quello di una telecamera fissa, che prenda tutto il palco e non si muova.
Mi sono permesso di quotare le due frasi.
Nel primo usi il termine "occhio neutro". Ovvero fai un discorso di carattere, se vuoi, filologico.
Ti poni dal punto di vista del creatore (in questo caso il regista, ma non solo)
Nel secondo abbandoni l'aggettivo "neutro" e parli di "occhio che renda la sensazione di essere a teatro".
Ovvero ti poni dal punto di vista dello spettatore.
Sono due riflessioni leggermente diverse.
Sono sovrapponibili unicamente se si parte dal presupposto che la tecnologia -nel campo del teatro d'opera- "serva" esclusivamente a creare una fotografia il più esatta possibile del reale. E che creatore e spettatore vogliano la stessa cosa.
In pratica: il creatore non vuole che la sua creazione venga alterata nè in meglio nè in peggio.
Lo spettatore vuole... praticamente la stessa cosa.
Sono invece molto diverse se consideriamo la tecnologia un qualcosa che si sovrappone (un segno nuovo, come perfettamente diceva Mat) su un altro qualcosa.
Arricchendolo o sminuendolo a seconda delle competenze di chi è chiamato a gestirla, si capisce.
Può sembrare una questione di lana caprina. Ma non lo è.
Togliamoci un attimo dal video e passiamo all'audio.
Questi argomenti, nel ventennio 50/70 furono oggetto di discussioni e schieramenti.
Walter Legge (producer Emi) sosteneva - e l'ha scritto- che il disco avesse fini esclusivamente conservativi. Ovvero preservare e consegnare ai posteri una fotografia sonora di esecuzioni che altrimenti sarebbero sparite nella polvere dei ricordi.
La sua celebre, pachidermica lentezza nell'accettare le nuove tecnologie (leggi stereofonia) non nasceva solo, come alcuni sostengono, da miopia.
Era anche frutto di una ben precisa poetica.
Lo splendido, ricchissimo, dettagliato suono monaurale degli EMI anni Cinquanta (assolutamente imparagonabile a quello di altre case) era, per lui, lo strumento migliore per perseguire questo scopo di restituzione oggettiva e conservazione di capolavori.
Scopo ovviamente solo teorico. Il fatto stesso di operare lui il montaggio e la scelta dei takes (come nella Tosca-De Sabata) lo rendeva, suo malgrado, "segno" invasivo.
Al polo opposto si collocava l'homo novus, John Culshaw, producer di alcune delle più celebri (tanto per dirne una, il Ring di Solti) registrazioni operistiche Decca.
Il disco, per lui, era qualcosa d'altro rispetto all'ascolto dal vivo. Certo, da lì si partiva, naturalmente, ma la tecnologia ne doveva potenziare il portato. Il famoso marchio "sonicstage" che appariva sui vecchi box operistici Decca ne era il simbolo.
Il "Decca sound" era ed è spettacolare: il fronte stereofonico usato in tutta la sua larghezza, il dettaglio strumentale portato in evidenza con accorte microfonazioni, le dinamiche amplissime, la profondità di campo, i rumori di scena ricreati con suggestiva sapienza ancora oggi fanno effetto.
Con la tecnologia, così scrive, si potevano raggiungere risultati sonori impensabili in un normale ascolto teatrale.
La presenza del producer però era invasiva mica da ridere....
Molti critici accusarono di "falsità" le registrazioni Decca.
Altri invece salutarono quell'uso così spregiudicato, spettacolare, estremo della stereofonia come l'alba di una nuova era e di un nuovo tipo di ascolto diverso e altrettanto valido quanto quello dal vivo.
Quello domestico.
Vedi, sono argomenti che ritornano e che testimoniano (se mai ce ne fosse bisgono) le mille prospettive, evoluzioni, cambiamenti che contraddistinguono la nostra passione.
E adesso mi fermo altrimenti parte un'altra lenzuolata notturna.

WSM