Martedì, 14 Maggio 2024

Backstage: Rigoletto Aix en Provence - di Pietro Bagnoli

Aggiunto il 20 Luglio, 2013

Per chi non lo sapesse, John Wayne Gacy è stato un serial killer americano, stupratore e assassino di bambini, che si vestiva da clown – si faceva chiamare Pogo the clown – per attirare le vittime nella sua casa.
Vedendo il trucco pesante indossato da George Gagnidze in queste performances di Rigoletto, mi è tornato in mente proprio Gacy; sono andato su Internet e ho confrontato la foto, trovando una somiglianza davvero inquietante, troppo perché fosse completamente casuale.
E mi è venuto in mente che nella poetica di Carsen lo sdoppiamento fra realtà e finzione occupa un ruolo fondamentale; e che Rigoletto è l'opera verdiana in cui forse realtà e finzione si confondono più facilmente; per cui, quale miglior ambientazione del circo per le vicende del gobbo, qui clown, e della sua sfortunata e ingenua figlia?
Mantova è un circo. Il Duca è il proprietario del circo. Rigoletto ne è il clown, vive con Gilda in un carrozzone claustrofobico in cui c'è spazio solo per la quotidianità della figlia, giacché i sogni e i ribaltamenti di prospettiva avvengono tutti nella pista in cui ognuno scende a rappresentare la finzione. Esemplare, da questo punto di vista, la location in cui Gilda canta “Caro nome”: seduta su un trapezio che viene lentamente alzato sino a sotto il tendone, per l'occasione illuminato da centinaia di luci, come un cielo stellato.
Rigoletto fa il clown a uso e beneficio dei cortigiani, ma si leva la maschera davanti a uno specchio sbrecciato mentre canta “Il retaggio d'ogn'altr'uom m'è tolto, il pianto”.
Il Duca con un paio d'occhiali in stile Clark Kent si traveste da Gualtier Maldè davanti al carrozzone, poi li butta mentre canta “Parmi veder le lagrime” e si arrovella per la sua bella; e quando sa che è nel suo palazzo, a portata di mano, si spoglia preparandosi al coito e resta a chiappe scoperte: fine della finzione.
Monterone arriva alla festa con un sacco da cui tira fuori il cadavere della figlia, così simile

a quello che poi sarà Gilda dopo il trattamento riservatole da Sparafucile: ecco la maledizione in cui Rigoletto intravede, in filigrana, il proprio destino. E proprio il corpo della figlia di Monterone cadrà sulla scena, avvolto da un nastro, sul pianto estremo di Rigoletto sul cadavere di Gilda.
Gilda vive nella perenne finzione della propria vita, in una cameretta minuscola in cui c'è spazio solo per il lettuccio di quando era bambina, con la carta da parati ormai ingiallita che segna il tempo che è passato: è lì che coltiva i propri sogni, almeno sino a quando non diventano realtà.
Il Duca propone le sue avventure del terzo atto sotto un riflettore e circondato da funi e altri oggetti circensi; davanti a lui, Maddalena si muove come una delle mignottone che nel primo atto facevano vedere tette e culo durante il perigordino.
E via discorrendo.
Si potrebbe continuare a lungo, ma la sostanza è sempre quella: “Rigoletto” è per Carsen il manifesto dell’incomunicabilità, il luogo geometrico dove la finzione dei singoli fa sempre premio sulla realtà, che giunge inaspettata e non prevista come un fulmine a ciel sereno.
Va però detto che, anche poste queste premesse e riconosciuto al vecchio leone che è in grado di creare sempre momenti di notevole tensione narrativa, questa non è la sua regia meglio riuscita. C’è molto didascalismo e molte sottolineature gratuite: tette, culi e le chiappette secche del Duca riempiono inutilmente una scena che, normalmente, con Carsen è scabra e essenziale.
In altri momenti, invece, Carsen riesce a trovare gli stami di una narrazione ricca di poesia e di commozione: è il caso dei contesti già citati di “Caro nome” e di “Pari siamo”.
Ma forse non basta.

La parte musicale è purtroppo molto meno interessante.
Noseda non è male, ma non arriva a definire un percorso narrativo in cui riconoscere il grande interprete.
Gagnidze è uno dei più gettonati interpreti odierni del ruolo di Rigoletto. Lo avevo già visto (e sentito; poco, invero) alla Scala nel raccapricciante spettacolo di Deflo; qui è solo un po’ meglio, ma siamo lontani anni luce dai grandi interpreti del ruolo. Emissione bovina, ma di volume piuttosto basso; c’è però da dire che ha il senso di quello che dice e una discreta musicalità.
Molto meglio Irina Lungu, che ha il suo in modo onesto e con buon senso; non fa gridare al miracolo, ma si fa piacere.
Il Duca è un grigoleggiante Arturo Chacon Cruz: voce lirico-leggera, stornellante, di buona presenza quanto a volume ma piuttosto mal impostata nel passaggio superiore, con acuti che imitano quelli del modello ma senza averne la sfrontatezza e la paraculaggine; in compenso c’è maggior musicalità.
Gabor Bretz non è un vero basso, il che lo mette in difficoltà vocale non indifferente nei panni a lui larghi di Sparafucile, mentre sua sorella – Jose Maria Lo Monaco – si distingue soprattutto per le physique du role.
Così così gli altri
Pietro Bagnoli

Categoria: Backstage

 

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