Backstage: La Donna del Lago di Loy a Ginevra - di Riccardo Rocca
Aggiunto il 14 Giugno, 2010
Una grande interpretazione non ha soltanto il fantastico merito di offrirci una piacevole serata a teatro. Quando storica, essa spalanca, al di là delle cronache contingenti, orizzonti di riflessione inaspettati o prima soltanto latenti. Sono queste le ragioni per cui La donna del lago andata in scena a maggio al Grand Théâtre di Ginevra con la regia di Christof Loy credo meriti le attenzioni di OperaDisc.
LA DONNA DEL LAGO: OPERA O CONCERTO?
Stando alla cronologia di OperaRara la vita esecutiva di questo titolo rossiniano nel XIX secolo tramonta definitivamente con alcune recite triestine del 1860. L’oblio dura un secolo fino ad una ripresa concertante alla Pergola di Firenze nel 1958 con la Carteri e Valletti, seguita da un’esecuzione londinese del 1969 con una giovane ed insospettabile Kiri Te Kanawa. Ma è dopo altre due esecuzioni in concerto, Rai di Torino 1970 protagonisti Caballé e Bonisolli e Bologna 1974 con Gulin e Bottazzo, che, con l’allestimento di Gae Aulenti al neonato Festival di Pesaro nel 1981 e nell’edizione critica di Harry Colin Slim assistiamo all’effettivo ritorno sulle scene de La donna del lago. Alla fine dell’anno è già in cartellone alla Houston Grand Opera con un lussuoso quartetto di protagonisti: Von Stade Blake Raffanti Horne. Nel 1986 si formerà allo Châtelet di Parigi la celebre coppia Blake Merritt che approderà alla Scala nel 1992 con Muti in un nuovo allestimento di Werner Herzog. Altre città più o meno importanti come Nizza Parma e Berlino ospiteranno nel frattempo il titolo con Blake, Lucia Aliberti, la Cuberli o la Gasdia.
È dunque evidente come ancora allo scoccare dell’appuntamento scaligero l’approccio al titolo fosse complessivamente percepito come una riscoperta in corso e poggiasse, al di là di Muti, fondamentalmente su un interesse vocale. Pochi del resto sento essere rimasti sconvolti dal nebbioso paesaggismo di Herzog più che dalle mirabolanti acrobazie di Blake, dagliaffondi di Merritt o dagli armonici della Anderson.
Non fu dunque conseguenza casuale che gli anni successivi all’allestimento scaligero continuino a pullulare di esecuzioni concertanti – Amsterdam, Utrecht, Montpellier, New York, Salisburgo, Genova, San Sebastian, La Coruña, Pamplona, Edinburgh etc. - come ad avvalorare l’idea che una proposta scenica per quest’opera fosse un tentativo in partenza non appagante. E non c’è dubbio che sia l’allestimento di Ronconi per Pesaro nel 2001 sia, ancor più, quello montato da Claire Servais a Liegi nel 2003 abbiano, con il loro pallido – e pure imbarazzato nel secondo caso - didascalismo, riconfermato l’ipotesi che una realizzazione scenica di quest’opera fosse fatica inutile.
LOY: OPERA!
Ma a Ginevra Loy ci ha dimostrato che così le cose non stanno. Perché come sapevamo, ma non sapevamo perfettamente giustificare, La donna del lago è al pari degli altri titoli napoletani di Rossini un capolavoro di teatro, i cui personaggi sono scolpiti con una tale efficacia e maestria, con un tale virtuoso bilanciamento tra elementi tradizionali e nuovi, che il solo pensiero di poterli annacquare in un’approssimativa pennellata di sfondi e spruzzata di nebbia costituisce uno schiaffo all’intera storia della musica.
Via i boschi, via le barche ondeggianti, via le nebbie. Loy capisce che il teatro di Rossini è costruito secondo codici espressivi diversi dal quelli propri del teatro tardo ottocentesco e novecentesco. Questi personaggi non hanno psicologie individuali, non presentano sconvolgimenti emotivi realistici e complessi, non si sviluppano linearmente nel tempo secondo moduli secondottocenteschi. Essi vivono di situazioni vertiginosamente verticali nel loro incarnare lampanti atmosfere morali, sganciate dal contingente e proprio per questo ancora urgentemente attuali per noi. Comprendere questo aspetto ha permesso a Loy di tratteggiare ognuno dei protagonisti con geniale pertinenzamusicale ed espressiva, tra l’altro lavorando sugli interpreti a disposizione con lo stesso scrupolo e la medesima sensibilità che guidarono la mano di Rossini nel cucire la musica sui cantanti che aveva a disposizione a Napoli. Con Joyce Di Donato e Gregory Kunde l’intesa è stata perfetta. Le linee melodiche cantilenanti e vagamente lamentose che Rossini pensa per la Colbran connotano per Loy una figura femminile esclusa dalla società, solitaria e sognatrice. Una specie di seconda Cenerentola, non a caso uno dei cavalli di battaglia della Di Donato. La scrittura vocale di sbalzo, tagliata su Nozzari, sconnessa nei registri, sfacciata nella tessitura con qui Do che tuonano come bestemmie, è invece esattamente quello che Loy disegna su Kunde Rodrigo: un maschio prepotente, grezzo, osannato dalla folla, un eroe popolare; antenato di Escamillo per successo personale, della straussiana Clitennestra per quell’alone di lussuria che Loy sottolinea con il seguito di ubriaconi scozzesi, per altro perfettamente calzante con la musica bandistica che Rossini ripropone nella coda della cabaletta. Loy esalta al massimo il lavoro di sarto teatrale che Rossini ha genialmente svolto nel cucire una tipologia di personaggi sui mezzi vocali evidentemente non più morbidissimi di Nozzari. Mai come questa volta la cabaletta di Rodrigo “Se tra i voti”, così breve e tematicamente irrisolta, è risuonata come un perverso canto di viscida autoesaltazione. Mai Rossini è sembrato così geniale.
Le due arie, di stampo più tradizionale, che Rossini scrive per la Pisaroni e che a Ginevra sono state formidabilmente cantate da Mariselle Martinez, autorizzano Loy ad escludere Malcolm dal nucleo fondamentale delle relazioni, incentrato invece sul terzetto Giacomo-Elena-Rodrigo. Esso diventa dunque un personaggio di volta in volta specchio per gli altri – perfetto doppio scenico e vocale di Elena nel duetto – privo di una vera centralità nella vicenda. Centralità che del resto vediamosbrigativamente accordatagli soltanto nello scioglimento finale, a scopo celebrativo della magnagnimità del sovrano così come era opportuno accadesse nella Napoli della Restaurazione. Loy prevede dunque l’uscita di scena di Malcolm subito dopo la seconda aria e il taglio di alcune battute di recitativo prima del rondò finale di Elena, allo scopo di farla sposare con Giacomo e rendere il “Tanti affetti” un canto di positivo tripudio non dissimile dal “Non più mesta” di Angelina. Se può sembrare una scelta contestabile sul piano meramente testuale, essa si giustifica con la totale aderenza alle scelte musicali strutturali di Rossini secondo le quali è evidente il dualismo tra Giacomo e Rodrigo, la centralità rispetto ad essi di Elena e la presenza del tutto collaterale del personaggio di Malcolm rispetto alle tensioni nodali del dramma.
Se Rodrigo rappresenta una virilità vincente e orgogliosa, quella di Giacomo è rappresentata musicalmente come quella sognante, romantica e sfumata, perfettamente compatibile con la vocalità di Elena al punto di assumerne in prestito la sua stessa melodia, secondo ritorni tematici quasi pucciniani. Loy non esita dunque a tratteggiarlo con abiti eleganti, con tratti idealizzati e nobili e proveniente da una cupa foresta, dalla Natura. Elena può amare soltanto Giacomo, colui che canta l’innovativa “Oh fiamma soave”; certo non può essere in sintonia con un baritenore che rompe con la stretta di una mano un calice di vino, che si esprime secondo forme arcaiche e stilemi vocali che guardano al secolo precedente.
Esaltante è poi il lavoro svolto da Loy sui silenzi della musica di Rossini, sempre valorizzati teatralmente come cesure pronte a caricare di valore quel che succede dopo. Sappiamo bene come questo aspetto sia una delle migliori eredità di Jean-Pierre Ponnelle, regista osannato e retoricamente innalzato da molti a modello assoluto, ma spesso incompreso per gli autentici meriti che vanno ben oltre un generico rispettodella didascalia.
Loy sa anche che il coro non è un elemento di disturbo per una regia, ma uno straordinario personaggio che se usato bene esalta l’insieme ed i caratteri dei singoli protagonisti. Lui lo usa come mai ho visto fare oggi in Rossini: ogni mossa, ogni sguardo dei singoli è perfettamente costruito sulla musica e pensato per creare un’atmosfera interessante. Nulla è affidato al caso neppure per l’ultimo dei tenori. Il seguito di Rodrigo nella sua scena di ingresso dipende letteralmente dal suo eroe e questo ne esalta la personalità in modo strepitoso: tutti sono fermi intorno a lui durante le prime prodezze vocali e si disperdono esattamente nel momento della prima prolissità cadenzale volta proprio a liquidare il momento iniziale. Ma appena a suon di salti e scale vertiginose ritorna la dimostrazione di forza dello scozzese, ecco che tutti si bloccano nuovamente rapiti. Per non parlare dell’aria di Giacomo, in cui i movimenti coreografici di alcune ballerine si sollevano esattamente nel momento in cui Rossini dà slancio cadenzale al pezzo dopo tutti i complessi vocalizzi, così come memorabile è il momento in cui la DiDonato nel finale sussurra teneramente “il silenzio sia loquace” all’orecchio di Giacomo: improvvisamente i coristi, da attenti e coinvolti che erano, iniziano a scambiarsi occhiate incuriosite e interrogative come se non potessero più sentire la primadonna.
PER UNA REGIA DEL ROSSINI SERIO
Pensare in questo modo il teatro di Rossini significa sottrarlo a tutti quei luoghi comuni, ancora imperanti in certe aree della miteleuropa ma anche in certo pubblico nostrano, secondo cui i vocalizzi sarebbero mere concessioni a cantanti d’altri tempi a svantaggio di una seria drammaturgia invece carente. Il teatro di Rossini è invece tutto musicale, strutturale, fatto di situazioni e non di sviluppi. Situazioni che il regista ha il dovere di individuare e mettere in scena. Cercare in esso coerenze osviluppi anacronistici che riguardano le tendenze del teatro musicale di mezzo secolo dopo, significa combattere Rossini, naturalmente perdendo la battaglia. Questo è successo a Pesaro molte volte, da ultimo con la Zelmira, ultimo titolo napoletano allestito la scorsa esatate.
Le conquiste vocali ottenute nei titoli napoletani in questi ultimi trent’anni di Rossini Renaissance aspettano dunque ora di essere compensate anche sul fronte registico, rispetto al quale sia l’invecchiato classicismo dello scenografo Pizzi, sia le abbozzate proposte di Giancarlo Del Monaco (Otello), Daniele Abbado (Elisabetta, Ermione), sia gli imbarazzati e imbarazzanti tentativi di Barberio Corsetti (Zelmira) si dimostrano tutt’ora insoddisfacenti e almeno in parte umilianti la poetica rossiniana.
Gli esperimenti di Loy tra Svizzera e Germania – non possiamo dimenticare il geniale, e altrettanto napoletano, Devereux pensato a Monaco per la Gruberova – confermano invece la necessità di un rinnovamento intelligente di approccio alla regia d’opera anche per quei titoli che, in bilico come La donna del lago tra astrazione classicista e prime increspature romantiche, così bene si prestano oggi a riletture contemporanee, semanticamente economiche ed immediatamente emozionanti.
PER UNA REGIA D’OPERA…SERIA
Nei teatri italiani, ma non solo, continua a valere l’idea che l’attualizzazione degli allestimenti sia una misura innovativa da attivare soltanto ad uno stadio avanzato di accettazione del pubblico di un dato repertorio, ond’evitare un rigetto o la disattenzione verso la parte musicale. Ma questo modo di pensare ha due punti deboli: da un lato relega la rilettura moderna delle opere del passato ad intellettualistico svago per menti sofisticate e pubblici di menti elette (che poi tali solitamente non sono); dall’altro presuppone implicitamente una tragica sfiducia nei confronti di una reale e non museale continuazione nel nostro tempodell’opera del passato.
Nel fomentare questo tipo di mentalità contribuiscono indubbiamente gli esiti sul pubblico che esperimenti registici tra loro antitetici, e parimenti eversivi rispetto al senso delle opere, comunemente deturpano i palcoscenici dei teatri. Da un lato gli spettacoli fuori dal tempo, reazionari e populisti di registi come Zeffirelli che si affiderebbero alle certezze della cosiddetta “tradizione”, dall’altro le sperimentazioni narcisitiche e del tutto scollate rispetto al senso teatrale e musicale che alcuni registi, non solo di area tedesca, spacciano come innovative; entrambe queste tipologie finiscono per delegittimare agli occhi delle masse l’esigenza di conservare (questo verbo non è paradossale) nel nostro tempo quella stessa freschezza espressiva che questi spettacoli dovevano avere al tempo degli esordi.
Il lavoro di un regista d’opera dovrebbe essere quello di cogliere, certo secondo la propria sensibilità, alcuni nodi centrali del dramma musicale e da essi svilupparne un controcanto scenico. Controcanto che però da essi deve generarsi e non da arbitrarie e pleonastiche sovvrapposizioni potenzialmente adattabili a qualunque testo. L’esito sarà inevitabilmente parziale, perché dalla galassia di significati plausibili di un’opera il regista non può che sceglierne alcuni soltanto. Ma essi al quella galassia devono rigorosamente appartenere. La regia di un’opera non può essere un pretesto per idee esterne, anche perché il più delle volte esse nemmeno traggono giovamento da una sottostruttura ad esse estranea. Penso a certi soprusi rossiniani di Dario Fo – le cui proteste politiche trovano indiscutibilmente maggior spessore negli spettacoli da lui in toto confezionati piuttosto che in una lotta impari con i pellegrinaggi a Reims del pesarese - o alle fantasie sul terrorismo contemporaneo mondiale sovrapposte recentemente alla Monnaie di Bruxelles all’Idomeneo mozartiano.
Un ottimo regista dovrebbe prima di tuttocoltivare una spiccata sensibilità da spettatore appassionato per il teatro musicale. Sarebbe un fantastico anticorpo nei confronti da un parte di orpelli e trovate stravaganti, dall’altra della mera restaurazione museale. Se le pagine di saggi esplicativi contenute nei programmi di sala a supporto e giustificazione di una regia devono essere il libretto di istruzioni per poter capire chissà quale elucubrazione personalistica della messa in scena, il lavoro del regista risulta svuotato del proprio ruolo principale, che è quello di svolgere un servizio nei confronti del pubblico. Esse assumono invece un valore prezioso quando diventano facoltativi strumenti di riflessione ex post su una regia al passo con i tempi e rivelatrice di un nuovo frammento di verità sull’opera.
Verità che Christof Loy a Ginevra ha trovato insieme ad una squadra di grandi interpreti. Sono sicuro che anche Rossini ha ringraziato.
Riccardo Rocca
Cavatina di Rodrigo, Gregory Kunde
http://www.youtube.com/watch?v=eP-khveR6Es
Rondò finale di Elena, Joyce DiDonato
http://www.youtube.com/watch?v=zQQzpEiASXc