Martedì, 21 Maggio 2024

Backstage: Fanciulla del West - viaggio semiserio tra la discografia di un'opera particolare - I parte

Aggiunto il 10 Marzo, 2016

Puccini – in una serie di corrispondenze con Sybil Seligman e Giulio Ricordi – esprimeva grande soddisfazione per la Fanciulla del West, da lui considerata la sua opera migliore, per essere riuscito a creare un lavoro che finalmente imponesse una “concezione moderna” dell’opera. E il clamoroso successo alla prima assoluta al Met (Emmy Destin, Caruso, Amato e Toscanini) lasciava presagire un avvenire ricco di repliche. E invece così non fu…. Perché? Cosa manca a Fanciulla per entrare a far parte delle migliori opere pucciniane? A mio avviso una mancanza fondamentale: in un certo senso è l’opera meno pucciniana delle opere di Puccini, ma è opera di fondamentale importanza, senza la quale – sia detto senza mezzi termini – Tabarro e Turandot non sarebbero esistite.

Cosa differenzia Fanciulla dalle altre? Innanzitutto l’opera ha un protagonista diverso dai soliti cantanti. Oltre a Minnie, ovviamente, il ruolo fondamentale lo riveste l’Orchestra, mai in Puccini così in primo piano e soprattutto mai così moderna e sperimentale, al punto da attirare Ravel e addirittura Richard Strauss che più volte ne lodò l’orchestrazione del II atto. Ricordiamo che per quest’opera in orchestra troviamo campane tubolari, eliofoni, banji, arpe modificate, foniche.

Apriamo lo spartito. Basta la prima pagina.

No, scherziamo vero? Ma dove sono finite le melodie cantabili? E questo stile debussista? No, non ci siamo proprio. E questa esagerata orchestrazione? E i legni quadruplicati? E tutto sto sincopato? E gli effetti ottenuti con strane diavolerie? No. Assolutamente no! Ironie e paradossi a parte, sicuramente è un’opera che spiazza.

Naturalmente poi ci sono altre ragioni del relativo successo. Una è la fondamentale “caduta” dell’opera dopo un secondo atto che lascia senza fiato. Il III atto è sia musicalmente sia drammaturgicamente un po’ debole, bisogna dirlo. L’altra è una ragione meramente vocale. Minnie è in assoluto laparte per soprano più massacrante scritta da Puccini, altro che la gelida Principessa: ci vuole una protagonista in grado di reggere una parte vocalmente massacrante, che abbia acuti di acciaio, ma che sia una splendida fraseggiatrice in grado di articolare con proprietà il difficile stile discorsivo del personaggio. Praticamente una voce per Bruhnnhilde con la dolcezza e i piani di una Mimì e il fraseggio articolato di Violetta. Motivo per il quale alcune celebri star non si avvicinarono alla parte, Callas, o addirittura rinunciarono dopo essere state scritturate, Leontyne Price, mica roba da poco. Motivo inoltre per cui le grandi wagneriane hanno sempre deluso nel loro approccio alla Girl of the Golden West. Oltretutto una parte senza arie chiuse, a differenza del fortunato tenore che ne ha due – anzi una e tre quarti. In compenso ci sono una serie di difficili momenti che in palcoscenico danno poca soddisfazione – “Laggiù nel Soledad” e “Povera gente” nel I atto – oltre alla perorazione finale vocalmente massacrante. Il tutto inframmezzato da un secondo atto dove Minnie è in scena praticamente sempre e alla quale Puccini ha regalato una tessitura durissima, della quale spesso si effettuano alcuni tagli, in particolare le famose 16 battute del duetto con Johnson che Puccini etichettò con la famosa frase: “eh, ci vuol gola”.

E poi ci vuole un eccellente direttore d’orchestra, che abbia un approccio “novecentesco” alla partitura, così moderna e così densa, evitando di trasformarla in una massa informe di suono tipo slime. Non è un caso infatti se i migliori risultati – a livello orchestrale – sono stati ottenuti da direttori tecnicamente ferratissimi e grandi conoscitori del repertorio novecentesco: penso a Mitropoulos, Maazel, Sinopoli e, in misura minore, anche Mehta.

La discografia dell’opera riflette esattamente queste problematiche, soprattutto per il ruolo di Minnie, eseguito stabilmente da poche voci, oppure da voci “one shot”sparite poco dopo. Difatto dunque non esiste “la” versione perfetta, alcune sono straordinarie, altre pregevoli, altre davvero scarsissime, ma non esiste la versione da portare sulla ormai affollatissima isola deserta.

Le prime due edizioni sostanzialmente deludono per motivi diversi, poi qualcosa cambia.

1950 - Arturo Basile - Orchestra RAI Milano - Carla Gavazzi - Vasco Campagnano - Ugo Savarese – Warner Edizione un po’ invecchiata. Direttore molto attento alle esigenze dei cantanti, in particolare del tenore, in alcuni punti anche raffinato e che ottiene dall’orchestra un bel suono. Ma nulla più. Non c’è tensione, non c’è suspense nella partita a poker, non c’è colore nelle scene dei minatori nel primo atto. Di contro la Gavazzi è una buona protagonista, forse un po’ troppo lirica e dagli acuti duri ma nell’insieme una buona prestazione. Pessimo, di contro, il tenore. Baritono un po’ troppo “scarpieggiante”.

1952 - Oliviero De Fabritiis - Orchestra Teatro dell'Opera di Roma - Maria Caniglia - Giacomo Lauri-Volpi - Raffaele De Falchi – Ed. GRAND TIER
Testimonianza discografica di un live al Teatro dell’Opera di Roma di cui fatico a comprendere l’utilità. O meglio, del quale fatico a udire le note. Quel poco che si sente però ci parla di una direzione estremamente funzionale come nella tradizione di De Fabritiis e un canto piuttosta verista. Ma davvero il suono è di qualità pessima.

1954 - Dimitri Mitropoulos - Orchestra Teatro Comunale di Firenze - Eleanor Steber - Mario Del Monaco - Giangiacomo Guelfi – Ed. ARKADIA, MYTO, WALHALL – Live
Qui cambia decisamente tutto. Ci troviamo di fronte ad una delle poche edizioni di riferimento dell’opera. La direzione di Mitropoulos è viva, pulsante, un continuo battito cardiaco che anima la partitura. L’orchestra fiorentina dal vivorisponde benissimo alle sollecitazioni del direttore greco che con grande abilità riesce a trovare colori diversi per ogni singola scena del primo atto: brutale nella scena del baro, nostalgico con il pianto di Larkens, delicato e sentimentale quando Minnie racconta l’amore dei suoi genitori. Culmine una sconvolgente partita a poker mantenuta tutta sul filo del rasoio di una tensione cinematografica estremamente affascinante, senza alcun eccesso e senza alcuna caduto di gusto e di urgenza narrativa, complici anche soprano e baritono, qui irraggiungibili. Se si vuole proprio cercare il pelo nell’uovo, Mitropoulos delude un po’ nel terzo atto, in particolare dopo la celebre “Ch’ella mi creda”, dimostrando forse di non apprezzare troppo quel finale davvero così poco credibile, ma come detto prima, la colpa è forse più di Puccini che sua. Brava la Steber, in grado di reggere quasi ogni momento della tessitura mostruosa, delude forse un po’ nella caratterizzazione del personaggio a senso unico. Bravissimo Guelfi, non a caso uno dei baritoni che ha monopolizzato il ruolo di Jack Rance nel corso degli anni. Straordinario Del Monaco che, oltre a sparare acuti eccezionali riesce anche a piegare la voce ad inflessioni non così frequenti nelle sue altre interpretazioni. Eccellenti i comprimari, fondamentali in questa opera.

1956 – Antonino Votto – Orchestra del Teatro alla Scala – Gigliola Frazzoni, Franco Corelli, Tito Gobbi
1957 – Antonino Votto – Orchestra del Teatro alla Scala – Gigliola Frazzoni, Mario del Monaco, Tito Gobbi
Difficile parlare di Fanciulla del West senza parlare di Gigliola Frazzoni, il soprano bolognese strettamente legato al personaggio di Minnie, sia nel bene per le sue prove vocali in teatro sia nel male per alcuni rumours che hanno circondato la carriera del soprano su presunti “ostracismi” di altre cantanti spaventate dalla sua voce. Limitandoci a queste due registrazioni dobbiamo dire che la fama diGigliola/Minnie è del tutto meritata grazie a una splendida voce, ben impostata, ben governata sia negli scarti all’acuto sia negli assottigliamenti. Il personaggio però è un po’ old style. Tito Gobbi è un apprezzabile sceriffo, forse un po’ troppo tonitruante. Partita persa invece, stranamente, per Corelli che soccombe nettamente davanti a un Del Monaco in formissima, a dimostrazione che il ruolo di Johnson (come quello di Ernani o di Chenier) si adattava perfettamente alle corde del tenore fiorentino. Votto dirige con estrema pulizia, correttezza, musicalità, senso del teatro e ottima narrazione. Le sue classiche eccezionali qualità. Ma come spesso accade manca quel senso di urgenza drammatica, di follia narrativa. Le asperità armoniche sono arrotondate in un suono morbido ma un po’ fine a se stesso che non coglie la modernità di scrittura.

Categoria: Backstage

 

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