Werther
Aggiunto il 24 Settembre, 2016
Questa registrazione in lingua inglese, come abitudine per tutte quelle che escono dal serbatoio ENO, fa riferimento a uno spettacolo di notevole successo con la regia di John Copley. Si può discutere molto sull’utilità di fare registrazioni e rappresentazione in lingua inglese di opere del grande repertorio di altri ambiti, lingue e nazionalità; ma è ormai molto più che una tradizione questa che esce nell’ambito della gloriosa Peter Moores Foundation. Senza contare che, spesso (non sempre), questi spettacoli sono nobilitati dalla presenza di interpreti di notevole levatura che, come spesso capita, rendono nella propria lingua molto meglio che in altre in cui sarebbero costretti a pronunce orribili. Per contro, la prosodia della traduzione inglese non è sempre all’altezza, quindi bisogna mettere sul piatto della bilancia i vari elementi; e poi, chacun a son gout.
Iniziamo subito a dire che la registrazione di questo spettacolo vale sostanzialmente solo per la presenza di una stratosferica Janet Baker, vocalmente onnipotente, forse anche troppo per rendere i (tanti) tormenti e la (poca) estasi di Charlotte. Tuttavia, grazie anche alla lingua inglese, lo fa con una tale proprietà da lasciare sconcertati e da proiettarla nelle vette altissime di una discografia per nulla banale. Non c’è un momento solo che venga trascurato, culmine un “Va! Laisse couler mes larmes!” assolutamente perfetto per il bilancio fra intensa commozione e asciuttezza stilistica. E i duetti sarebbero da manuale se il partner fosse alla stessa altezza, il che purtroppo non è.
L’unico difetto, se proprio vogliamo cercare il pelo nell’uovo, è l’età non più verdissima (44 anni al momento della registrazione) che rende poco credibili i tormenti di una fanciulla che dovrebbe essere in fiore.
Paradossalmente, la maggiore maturità si evince più per l’organizzazione vocale che non per l’anagrafe, giacché la Baker è più anziana del suo Werther di soli 4 anni; ma Brecknock sembra un ragazzino davanti a una milfona.
Dicevo della delusione patita con Brecknock. Delusione sorprendente perché mi aspettavo tantissimo da questo bravo cantante di cui ascoltai una volta la stratosferica registrazione di uno dei più mesmerizzanti “En fermant les yeux” che abbia mai sentito, pieno di mezzevoci e di espressioni estatiche.
Ma Des Grieux non è Werther, e i panni dello sfortunato protagonista – il cui primo interprete, giova ricordarlo, fu il belga Ernest Van Dyck, uno che era di casa a Bayreuth e che era abituato a misurarsi con Tristan, Parsifal e Tannhauser – gli stanno davvero molto, molto larghi. Anche ammettendo di considerarlo un prosecutore della tradizione di quei tenori chiari che hanno avuto in repertorio anche Werther, come per esempio Vanzo, Legay e, per certi versi, l’immenso Gedda, gli manca la malinconia, il senso di abbandono, la fusione ideale con la Natura, la ribellione o, in alternativa, la rassegnazione al destino subito. Gli manca la signorilità di Thill e di Kraus, o l’introversione di Kaufmann.
Gli manca, insomma, una cifra interpretativa personale che vada al di là dell’emissione sana che manifesta sin dal suo ingresso, con un “Je ne sais si je vieille” che sembra imbambolato oltre che espresso con un tono stentoreo che meglio funzionerebbe per uno stornello. Le cose non vanno molto meglio nel prosieguo, purtroppo. “Il faut nous separer” vive solo per il tono asciutto, fermo ma allo stesso tempo vibrante di Janet Baker, cantante di classe talmente superiore da costringerci a scomodare Ninon Vallin per trovare un termine di paragone adeguato.
Fra gli altri, segnalo la prova molto interessante di Joy Roberts, Sophie impegnata e divertita. Segnalo solo per curiosità in una parte molto minore il giovane Tomlinson, nel quale faticheremmo a identificare il futuro wagneriano di rango.
Molto bella, infine, la direzione di un Mackerras ispiratissimo nell’evidenziare tutti gli aspetti sturm und drang di quest’opera. Solo che per un’impostazione del genere ci sarebbe voluto un altro protagonista
Pietro Bagnoli