Giovedì, 28 Marzo 2024

Aida

Aggiunto il 21 Luglio, 2013


Giuseppe VERDI
AIDA

• Aida CARLA DRAGICA MARTINIS
• Radames LORENZ FEHENBERGER
• Amneris NELL RANKIN
• Amonasro GIOVANNI MALASPINA
• Ramfis MARIO PETRI
• Il Re ALOIS PERNERSTORFER
• Il Messaggero FRITZ SPERLBAUER
• Una Sacerdotessa non indicata



Wiener Singwerein
Chorus Master: non indicato

Wiener Symphoniker
HERBERT VON KARAJAN

Luogo e data di registrazione: Vienna, 3-2-1951
Ed. discografica: Cantus (e Walhall), 2 CD economici

Note tecniche sulla registrazione: molto buona con pubblico educato

Pregi: direzione variegatissim; in parte Malaspina e la Martinis

Difetti: il resto del cast

Valutazione finale: images/giudizi/discreto.png

I 2 CD che la Cantus Classics ci propone riproducono la prima rappresentazione in forma di concerto al Musikverein – nella Goldener Halle – a Vienna dell’opera verdiana diretta da Karajan. Diciamo subito che la resa audio è molto buona e questo permette di goderne appieno il maggior pregio che questa produzione offre, ossia proprio la direzione. Si aggiunga poi un pubblico molto corretto e rispettoso della rappresentazione (non si sentono né berci o schiamazzi, né applausi fuori posto). Aida (insieme ad altri titoli come Trovatore, Falstaff, Otello, per es.) era una delle opere del Bussetano più amate dal direttore austriaco che, a diversi anni di distanza, ne produsse due edizioni in studio ancor oggi molto attraenti. Accade raramente di ascoltare un Preludio così rarefatto e sottile, nonché ricco di pianissimi, ma è singolare anche l’atmosfera di sospensione che accompagna la comparsa di Aida nel I atto dopo il breve duettino Amneris-Radames. Ma la direzione di Karajan non è solo questo, essa si segnala anche per la sontuosità non pesante, né fracassona con la quale sostiene l’ingresso del Re: solennità che si esprime nella compattezza ma, al contempo, con una tenuta dove la leggerezza è invidiabile.
La scena del Trionfo è condotta molto bene e all’insegna di quel fasto che non decade mai in sonorità da sagra paesana ed ugualmente il finale II, fastosissimo, ma senza eccedere.
Molto belle e suggestivamente cariche di mistero anche le scene ‘religiose’ (I atto II scena: dove le danze sono eccezionali, inizio del III e la parte finale dell’opera). A ciò si aggiunge un coro formidabile per duttilità espressiva nei vari momenti della vicenda. Inoltre bisogna sottolineare che il direttore conduce un buon gioco di squadra con i cantanti (per la verità tutti piuttosto discutibili nella singolarità degli elementi), comprendendo ed esprimendo – sul piano semplicemente strumentale (pensiamo al ribollire orchestrale delle invettive di Amonasro nel III atto e, più avanti, il convulso ritmo che c’è sotto le frasi «Tu Amonasro… il re» di Radames) – i diversi momenti drammatici (laddove i solisti o zoppicano, o sono comicamente enfatici, in una vicenda che allegra certo non è) e offrendo tutto sommato una prova anche qui positiva. Restando alla direzione e alla parte strumentale e corale l’edizione potrebbe portarsi a casa il prezioso bottino delle 6 stellette, ma purtroppo da questo bottino il cast sottrae parecchio. Di esso conoscevo bene almeno 3 nomi per averli ascoltati in altri personaggi: Petri, Fehenberger e la Rankin, gli altri molto meno. M. Petri (alias Pezzetta) interpreta un Ramfis timbricamente accettabile e meno nasale di quanto lo sarà in seguito, offrendoci una discreta prestazione, anche se è manca di un elemento fondamentale: al perentorietà, la crudeltà e l’efferatezza: non è perentorio (il suo «Mortal diletto ai numi» è troppo mite nella sua espressione ed egualmente l’«Ascolta o Re… Son nemici e prodi sono» non è intimidatorio e insolita appare l’accentazione di «Arra di pace e sicurtà…» senza contare che nel Giudizio è più solenne che implacabile) e neppure autoritario come converrebbe a questo odioso personaggio (tigri infami… empia razza, etc.) sul quale Verdi, sappiamo, ha riversato tutto il suo spirito anticlericale (quale differenza con il misericordioso Padre Guardiano!). Però la dizione nitida e un canto sostanzialmente corretto sortiscono in un esito nel quale, pur non comparendovi brutture, si resta a metà della raffigurazione. Fehenberger – protagonista in parte lodevole di un Lohengrin inciso l’anno seguente – appare qui un Radames ‘ammaccato’ nella sua armatura: rigida come la sua pronuncia teutonica e nemmeno un fulmine di correttezza nel suo canto con un registro alto che vacilla già con il «Celeste Aida»; ma l’aggravante di questo cantante è la freddezza da robot con la quale riveste il suo personaggio. Tutti gli interventi di questo Radames sono gravemente deficitari in fatto di espressione (l’«O Re pei sacri Numi» è orrendo). Il duetto con Aida del III atto ci mostra un eroe un po’ piagnucolante, ma sempre rigido nella sua teutonicità (ascoltiamo: «nel fiero anelito di nuova gwerra, il zuolo etiope zi rideztò» e altre perline…) e freddo, senza un briciolo del coté sentimentale della pagina pseudo-seduttiva che sta eseguendo, oltre ai vari errori di dizione e mancanza di duttilità vocale («Il ciel dei nostri amori» è veramente brutto). Mai sentita una esecuzione così distanziante tra due personaggi che nella vicenda dovrebbero essere amanti. C’è da parte del tenore certo volume nel «Fuggiamo… fuggiamo» e nell’autoconsegna a Ramfis, ma è molto poco per impersonare a dovere un personaggio eroico e contraddittorio come Radames. Stessa situazione di difficoltà vocali nei passaggi dal centro all’acuto e una imperfetta dizione le abbiamo anche nel duetto con Amneris dell’atto seguente. Nel duetto finale con Aida, Fehenberger sfoggia soltanto un volume consistente, ma quando tenta di cantare piano mostra una carente preparazione tecnica nell’emettere quel tipo di suoni. In questo caso grazie agli accordi finali che sono affidati all’orchestra che conclude con quei suggestivi pianissimi con i quali aveva iniziato
La Rankin è il terzo elemento a me noto, soprattutto grazie alla prima registrazione di Butterfly con la Tebaldi (dello stesso anno di questa Aida) dove questo mezzosoprano dava un buon rilievo alla mite e consolante Suzuki. Ma Amneris – peraltro opera del debutto della Rankin a Brooklin, nel 1947 con la sorella Ruth quale protagonista – è un’altra cosa: non è mite e, a differenza della cameriera di Cio-cio-san, non vive all’ombra di nessuno, anzi è antagonista proterva. Ora la Rankin si sforza di essere eloquente, ma mancano l’astuzia e la perfidia indagatrice e subdola del primo incontro con Radames («Quale insolita gioia…» e quel che segue). Nell’incontro-scontro con Aida, la Rankin inizia bene con tinte leggere e tentando anche qualche pianissimo suggestivo (la frase «Un Dio possente, Amore», appena alitata è molto bella), ma quando il personaggio richiede aggressività ed ira, queste sono pressoché inesistenti, limitandosi la cantante a non commettere errori di natura vocale. Ne deriva che il «Trema vil schiava» appare piuttosto esteriore e le varie minacce e improperi che ne seguono dicono molto poco fino a culminare nella frase «E apprenderai se lottar tu puoi con me» che fa venir voglia di risentirsi la Bumbry, o la nostra Simionato. Un po’ meglio appare il duetto con Radames nel IV atto – specie per gli acuti – anche se la dizione non è impeccabile. Ma il duetto riesce per il turbinoso e passionalissimo accompagnamento che Karajan sa escogitare. Nella scena del Giudizio, la Rankin non appare convincente, nonostante l’accompagnamento orchestrale lo suggerirebbe con le sue impennate strumentali e a ciò si aggiunge che la difficoltosa articolazione italiana impedisce alla cantante di esprimere la disperazione bruciante del momento.
Nell’ambito della carriera della Rankin c’è da osservare che Amneris è stato uno dei personaggi più eseguiti e del quale esiste un altro ‘live’ di 7 anni posteriore (1958 a Città del Messico, con la Cerquetti, Labò, MacNeil, Corena e Treigle), ma che io non ho mai ascoltato e – guardando alcuni nomi elencati – non mi ispira più di tanto; ciò, tuttavia, non toglie che la Rankin non appare dotata di quel carisma di grande Amneris che si può ritrovare in altri mezzosoprani.
Fin qui i volti e le voci note per le quali – avrete già capito – non c’è da stare allegri. Veniamo ai meno conosciuti….
Il soprano croato Carla (Dragica) Martinis ha una buona e robusta voce (cantò anche Turandot!), ma dizione non impeccabile, né esente da quelle durezze presenti anche nel tenore e talvolta l’interprete appare esagitata ed esclamativa (il «Ritorna vincitor» ci mostra una sufficiente gamma di esempi). Va dato però atto alla Martinis di dare linfa al duetto tra le due principesse: è lei che, davanti ad una Amneris piuttosto esteriore e rinunciataria, si sforza di piegare la notevole quantità della sua vocale a suoni che danno l’idea di certa remissività consona al momento. Nel III atto abbiamo la grande aria (e, aggiungiamo, scoglio) dei «Cieli azzurri», il cui recitativo è afflitto qua e la da espedienti veristi, ma con la bellissima introduzione strumentale dell’aria si passa ad altra atmosfera: la Martinis si mantiene leggera per volume e cura l’espressione nostalgica piuttosto bene, anche se si vorrebbero un maggior rispetto dei tempi e una minore apertura di suono in basso. Però l’espressione e la vocalità sono convincenti e l’arduo do in pp., pur non essendo eseguito a dovere (Arangi Lombardi, Tucci e Caballé restano a mio avviso al vertice), non è malvagio in quanto è rinforzato ed irrobustito e viene premiato da un meritato e fervido applauso. Nel duetto con Amonasro che ne segue, a tratti, la Martinis solo sporadicamente si lascia andare a qualche vezzo filodrammatico con qualche frase troppo insistita o parlata. Incontrandosi con Radames, la Martinis incappa in qualche storpiatura nella dizione, ma – quasi influenzata dal tenore – manca di comunicatività, la stessa che invece con il padre, precedentemente, aveva offerto. Vocalmente la Martinis è però molto più abile rispetto al tenore nel piegare la voce ai prescritti piani e pianissimi. Anche nel duetto finale questa Aida è superiore al suo partner maschile, nonostante la non ideale articolazione dell’italiano ed alcune emissioni in piano piuttosto difficoltose.
Malaspina inizia con certa nobiltà con la sua (falsa) autopresentazione alla corte egiziana anche se non in regola con i tempi (per cui si ‘mangia’ qualche sillaba). Il suo «Ma tu Re, Signore possente…» è accorato e supplice anche se in bilico di intonazione nella parte finale della frase. Il duetto con Aida del III atto si segnala per un morbido ed eloquente «Rivedrai le foreste» anche se in alto il suono va nel naso, però di buona espressività. Quando però l’espressione si arroventa (sorretta da un’orchestra in magica ebollizione sotto la frase «Su dunque sorgete egizie coorti…») non udiamo sbracature e la risolutiva frase «Non sei mia figlia, dei faraoni sei la schiava» è davvero terribile, ma ben cantata e non urlata o ghignata come molti baritoni fanno. Insomma un buon Amonasro, non ideale, forse, ma efficiente che ha il merito di non eccedere neppure nelle frasi del tentato omicidio di Amneris. Di tutto il cast è senz’altro il migliore.
Il basso Pernerstofer è un Re di normale amministrazione (ma ci si chiede se a questo personaggio e con questa vicenda sia concesso di esprimere l’autorità).
Per la dizione e i modi interpretativi F. Sperlbauer ci offre un Messaggero molto prossimo alla macchietta (una sorta di Don Pasquale mal eseguito nel suo breve proclama) ed è ovviamente pessimo. Ignoto il nome della Sacerdotessa, anch’essa in ogni caso mediocre.
Il cofanetto presenta solo la divisione dei tracks, né in internet sono riuscito a trovarne l’icona di questa casa, ma di altre che l’hanno pubblicata.
Luca Di Girolamo

Categoria: Dischi

 

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