Giovedì, 18 Aprile 2024

Forza del destino

Aggiunto il 11 Maggio, 2013


GIUSEPPE VERDI
LA FORZA DEL DESTINO

• Leonora di Vargas FLORIANA CAVALLI
• Preziosilla JOSEPHINE VEASEY
• Alvaro CARLO BERGONZI
• Don Carlo JOHN SHAW
• Padre Guardiano NICOLAI GHIAUROV
• Fra Melitone RENATO CAPECCHI
• Curra NOREEN BERRY
• Trabuco JOHN DOBSON
• Marchese di Calatrava FORBES ROBINSON
• Un chirurgo RYDDERISCH DAVIS

Chorus of the Royal Opera House, Covent Garden
Chorus Master: non indicato

Orchestra of the Royal Opera House, Covent Garden
Sir GEORG SOLTI

Luogo e data di registrazione: Londra, 1 Ottobre 1962
Edizione discografica: Myto, 3 CD a medio prezzo

Note tecniche sulla registrazione: buona anche se afflitta dai rumori di scena

Pregi: la direzione, molti elementi del cast: Bergonzi e Ghiaurov in testa

Difetti: Capecchi e Robinson

Valutazione finale: images/giudizi/buono.png

Non sono poche le opere di Verdi che, nella loro complessità esecutiva, rivelano cambi di umore, di ambienti con personaggi delineati a tutto tondo in preda alle passioni umane più disparate e che ovviamente richiedono capacità davvero notevoli da profondere durante la rappresentazione o la semplice registrazione in studio. La Forza del Destino in questo fa compagnia ad opere come Macbeth oppure Don Carlo e Otello e ciò dimostra come Verdi non solo era un grande uomo di teatro, ma fine indagatore dell’animo umano in tutte le sue pieghe, comprese quelle che non lo coinvolgevano più di tanto (pensiamo alla dimensione religiosa non certo negata dal Cigno di Busseto ma inglobata, potremmo dire, in una visione universalistica dell’umanità che si trova impotente dinanzi ad alcuni eventi particolari, cf. il finale di Don Carlo).
Il presente cofanetto in 3 CD ci presenta una rappresentazione data al Covent Garden di Londra agli inizi degli anni ’60 del secolo passato la cui gestazione fu molto combattuta e contrariata anche da sostituzioni dell’ultim’ora. Grazie al racconto riportato nel fascicoletto interno una serie di circostanze sgradite ai solisti e al pubblico resero difficili queste rappresentazioni. Difficile però non significa cattiva esecuzione. Anzi! Non mi soffermo più di tanto su tali circostanze già evidenziate sinteticamente da un nostro sollecito amico nel forum e passo subito all’esecuzione. La resa audio è buona, ma non poche volte i solisti e le masse sono soggetti a spostamenti e conseguenti rumori di fondo che penalizzano le voci più leggere (prima fra tutte la Veasey).
A dirigere è Georg Solti, che in Verdi aveva già dato prove notevoli (basti pensare all’Aida con L. Price, J. Vickers e Ballo in Maschera con B. Nilsson, G. Simionato e C. Bergonzi) e che produrrà quel Don Carlo così storicisticamente controriformista che ci spiega il motivo per cui l’Infante di Spagna, oltre alle sue difficoltà, non sia stato certamente aiutato dalla famiglia e dalla corte. Direttore spesso criticato nel repertorio italiano (e non solo: qualche ‘fine personaggio’ ha espresso critiche anche sul suo repertorio wagneriano. Io dico un bel «mah…»), qui ci dà una prova di teatro notevole in una partitura accidentata come poche altre dove elemento guerresco e sentimentale, religioso e comico vengono ad incontrarsi e dove il coro ha una grande importanza a partire dal II atto. Un’opera che narra una storia di amori e vendette, ma che ci offre anche uno spaccato di diversi ambienti: popolano, militare, ecclesiastico con tutte le loro contraddizioni.
Elementi diversificati che Solti guida molto bene accendendosi nei momenti più drammatici ed infocati, ma curando bene anche i momenti di religiosità e quelli, in genere, più liricizzanti. Non manca neppure colore nelle scene popolaresche (il saltarello delle reclute prima dell’arrivo di Melitone e del suo sermone è davvero vibrante e festaiolo anche se, nelle sonorità, ci ricorda molto da vicino la furlana del I atto di Gioconda e accanto a questo anche la cosiddetta scena della minestra che apre il IV atto si distingue per la vivacità dei poveri). Altri aspetti contraddistinguono la conduzione di Solti: una intesa abbastanza agevole con i cantanti, ma anche purtroppo alcuni tagli (sparisce tutta la II strofa dell’ «È bella la guerra» con cui Preziosilla si presenta e ahimé anche tutta la scena della vendita degli oggetti di Trabuco). A questo ascriverei anche la tendenza a ‘gonfiare’ un po’ gli effetti interpretativi: per lo sparo, la morte di Calatrava è molto vicina a quella di Cavaradossi in Tosca e, al termine del «Rataplan», abbiamo uno scoppio di cannone un po’ eccessivo, come anche l’ultima nota del finale è tenuta ad oltranza tanto che il pubblico inizia ad applaudire.
Il Coro in genere canta discretamente, ma il suo italiano è “made in UK”: di ciò ci accorgiamo in parte nelle scene del II e III atto, ma soprattutto all’inizio del IV atto dove a questi ‘poveri’, più che la minestra, andrebbe servito il classico thè pomeridiano.
I cantanti rendono, a vario grado, servizio a Verdi e vanno dall’eccezionale al pessimo. Di Alvaro, Carlo Bergonzi ha fatto uno dei ruoli cardine della sua carriera e conosciamo anche l’incisione in studio diretta da Gardelli. Si potrà dire che questo cantante aveva un registro acuto non luminoso, una presenza scenica non certo ‘da divo’, la pronuncia con le sue ‘esse emiliane’. Però io dico: chi se ne frega e aggiungo: Siepi e Valletti non avevano forse la ‘erre moscia’? Qui abbiamo uno scavo della parola al millesimo, espressione da vendere sin dall’inizio della sua comparsa (il «Gonfio hai di gioia il core» del I atto vanta già una tavola di colori ed espressioni da maestro), ed inoltre la romanza del III atto – preceduta dal recitativo «La vita è inferno all’infelice…» – ci mostra un’esecuzione dove la fierezza e le sfumature si alternano in un sapientissimo gioco espressivo. Ci vuole poco a capire perché poi ne sortisce un’ovazione da stadio e siamo in Inghilterra!
Ma anche nelle semplici battute di conversazione Bergonzi imprime ad ogni frase il suo significato; faccio un paio di esempi (ma ce ne sarebbero molti): l’ «Or muoio tranquillo» del duetto della barella e poi tutta la scena della sfida finale tra l’ormai Padre Raffaele e Don Carlo, dove l’antico onore cozza violentemente con la nuova condizione di quest’uomo davvero in preda ad eventi contrari: qui abbiamo davvero scintille!
Una prestazione, a mio avviso, eccezionale e, almeno per me, ne esce il miglior Don Alvaro della discografia ‘live’ e in studio. Teniamo conto che di Bergonzi abbiamo anche un altro ‘live’ della Forza verdiana con la Ligabue registrato alla RAI. Poi vorrei anche spezzare una lancia a favore di questo nostro grande artista (anche se non ne ha bisogno perché la sua carriera l’ha attuata) fatto segno di critica quando invece altri artisti, che continuano a cantare ad oltranza in tutti i registri, hanno avuto anche in giovane età difetti ancor più marcati di Bergonzi e sono stati beatificati ed osannati. E qui mi fermo perché a buon intenditor…. anche se reprimo la tentazione di citare una nota frase del Don Carlo…. ad hoc.
Al pari di Bergonzi, fra le gemme di questa edizione porrei senz’altro Ghiaurov: l’anno precedente aveva dato vita alla Scala ad un’altra figura di religioso diametralmente opposta a P. Guardiano ossia l’Inquisitore in coppia con quel Christoff del quale già cominciava a succedergli (anche in questo ruolo che col basso bulgaro aveva visto il monopolio di Siepi e Neri). La morbidezza di suono e le intuizioni interpretative lo avvicinano senz’altro a Bergonzi: basta sentire il tono commosso con il quale dialoga con Leonora (II atto), ma anche la severità, non rude, con la quale si rivolge a Melitone «Fratello, mormorate?» ed egualmente la solenne perentorietà delle frasi nella scena della vestizione che chiude il II atto. Molto bella e, a tratti, tale da rievocare gli accenti di un Pasero (incisione Cetra di 20 anni prima ca.), tutta la scena finale in cui alla constatazione dolorosa di Alvaro «Morta» risponde con un assorto ed ispiratissimo «Salita a Dio». Magnifica prestazione di uno dei più grandi cantanti che abbiamo avuto e che qui è colto nel suo momento aureo quando al P. Guardiano alternava l’altro grande ruolo di Mefistofele ancora con Bergonzi quale Faust per spiccare il volo con Solti verso quel Filippo II in studio del 1965.
Molto brava è poi la Veasey: leggera vocalmente, ma molto precisa nell’esecuzione, questa cantante ha il merito di conferire giovinezza ad una figura che immagina attraente fanciulla smaliziata e briosa (le battute che commentano la ballata di Pereda nel II atto – «E voi l’amico fido e cortese…Ah gnaffe a me…» etc… – sono divertentissime ed egualmente quelle della scena delle reclute al III). Altre grandi cantatrici hanno eseguita anche meglio il ruolo (difficile anche per la tessitura), però a volte correndo il rischio di appesantirlo. Quello che forse c’è da rilevare è che la dizione anglofona della Veasey finisce involontariamente per trasformare, a tratti, questa Preziosilla nella televisiva e gradevole Minnie Minoprio con tutta la sua gestualità che conosciamo.
La Cavalli ha avuto gran presenza in quegli anni e sostituì la prevista L. Price. C’è da dolersene perché proprio in quel periodo la cantante statunitense incideva la sua prima versione in studio di quest’opera con Tucker e la Verrett diretta da Schippers dando vita ad un personaggio che le è sempre rimasto legato al pari di Aida. La Cavalli non compie guai particolari, però nonostante la sostanziale bellezza del timbro, la comprensione del personaggio, la voglia di fare, mostra alcuni limiti interpretativi e vocali. L’interprete è a tratti enfatica e ricorda nei modi certi personaggi neorealisti, anche perché a tratti (molto limitati, ma presenti) il parlato si sostituisce al canto. Ma poi anche quando canta l’espressione è antiquata. Ce ne avvediamo tanto nell’iniziale «Me pellegrina», ma soprattutto nel «Pace pace mio Dio» dove alla scorrevolezza di Solti, la Cavalli sembra un po’ procedere per i fatti suoi con uno stile che non mi pare commisurato alla visione del direttore e che se confrontato con la sensualità notturna e macerata (L. Price), con l’esistenzialismo amaro (Callas), oppure con l’angelismo quintessenziato (Tebaldi), la Cavalli passa e va… Quanto al canto, si diceva, la voce è bella, ma Leonora è un soprano drammatico che richiede espansioni e robustezza che qui latitano: c’è il suono, ma non quella decisione e quella forza che altre hanno sfoggiato. Inoltre anche nelle emissioni aree ci sarebbe qualcosa da ridire. Prestazione discreta, ma nulla più.
John Shaw è un duro e vendicativo Carlo che canta bene si fa valere soprattutto nei momenti più esagitati in forza di un organo vocale forte e robusto, ma con l’inconveniente, alle lunghe, di riuscire monotono. Ciò soprattutto quando canta con Bergonzi. Tuttavia – e qui va precisato – in quest’edizione abbiamo una delle migliori esecuzioni del duetto Carlo-Alvaro del IV atto perché tanto Shaw quanto Bergonzi centrano mirabilmente il momento drammaturgico di scontro e ne sortiscono, grazie anche a Solti, scintille.
Elementi deboli di questo cast sono il Melitone di R. Capecchi e soprattutto il Calatrava di F. Robinson: il primo sarà stata anche una gloria del canto italiano nel settore dei buffi (aveva già inciso il ruolo in studio con la Callas e Rossi Lemeni e aveva figurato nel ‘live’ di Firenze diretto da Mitropoulos con la raggiante Tebaldi e Del Monaco), ma qui è un guaio perché trasforma questo frate in una macchietta. Per comprendere bene chi sia Melitone occorre conoscere l’ambiente dei conventi maschili nei quali alcuni professano i voti (castità, povertà ed obbedienza, per intendersi) e continuavano fino all’Ordinazione presbiterale, altri invece si fermavano alla sola professione. La decisione e la supervisione sulle loro vite era di competenza dei superiori che stabilivano un doppio noviziato: per i candidati all’Ordine e per i fratelli detti appunto ‘laici’. Cosa succedeva ? Molto semplice: si arrivava ai frati di serie A e B e questo con risvolti pesanti sul singolo che aveva scelto la vita religiosa e a questi fratelli laici erano affidate le mansioni più umili (quindi Melitone non è un clown di mezza tacca, ma un uomo, in qualche modo, ferito dalla propria condizione). Ora la situazione è cambiata e le opere dei fratelli sono state riconosciute perché, a partire dal Vaticano II, la vita religiosa è stata riqualificata per quello che è: per il frate la realtà distintiva più importante resta la professione solenne, non l’ordinazione (che è una vocazione differente aggiunta allo stato religioso). Per cui un superiore di un convento oggi può essere anche un frate non prete. Verdi ci fa sentire le pesantezze della vita di un tempo per un frate laico nella semplice frase di Melitone: «Noi siamo tanti cavoli»: dinanzi ad un superiore che pontifica e che ha i segreti, il compito di Melitone è quello di chiudere la porta, oppure di fare una predica anche sensata nei contenuti, ma sconnessa nelle espressioni: quindi più che buffoneria o ironia si deve sentire anche il disagio della condizione minoritaria e sovente disprezzata. Teniamo conto che, all’epoca della vicenda della Forza del destino, tanti divertimenti anche per i frati – che oggi possono vedere, ad esempio, la televisione, oppure andare a teatro – non c’erano. Spesso in quest’esecuzione il Melitone di Capecchi rimane ancorato ad un modo vecchio che a noi può non piacere, ma plausibile. Questo tuttavia non ci risparmia l’orecchio da risatelle, accenti enfatici, dizione artefatta e modi da Scaramacai (per chi lo ricorda). Nel duetto con P. Guardiano del IV atto va detto che la severità e morbidezza di un Ghiaurov e l’insieme di accenti di Capecchi sono davvero stridenti.
Peggio ancora F. Robinson come Calatrava che entra con enorme voce (è sua la prima battuta dell’opera), ma espressione almeno accettabile. Si trasforma in un vecchiaccio sdentato nello scontro della parte finale del I atto: è senz’altro arrabbiato, ma è anche un nobile, ma di questo sembra dimenticarsi.
Gli altri solisti sono di normale amministrazione, ma la cameriera Curra (N. Berry) è veramente intraprendente.

Il cofanetto presenta come bonus una selezione di un’edizione ‘live’ del 1965 alla Scala de Il Trovatore con Bergonzi, la Tucci, la Simionato e Cappuccilli diretti da Gavazzeni. Ancora Verdi…. Ma non è anche il suo bicentenario?
Luca Di Girolamo

Categoria: Dischi

 

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