Traviata
Aggiunto il 02 Ottobre, 2012
Che Violetta muoia felice fra le braccia di quelli che ha più chiari al mondo è una mistificazione verdian-piavesca già svelata da altri registi, come Decker a Salisburgo o Carsen a Venezia; e persino Sivadier a Aix en Provence. La verità è quella che più o meno tutti ci raccontano adesso, e cioè che Violetta, infelice per tutta la sua vita, muore abbandonata da tutti mentre a Parigi impazza la festa. Qui il concetto viene spinto oltre nel momento emotivamente più coinvolgente della rappresentazione, quando cioè lei morente allunga la foto dei suoi bei giorni andati ad Alfredo che si tira indietro, scappa, e finisce per raggiungere padre, dottore e Annina nel corridoio in mezzo alla platea: ultimo gesto codardo di uno psicopatico complessato e dominato dal padre. E, sia detto per inciso, momento amarissimo, ma di teatro vero, palpitante. Quel teatro che – in modo non dissolubile dal canto – è sempre al centro dell’attenzione di noi appassionati. Ma nella regia di Konwitschny ci sono altre citazioni, a dimostrazione che – a questo punto della storia della rappresentazione – inventare qualcosa di nuovo diventa sempre più difficile.
Se devo dire, sono rimasto piuttosto freddino per la maggior parte di uno spettacolo singolarmente sgradevole nel suo manicheismo: di qui i buoni, e cioè la sola Violetta; di là tutti gli altri, in testa ovviamente un papà Germont che farebbe apparire Scarpia come un terziario francescano, ma anche il resto della comunità che gravita in modo parassitario intorno a Violetta.
In mezzo lui, l’idiota: Alfredo. Pieno di tic, di paranoie, di complessi derivati tutti da un padre che lo ossessiona e che abbraccia in lacrime anche quando si crede tradito da Violetta.
Posso essere sincero? Ne ho piene le scatole di spettacoli così manichei, dalla psicologia tanto elementare. Non è che si debba sempre cedere alla tentazione di “famolo strano”; ma anche così è esagerato. Con tutti i passi avanti che abbiamo fatto nella comprensione delle motivazioni di papà Germont, uno spettacolo così che lo faccia non solo rientrare nel letamaio da cui era uscito, ma che addirittura lo trasforma in una specie di sadico, proprio non appariva necessario.
A meno che, ovviamente, non ci sia il Konzept forte. Qui, invece, c’è qualche idea buona.
Prendiamo la figlia pura siccome un angelo: anziché la solita foto formato ritratto in mano a papà Germont, la figlia appare davvero, anche se non sembra essere in età da marito, giacché trattasi di ragazzina in età peri-puberale o giù di lì. Il che va bene: è chiaramente una scusa, per far sì che Alfredo si levi dai piedi la zoccola. Tanto basta inoltre perché Violetta, novella paladina del femminismo, prenda le parti della più debole – anche la ragazzina appare soggiogata dal padre-padrone – e perché la ragazzina, a sua volta, cerchi di difendere la povera infelice. Una bella alleanza fra due donne in difficoltà, ma non c’è nulla da fare: l’uomo implacabile per loro sarà.
L’altra ideuzza è il finale II: nel suo insulto osceno (in cui arriva a mimare un coito frenetico di pessimo gusto visivo) Alfredo trascina per terra con il sipario strappato, assieme a Violetta, tutta l’umanità che gravita intorno, ivi compreso Douphol che, per una volta, non è il solito tracotante protettore iper-aggressivo e testosteronico, ma un debole verosimilmente cardiopatico, che nel bel mezzo del casino si prende una pastiglia. Tutti giù per terra, dunque, per vergogna o per condivisione dello status e del potenziale destino; e lì rimangono anche all’inizio del terzo atto che incomincia senza intervallo; e a questo punto, durante lo struggente preludio terzo, scivoleranno via per ricominciare coi bagordi, lasciando Violetta da sola. Persino il dottor Grenvil verrà a visitare Violetta moribonda tenendo sulle ventitrè un cappelluccio da festa blu elettrico. Divertente.
Scene spoglie: lo stesso decoro per tutti e tre gli atti. Spazi angusti delimitati da due sipari attraverso cui si muovono folla e protagonisti. E una sedia, in mezzo al palcoscenico, uno po’ spostata alla nostra sinistra: su questa sedia, in piedi, Violetta canterà il suo “Sempre libera”, cadendo poi rovinosamente nel bel mezzo.
Violetta muore dall’inizio dell’opera, questo è ben più evidente rispetto al solito: prima del ballo il medico le fa un’endovena che le permette di sopravvivere ancora un po’. Nel secondo atto è vestita casual, tra l’altro in modo molto pertinente per una donna che vive in campagna. Nel terzo atto muore togliendosi la parrucca, ed è un’altra immagine già vista: Loy, per esempio, lo fa fare a Edita Gruberova nel “Roberto Devereux”.
Spettacolo discretamente interessante, quindi; ma che rimane un po’ a metà del guado e che riesce a coinvolgere solo marginalmente. Anche perché, fermo restando che tutti recitano davvero molto bene, il canto appare outstanding nella protagonista, ma purtroppo reprensibile in tutti gli altri. Ma andiamo per ordine.
Marlis Petersen si appropria di Violetta, ed è già personaggio completo e eccitante. Nata nel 1969, ha studiato anche flauto traverso e pianoforte (parallelamente al canto); ha esordito nel 2004 con ruoli del repertorio di coloratura, che ha coltivato insieme al Lied e alla musica sacra. Queste recite che stiamo analizzando costituiscono il suo debutto come Violetta; ed è un debutto pesante, di quelli che rimescolano le carte. Il canto liquido, mesmerizzante, ricco di sfumature e, nel contempo, di aggressiva percussività; la completa compenetrazione nel personaggio; tutto contribuisce a creare una protagonista di un fascino irresistibile.
Al suo fianco, purtroppo, il deserto.
Il tenore Giuseppe Varano, per esempio, a vedersi è geniale: sembra John C. Reilly in “Chicago”, di Bob Marshall. Ma il canto proprio non va. Volendo, avrebbe materiale vocale ben più che interessante, che tra l’altro gli permette un repertorio vario e difficile (sul suo sito, per esempio, vengono segnalati tra gli altri ruoli anche Manrico, Stabat Mater di Rossini e Faust). Ma l’intonazione è davvero problematica e la musicalità difficile.
Peggio di lui – molto peggio, in realtà – il baritono James Rutherford, che massacra in modo ignobile la propria parte muggendola.
Peggio ancora i comprimari, complessivamente pessimi esponenti della provincia austriaca che, quanto a questo specifico aspetto, sembra persino peggio di quella tedesca. A parte gli scherzi, raramente si era sentita un’accozzaglia così scarsa in ruoli che, una volta, costituivano il sale di qualunque rappresentazione operistica. Ne parlavo qualche tempo fa col grandissimo Piero De Palma.
Anche a non voler essere passatisti, sembra davvero passata una vita…
Pietro Bagnoli