Venerdì, 29 Marzo 2024

Don Carlo

Aggiunto il 18 Luglio, 2010


Giuseppe VERDI
DON CARLO
(versione in 4 Atti)

• Filippo II CESARE SIEPI
• Don Carlo MIRTO PICCHI
• Rodrigo ENZO MASCHERINI
• Il Grande Inquisitore MARCO STEFANONI
• Un frate GIULIANO FERREIN
• Elisabetta di Valois ANTONIETTA STELLA
• La Principessa Eboli ORALIA DOMINGUEZ
• L’Araldo reale/Il conte di Lerma WALTER ARTIOLI
• Tebaldo EDY AMEDEO
• Voce dal Cielo SANTA CHISSARI



Coro di Torino della RAI
Chorus Master: non indicato

Orchestra sinfonica della RAI
MARIO ROSSI

Luogo e data di registrazione: Torino, 30 giugno 1954
Ed. discografica: GOP 66.311 (2 CD)

Note tecniche sulla registrazione: suono generalmente buono, ma un po’ ovattato verso la fine

Pregi: Siepi e Picchi poi la direzione collocabile tra l’onesto e il buono e così il coro

Difetti: il resto del cast

Valutazione finale: images/giudizi/discreto-buono.png


« Nel novero delle edizioni del Don Carlo recensite in Operadisc, siano esse in 4 o 5 atti, mancava questa esecuzione live di notevole pulizia fonica e che, solo superficialmente, può essere considerata un lavoro scialbo o scorretto o all’insegna del pressappochismo. Questo va detto per ricordare come negli anni ’50 quest’opera è stata un po’ la palestra delle sperimentazioni e dei tagli. Guardando la discografia di quegli anni qualche pezzo da museo degli orrori esecutivi c’è e questa edizione lo manifesta per contrasto, in quanto possiamo dire che se qui tutto non è perfetto, neppure nulla è tirato al caso. Anzitutto minimi sono i tagli (la ripresa di «Carlo ch’è sol il nostro amore» nel terzetto salottiero del I atto, oppure sempre nello stesso atto, più avanti, la sezione «O prodigio! Il mio cor s’affida…» nel duetto Don Carlo-Elisabetta. Appare invece più sacrificato il IV atto in cui sono assenti la sezione «Si l’eroismo è questo e la sua sacra fiamma… Si, con la voce tua quella gente m’appella» e la ripresa dell’unisono «In tal di che per noi non avrà più domani»), e tanto la Canzone del velo (con le relative battute di conversazione iniziali tra Tebaldo le donne ed Eboli), quanto il «Non pianger mia compagna» sono integrali. Elemento, quello dei tagli, da non sottovalutare se si pensa che bacchette più famose di Mario Rossi usavano amputare (Karajan fra tutti a Salisburgo nello stesso periodo) e bacchette davvero trasandate ci proponevano versioni dove il disordine se non regnava sovrano, almeno aveva buon gioco (pensiamo alle due edizioni dirette da Santini e specialmente la prima).
Ciò che si nota in questa edizione, dicevo, una notevole correttezza: l’orchestra non vanta timbri sopraffini o sfumature da centellinare, ma è solida ed il direttore Rossi ha idee chiare e funzionali alla narrazione della vicenda, concedendo all’ascoltatore un raffinato inizio del II quadro del I atto (i giardini) che prosegue con un buon accompagnamento della Canzone del velo. Ma va apprezzato anche la conduzione corretta ed ordinata che udiamo nella scena iniziale del convento di S. Giusto, soprattutto nei trapassi e nei raccordi, uno fra tutti quello che prepara la frase di sortita del baritono «È lui desso, l’Infante». Se si pensa a come Santini nello stesso anno organizzava i medesimi accordi (suono simile ad una cascata di barattoli) qui c’è da tirare un sospiro di sollievo. Ma anche l’iniziale coro dei frati («Carlo il sommo imperatore») non è né imbambolato, né altisonante, ma dà l’idea di certa visionarietà che ben si attaglia al momento… Come molto godibile appare l’accompagnamento della grande scena dell’Autodafé dove non abbiamo fragorose trasandatezze ma, specie alla fine del II atto, buone e fastose sonorità. Molto buono anche l’accompagnamento all’«Ella giammai m’amò» di Filippo II ed egualmente la scena del carcere. Sarebbe buona, ma non del tutto commisurata con il timbro e i modi esecutivi della Stella l’introduzione a «Tu che le vanità».
Il cast vocale presenta opacità e squilibri però non è tutto gettare al macero. Siepi – recentemente scomparso – è un grande (e talvolta grandissimo) Filippo II e possiamo considerarlo la degnissima risposta italiana in quegli anni, allo strapotere (e direi anche all’invadenza timbrica, vocale e psicologica, ammantata del tipico esotismo slavo al quale molto, in modo erroneo, è stato perdonato) di Christoff rispetto al quale è nettamente migliore. Intanto è vario nell’accento: dalla imperiosità del duetto con Posa nel I atto, alla terribilità della seconda parte della scena dell’Autodafé (il suo «Disarmato ei sia» è ottimo), alla malinconia esistenzialista di «Ella giammai m’amò» in cui esegue meravigliosamente bene la frase «No amor per me non ha», in tono quasi allucinato e torna poi ad essere imperioso nel duetto con l’Inquisitore al quale replica (alla richiesta di Posa) con un «No, giammai!» secco e senza quelle gigionate caricaturali che si odono. Siepi è energico senza caricare nello scontro con Elisabetta relativo allo scrigno e di sapore molto intimista appare l’avvio che fa del terzetto «Ah! sii maledetto – sospetto fatal», ma anche grandioso nel finale. Questo per quanto riguarda la visione del personaggio, sul piano vocale Siepi vanta una bella voce tipicamente italiana, pastosa con bella dizione (sebbene con un r moscia, che tuttavia dà certo fascino alla prestazione) e diametralmente opposta, come bellezza, alla stentoreità del Christoff a lui coevo. C’è da chiedersi, in merito, perché in studio (pensiamo alla DECCA) non è stata mai allestita un’edizione di Don Carlo con Siepi quale Filippo II (e, magari, con la Tebaldi come Elisabetta). Per fortuna abbiamo diversi ‘live’ del basso milanese.
Buono è anche Picchi che aveva già al suo attivo l’edizione in studio del Cinquantenario verdiano (1951 CETRA diretta da Previtali con Caniglia, Stignani, Silveri, Rossi-Lemeni, Neri e la Sciutti come grazioso Tebaldo): un Don Carlo giovanile, senza particolare fascino timbrico o abilità esecutiva, ma spigliato e profondamente consapevole del significato del personaggio e della sua psicologia. Segnalerei l’affettuoso scambio di battute nei suoi vari incontri con Rodrigo e la malinconia del duetto finale con Elisabetta. C’è da osservare che Picchi era versato per questi personaggi anche spiritualmente e psicologicamente difficili (Peter Grimes, Tom Rakewell, Billy Budd, Oedipus rex sono alcuni personaggi e titoli fuori del repertorio che, negli anni ’50, imperversava) accanto invece a personaggi diametralmente opposti e molto tradizionali (pensiamo a Pollione – ruolo interpretato accanto alla Callas e alla giovane Sutherland nel ’51 a Londra – e a Radames, ruolo con cui ha debuttato come doppio di G. Masini nel 1946, nonché Andrea Chenier e Riccardo del verdiano Ballo in maschera). Cantante, a mio avviso, da rivalutare non tanto per la voce, ma per il coraggio e l’intelligenza con cui ha sondato strade nuove per il suo tempo. Meno attraente il resto del cast a partire a Mascherini, volenteroso ed attento nel delineare il personaggio, ma limitato nella voce e costretto a fare di necessità virtù in certi passaggi scabrosi come i trilli che sono sistematicamente spianati, afflitto da certa nasalità timbrica e con un registro acuto molto modesto. Anche i rari momenti di grandiosità che il valoroso Marchese è chiamato a sostenere non lo trovano a suo agio.
Stefanoni è un Inquisitore in cui la grandiosità e la terribilità vengono a mancare per la scarsa consistenza del registro grave (la tenebrosa e dura frase «Allor son io che a voi parlerò Sire!» lo dimostra), ma nemmeno è assistito da una cura particolare della parola. Allora arrivati a questo punto e tenendo conto che due anni dopo a Firenze con Lo Forese e la Cerquetti ricomparirà Neri (che ha legato il suo nome a questo personaggio) non si capisce perché non si sia pensato a lui in questo allestimento. Più tendente all’espressione lirica che a quella drammatica il Frate (Carlo V) di Ferrein. Delle donne è piacevole la Chissari come Voce celeste, parte tutt’altro che semplice per tessitura che supera bene la densità orchestrale che caratterizza il Finale II ed egualmente le poche battute della Amedeo come Tebaldo (parte in cui si sono cimentate agli inizi grandi artiste: la Sciutti, la Gruberova e persino la Cotrubas. Di quest’ultima esiste un video con la Cernei come Eboli). Più problematico il giudizio sulle due nobildonne – Elisabetta ed Eboli – anche perché c’era già all’epoca qualche termine di confronto e molti poi ne sono succeduti. La Stella aveva una voce solida ma non luminosa, né molto incline alle sfumature rispetto ad esempio ad una Tucci o ad una Cerquetti (lasciamo stare la Tebaldi del tempo, non quella già troppo matura dell’incisione in studio del ‘65). Qui soprattutto al IV atto qualche tentativo si sente e offre qualche buon risultato, ma l’interpretazione è uniforme, non varia e ne emerge un Elisabetta senza particolari notazioni, afflitta anche da certa monotonia del timbro. La Dominguez era un contralto e si sente in una parte come Eboli che comporta incursioni verso l’alto, il registro acuto svela qualche difficoltà. Però ha temperamento, non è l’ideale sul piano del belcanto (la Canzone del velo passa senza grossi problemi, ma senza la lucentezza che si vorrebbe associata alla gioia, considerando che è l’unico momento veramente spensierato di tutta un’opera in cui la tragedia incombe) e insomma una Eboli discreta e nulla più. La Simionato, tanto per fare un nome alternativo, era già sulla breccia e con un coté vocalistico molto più raffinato (Italiana, Cenerentola e Barbiere li aveva già eseguiti, oltre prima Amneris con la Mancini e Filippeschi per la CETRA): con lei, Eboli avrebbe avuto ben altra raffigurazione.
Il coro esegue in genere bene e soprattutto evita inutili clamori (frutto di disordine). La registrazione è decisamente buona anche se appare poca nitidezza verso la fine.

Luca Di Girolamo

Categoria: Dischi

 

Chi siamo

Questo sito si propone l'ambizioso e difficile compito di catalogare le registrazioni operistiche ufficiali integrali disponibili sul mercato, di studio o dal vivo, cercando di analizzarle e di fornirne un giudizio critico utile ad una comprensione non sempre agevole.