Nabucco
Aggiunto il 06 Giugno, 2010
Di Nabucco, terza opera di G. Verdi dopo Oberto e Un Giorno di Regno, guardando alla discografia, si può dire di essere davanti ad un ennesimo caso di assenza di edizione di riferimento. Abbiamo singole prestazioni molto attraenti di cantanti per alcuni ruoli di quest’opera (uno per tutti la grandissima Abigaille della Callas nel live napoletano del ‘49 diretto da V. Gui), ma non la classica edizione nella quale tutti si collocano su vertici eccelsi (come, ad esempio, in casa DECCA la Turandot incisa da Mehta con Sutherland-Pavarotti-Caballé-Ghiaurov negli anni ‘70). Analogo discorso va fatto per la direzione d’orchestra alla quale è demandata la conduzione (se non sollecitazione) dei cantanti ad esprimere qualcosa di convinto e convincente. Sempre nella discografia troviamo due nomi di direttori che, tuttavia, ci hanno offerto due antitetiche visioni dell’opera: Muti e Sinopoli. Il primo, incidendola nella parabola iniziale della sua celebrità, ne ha messo in rilievo l’indole risorgimentale e quarantottesca (ricordiamoci le rappresentazioni fiorentine con Nimsgern e la Deutekom), Sinopoli invece ne fa un affresco di colossale storia biblica guardando più alla monumentalità archeologica dell’opera che non ai risvolti barricadieri, da preferire forse alla visione mutiana, tenendo conto anche dei forti richiami biblici – a tratti citazioni quasi letterali di alcuni salmi – presenti nel testo di Solera. In entrambe le edizioni menzionate i cantanti, pur impegnati al massimo (specialmente R. Scotto, l’Abigaille di Muti, a mio avviso, preferibile alla possente – ma indifferente – G. Dimitrova di Sinopoli), offrono risultati di livello tra l’apprezzabile e il buono, ma – almeno per me – non si ripete il top discografico riservato ad altre edizioni di altre opere.
C’è da aggiungere poi che, nell’economia discografica, Nabucco possiede un buon numero di edizioni live accanto a quelle registrate in studio e ciò basterebbe per tracciarne un itinerario storico di audizioni. Ad esempio, per molto tempo, si faceva iniziare la discografia con l’edizione CETRA del cinquantenario verdiano (1951) diretta da Previtali con Silveri e la Mancini, ma negli anni ‘70 venne fuori sempre con la stessa etichetta il live callasiano e ricordo il vecchio vinile perché mi era stato promesso in regalo che mai però mi è arrivato! Analogamente esiste un altro live (oggi molto meno reperibile) del MET diretto da Schippers con Mc Neil e la Rysanek: non l’ho mai sentito! La presente edizione si colloca perciò nell’alveo di questi ripescaggi e non sarà l’unica se si pensa che nel ‘61 un’altra edizione sarà captata a Firenze (sempre diretta da Bartoletti con Bastianini e la Parutto) e nel ‘72 a Venezia (con Zanasi e la Gulin diretta da Sanzogno), oggi facilmente reperibile. E l’elenco non è completo!
Opera corale, tale è la definizione più ricorrente del Nabucco, ma non da prendere in modo massimalistico e perciò riduttivo, perché se il popolo ebraico c’è (e, con esso, i vari dignitari babilonesi), ci sono anche i personaggi che raccontano non solo una storia, ma vivono vicende interiori che incidono anche nel contatto col mondo esterno. È il caso di Nabucco, ma ancor più di Abigaille che è la creatura femminile più singolare della letteratura verdiana degli inizi: appare subito come donna volitiva e indubbiamente avida di potere. Ma, con il pretesto della vocalità tagliente e acuta che richiede certo tonnellaggio, farne una parente povera o un’anticipazione della futura Lady Macbeth, come spesso si fa, è errato. Abigaille (come Lady) è senz’altro la proverbiale ‘figlia di buona donna’, però mentre la dama (e poi regina) scozzese è la personificazione del male e dell’ipocrisia (tale da invocare sin dalla sua comparsa i ‘ministri infernali’ per poi unirsi nel finale I alla generale condanna del regicidio di cui essa è istigatrice) Abigaille è una sventurata, la cui disgrazia diviene la molla per le sue reazioni: vive un amore non corrisposto per Ismaele («Io t’amava e regno e core…» dice nel terzetto I atto) e, peggio ancora, viene a conoscere la sua origine di schiava («Ben io t’invenni…» con tutto il corollario di maledizioni e imprecazioni). Di qui deriva il peggioramento e l’indurimento di un personaggio che vive di ricordi positivi segnati da sostanziale umanità («Anch’io dischiuso un giorno…») che poi sembra recuperare nel finale con una sorta di morte redentrice (cf. la frase «Solleva o Dio l’afflitto…» è il riconoscimento di una misericordia universale), al contrario della Lady che non recupera nulla, anzi sprofonda nella folle sonnambulismo. Eroina negativa, ma non totalmente dannata e dannabile: disgraziata per nascita, per ceto e per sorte finale.
Lo stesso protagonista vive poi un itinerario analogo: da una smania di potere e distruzione iniziale ad un’idolatria che lo acceca e gli fa conoscere la sofferenza per poi arrivare alla (as)soluzione finale.
Fenena e Ismaele, che vivono un amore fino alla fine contrastato da eventi di vario genere, ma sono accomunati tuttavia da fondamentale sincerità di intenti e di gratitudine reciproca. Zaccaria svolge l’ufficio di difendere come può il popolo, di tenerlo buono con parole ispirate e indurlo alla speranza (tipica dell’escatologia giudaica alla quale manca la concretizzazione in Cristo).
Opera perciò complessa (tanto da essere considerata il vero primo capolavoro del ‘Peppino’) che va curata non soltanto puntando su quegli episodi che ‘fanno cassetta’ (in primis il «Va pensiero», ma anche la stessa Sinfonia iniziale), ma evidenziando le varie fasi e l’evoluzione psicologica e relazionale dei singoli personaggi facendo comprendere il motivo di determinati comportamenti (con i corrispondenti atteggiamenti vocali).
Prima di entrare nell’esame dell’edizione in questione ricordo, quasi ce ne fosse bisogno, una sorta di legame speciale che Firenze ha con quest’opera: è stata quella del I Maggio Musicale Fiorentino nel ‘33 (22 aprile) diretta da Gui con un cast stellare per i tempi (Galeffi, Cigna, Pasero, Stignani e, nella parte di Anna, la ventitreenne M. Olivero) e Muti un quarantennio dopo ha ripreso l’opera sempre per il Maggio con la regia di Ronconi come abbiamo detto prima. Tra queste 2 edizioni si collocano questa che è testimoniata sonoramente e quella di 2 anni dopo, già menzionata sopra.
Accostandosi a quest’opera Bartoletti ci dà prova della sua notevole correttezza e del fatto che impedisce all’orchestra di debordare in sonorità eccessive. L’esecuzione presenta i tagli dei ‘da capo’ delle cabalette, nonché di una sezione del finale del duetto Abigaille-Nabucco. Potremmo, ad un primo ascolto, definirla una conduzione ‘sobria e educata’ quella del direttore toscano, ma tale sobrietà ed educazione non rendono giustizia non solo alle pagine più marziali e mosse, ma anche a quelle più rarefatte come ad esempio la scena di Zaccaria («Vieni o Levita … Tu sul labbro») che manca di atmosfera mistica e profetica richiesta, né il basso (Washington) si copre di gloria. A volte i tempi non sono omogenei e ciò accade per facilitare il/la solista impegnato/a, come accade alla conclusione della grande scena di Abigaille del II atto. Ma neppure la grandiosità sembra essere la sigla di certe scene, anzi – come per esempio il Finale I, oppure la parte finale del duetto Abigaille-Nabucco del III – si sentono tempi enfaticamente marcati invece di armonizzarli con la massa corale. Meglio il concertato a cappella «S’appressan gli istanti» che è il tipico valzerone ricorrente in Verdi (lo è anche il coro del III atto). Alterna la resa della conduzione del duetto Abigaille-Nabucco nel III atto. Bello il «Va pensiero» (ed è tutto merito del coro, perché il direttore a tratti indulge in qualche scansione un po’ troppo marcata). Buona la resa del finale dell’opera che ricorda nelle sonorità il finale del rossiniano Guglielmo Tell (quello che la RAI ci faceva ascoltare con le antenne che salivano alla fine dei programmi).
Bastianini vanta una voce di timbro e volume cospicui e nel I atto in generale va bene. Nel II invece manca di perentorietà in «Il volto a terra … Me nume, me adorate», si lascia andare ad accenti sguaiati («E tanto ardisci … O fidi al piè del simulacro quel vecchio ormai si guidi…» rivolto a Zaccaria e quel che segue) o singulti in luogo di accenti sfumati dove occorrono (finale II), oppure piani mancati (idem). Con un gioco di parole, va inoltre, in fumo letteralmente tutta la decisiva scena del fulmine per la gran monotonia interpretativa per cui Bastianini accenta a tutto volume il «Chi mi toglie il regio scettro» e dove poi vuole imporsi risulta forzato. Arrivati poi alla frase «Ah perché sul ciglio una lagrima spuntò» tutto è declamato a gola spiegata e siccome essa è detta due volte abbiamo un duplicato di monotonia. Anche nel successivo duetto con Abigaille (III atto) tutte le battute iniziali sono tutte uguali, grosse (nel senso deteriore del termine) ed uguali. Anche nel prosieguo Bastianini non è memorabile anzi quando chiama le guardie è oltre la sguaiataggine. Meglio il «Deh perdona deh perdona… la figlia mi ridona», ma più sul piano di una voce compatta e raccolta (ma non sfumata!) che di personali intuizioni interpretative.
All’inizio del IV è inutile dire che il recitativo «Son pur queste mie membra» è portato al parossismo, mentre a partire da «Dio degli Ebrei, perdono» c’è il tentativo di smorzare qualche suono, ma invano! L’aria «Dio di Giuda» è robusta, ma a senso unico. Si fa apprezzare per la compattezza dell’organo vocale. La cabaletta («O prodi miei») è giusta nell’espressione, ma siccome è moderatamente fiorita il disagio di Bastianini è evidente, anche se conclusa con l’acuto. La successiva irruzione di Nabucco nel mezzo del sacrificio («Empi fermate… L’idol funesto…») è sguaiata e plateale, mentre è bello l’insieme delle battute successive. Ciò ci porta ad una conclusione realistica: con i mezzi che aveva, Bastianini avrebbe potuto fare infinitamente meglio e rispetto al Gobbi dell’edizione DECCA del ’65 (diretta da Gardelli con la Suliotis) è su un piano vocale decisamente superiore, anche se – questo va detto per onestà – non ha la varietà di accenti del collega veneto. Un Nabucco cantato con bel timbro unito a qualche eccesso, ma interpretazione pressoché trascurabile. Il che è un po’ poco.
Margherita Roberti è il nome italianizzato di un soprano americano (Margareth Roberts) che ha speso la sua carriera (1948-1988) in onerosi ruoli di drammatico di agilità (Abigaille, Odabella, Lady, Elvira di Ernani, Elena de I Vespri Siciliani, Luisa Miller) o di drammatico tout court (Aida e Tosca). Qui ha certo scatto e si impegna per trarre da Abigaille qualcosa di buono, ma anzitutto procede a senso unico con l’evidenziare solo la terribilità del personaggio con una scansione a tratti enfatica e non lontana da moduli veristi (della serie ‘coltello fra i denti’). In secondo luogo, pur reggendo, tutto sommato, sul piano vocale l’impervia parte, abbiamo in alto, talvolta forzature, talaltra suoni da soprano leggero. Anche la vocalizzazione di forza non è ineccepibile. In alcuni momenti poi – come il duetto con Nabucco del III atto – il timbro si sbianca e dà luogo ad una bambina capricciosa, senza contare che qui, come anche altrove, la dizione non è perfetta. Insomma un’Abigaille accettabile sul piano vocale (il tumultuoso ingresso nel I atto e il furente recitativo del II sono ben superati) e addirittura discreta su quello interpretativo, livello quest’ultimo contrassegnato da certo nervosismo che ben si sposa con l’indole combattiva del personaggio. La Roberti appare davvero brava, in modo quasi inaspettato direi, nel suo arioso finale («Su me morente, esanime») con buoni pianissimi. Un’Abigaille dove le idee buone si alternano con le cattive.
Washington, come Zaccaria, si fa apprezzare più nelle pagine più drammatiche che in quelle raccolte ed oranti. Limarilli è un buon Ismaele, animoso quanto basta nei suoi brevi interventi. La Pirazzini è brava e accurata nel suo assolo «Già dischiuso il firmamento», ma non si astiene da qualche apertura verista in basso che non serve ad un personaggio sostanzialmente mite e remissivo, né l’acuto dell’aria è felice. Gli altri interpreti sono funzionali, ma sempre nel generico.
Un Nabucco insomma piuttosto provinciale, pur nella serietà di intenti.
Trattandosi di un live, la resa audio è buona e il pubblico applaude molto educatamente. Non abbiamo eccessi di ovazione al «Va pensiero». Tuttavia il track 9 del secondo CD (corrispondente alla seconda aria di Zaccaria «Del futuro nel buio discerno»), come avverte anche l’allegato del cofanetto (che non ha libretto!), non si ascolta bene.
Luca Di Girolamo