Domenica, 11 Maggio 2025

Eugen Oneghin

Aggiunto il 19 Aprile, 2009


PIOTR ILIC CIAIKOVSKY
EUGENE ONEGIN

Larina RENÉE MORLOC
Tat’jana ANNA SAMUIL
Olga EKATERINA GUBANOVA
Filipyevna EMMA SARKISSIÁN
Eugene Onegin PETER MATTEI
Lensky JOSEPH KAISER
Gremin FERRUCCIO FURLANETTO
Un Capitano SERGEJ KOWNIR
Zaretsky GEORG NIGL
Triquet RYLAND DAVIES
Il capo dei paesani THOMAS KÖBER
Guillot MICHEL OGIER


Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor
Chorus Master: Thomas Lang

Wiener Philharmoniker
DANIEL BARENBOIM

Regia: ANDREA BRETH

Regia televisiva: Brian Large
Set designer: Martin Zehetgruber
Costumi: Silke Willreth, Marc Weeger
Luci: Friedrich Rom
Drammaturgia: Sergio Morabito

Luogo e data di registrazione: Salisburgo, Grosses Festspielhaus, 7-8/2007
Ed. discografica: DGG, 2 DVD

Note tecniche sulla registrazione: a detta di chi ha assistito allo spettacolo, la resa televisiva sarebbe troppo grigia, ma non è detto che non sia un effetto voluto

Pregi: tutto perfetto: direzione, cantanti, regia. Uno spettacolo esemplare

Difetti: nessuno

Valutazione finale: images/giudizi/eccezionale.png

Iniziamo volentieri il lavoro di recensione di quest’anno con un eccellente spettacolo ripreso dal Festival di Salisburgo del 2007. Si tratta di un lavoro che riesce a coniugare come non sempre accade la bellezza formale delle immagini alla qualità eccellente del canto e, pertanto, ci sembra il migliore possibile per auspicare un anno grandioso per la rappresentazione artistica.

Il libretto accompagnatore dei DVD ci ricorda che il filo conduttore di quel Festival era – tradotto letteralmente – “Il lato notturno della ragione”, o forse più propriamente “La notte della ragione”, ciò che ispirava a Jürgen Flimm, direttore artistico della manifestazione, il seguente quesito: “Cosa c’è di più irrazionale di un colpo di fuoco durante un duello?”.
La tragica inutilità di un duello che in fondo nessuno vuole, ma che i protagonisti accettano come inevitabile, è al centro della scena che si svolge in un ambiente grigio, spoglio e disadorno tipo una stazione ferroviaria, che non porta nessun conforto ai presagi di Lensky che vi morirà nella disperazione.
Ma tutta la vicenda vive sui toni del grigio: i preludi, che vedono Onegin apatico su una poltrona polverosa di una camera d’albergo di quart’ordine, intento a vedere alla televisione lo scorrere delle rotaie su un paesaggio tragico ed innevato; o le feste, popolate di militari ubriachi, puttane disperate e, in generale, di quella popolazione di anime perse che vennero così bene rievocate da Bulgakov nell’Unione Sovietica stalinista e che popolavano anche la Russia al tramonto di un’epoca, nella transizione degli Anni Ottanta. L’unico momento di serenità – anche un po’ troppo didascalica – è nel primo atto, in mezzo ai campi di grano di Larina ove questa nobile decaduta si aggira vestita come una popolana qualunque, mentre le sue ragazze si estraniano ognuna a modo proprio dalla realtà.
In questo contesto quasi felice piomba, come un fulmine a ciel sereno, Eugene Onegin, che ha le fattezze e il canto di Peter Mattei. Ora, potrei sembrare eccessivamente iperbolico, ma è difficile immaginare un’aderenza più incisiva di un cantante al suo personaggio. Andatura dinoccolata da dandy, occhiali scuri, abbigliamento svogliatamente casual (splendidi i costumi), eloquio forbito e canto davvero scintillante: una rappresentazione talmente perfetta da essere fastidiosamente paradigmatica. Non da meno davvero la performance degli altri tre giovani: la Olga pesantemente sensuale di Ekaterina Gubanova, la Tat’jana finalmente non ansiosa ed eccessivamente prude di Anna Samuil, donna anzi forte e volitiva – era ora di svecchiare un po’ questo personaggio troppo vergineo – e il trionfale Lensky di Joseph Kaiser che rivela al pubblico di Salisburgo gli accenti commossi e partecipi di un grande tenore lirico. Con questi protagonisti il quartetto del primo atto è uno spettacolo! Eccellente anche la caratterizzazione della Filipyevna di Emma Sarkissián, l’unica vestita in modo tradizionale a testimoniare il profondo legame – e nello stesso tempo lo jato – con quella Grande Madre Russia che non esiste più.
Non si sarebbe potuta immaginare un’ambientazione migliore per il dramma del Nulla, del Buio della Ragione: a parte Tat’jana, nessuno ragiona più, ci si limita a farsi trasportare dall’empito delle passioni, nel contesto delle quali è difficile trovare un riferimento. Tat’jana scrive la famosa Lettera sullo slancio di una passione irrazionale di cui lei stessa sembra afferrare il limite: è anzi forse la prima volta che questo personaggio sembra uscire dal clichè della ragazza immatura, tanto che appare combattuta sino all’ultimo momento fra il desiderio di consegnare la lettera e quello di, forse, bruciarla. E anche la scelta registica di farcela vedere intenta a battere a macchina, a gambe incrociate, quasi fosse la protagonista di un film sentimentale americano Anni Ottanta (per capirci, uno di quelli di Nora Ephron con Tom Hanks e Meg Ryan, ma senza l’happy end incorporato) ci propone l’idea di una giovane donna forte, volitiva, certamente alle prese con il primo sentimento importante della vita, ma anche con il tentativo di inquadrarlo, di dargli un senso. È quindi con chiara sensazione di inevitabilità che accoglie il rifiuto di Onegin: in fondo lo sapeva, è stato il suo breve istante di buio della ragione.
Ma questa tematica viene sviluppata dal regista al massimo probabilmente durante la festa del secondo atto: da un lato la fatua irresponsabilità di Onegin, dall’altro il rapido precipitare nella follia dell’immaturo Lensky (una cicatrice in fronte ci fa pensare che sia abituato a risolvere i suoi problemi a colpi di spada…e che di solito le prenda!), il tutto mentre ufficiali decaduti dell’(ex?) Armata Rossa cercano di dimenticare la loro perduta grandezza fra fiumi di alcol e squallide battone di basso profilo. Questa umanità decaduta è messa impietosamente di fronte a se stessa, con l’impressione del vuoto in cui i protagonisti e la folla si muovono come dei burattini. Tocca ora a Lensky essere colpito dal vuoto della ragione: e lo fa in modo ineluttabile, come se non riuscisse ad evitare questa caduta. Mi piace molto la caratterizzazione di Kaiser – davvero bravo anche sul fronte vocale – che, con un paragone cinematografico recente, richiama l’imbelle Amos/John C. Reilly di “Chicago” di Rob Marshall. Inevitabile la sfida, inevitabile l’amara riflessione del “Kuda, kuda, kuda vi udalilis” (quanti paralleli nelle mie orecchie con la splendida “Mr. Cellophane” di John C. Reilly!) in cui sembra che per un attimo, solo per un attimo si potrebbe arrivare ad una pacifica composizione dell’assurda vicenda, ma nessuno ci arriva perché, ormai lo sappiamo, è la notte della ragione. Onegin arriva accompagnato da un idiota che gli fa da padrino e, dopo un breve tentativo di far leva su quanto resta della ragione dell’amico, lo uccide si direbbe con inevitabilità.
Ed è sempre con inevitabilità che si ritrovano Onegin e Tat’jana. Ognuno recita il proprio ruolo: lui quello del seduttore che, finalmente, crede di aver trovato in lei una preda alla propria altezza; lei quello dell’ex-ragazzotta di campagna che ormai crede di aver un ruolo ben preciso nella società inesistente in cui vive. Si rotolano un po’ con disperazione più che con libidine, ma non possono (e forse nemmeno vogliono) amarsi. Il ruolo di Onegin, quello che lui stesso si è costruito di “bello e maledetto”, si sfarina di fronte alla convenzionalità della vita in una società che non sa più cosa farsene dei “miti”. Dopo la morte di “Mr. Cellophane” Lensky, che non ha saputo adeguare se stesso alla realtà, è evidente che questa società di anime morte accetta solo la convenzionalità di Gremin e della sua “sciurètta” (come si direbbe a Milano), benestanti ma terragni esponenti di una borghesia che, andando avanti per questa strada, non lascerà spazio a nessun eroe. Onegin continuerà a girare da un sordido albergo ad un altro, a guardare inutili programmi televisivi: ha ucciso il suo migliore amico adeguandosi alla Notte della Ragione, la sua condanna è la convenzionalità della vita di tutti i giorni. La sua solitudine non è quella dell’eroe, ma quella del reietto per cui non c’è posto in società e di cui tutti si sono dimenticati.

Splendido spettacolo quindi, tutto sommato lineare e non eccessivamente problematico, ma mirabilmente svolto con un notevole gusto per l’immagine.
Dirige il tutto in modo più che adeguato Daniel Barenboim che trova nelle ampie volute della musica di Ciakovsky un’occasione ideale per dispiegare il proprio talento di grande narratore e il proprio gusto per il dramma a forti tinte.
Ho già detto dell’adesione pressoché perfetta di Peter Mattei al proprio personaggio: impossibile – credo – immaginare qualcosa di meglio.
Anna Samuil propone a sua volta per Tat’jana un canto talmente paradigmatico da indurre a pensare a lei come nuovo termine di riferimento per il personaggio: ed era finalmente ora! Nata a Perm, in Russia, nel 1976, ha esordito come solista nel 2001; ha in repertorio diversi ruoli lirici, ma con questa Tat’jana arriva ad una ben meritata notorietà internazionale.
Mi ha entusiasmato il Lensky di Joseph Kaiser, non così nevrotico come Shicoff ma capace di far vedere la rapidità del precipizio nella follia. Il suo momento solistico è stato salutato dal pubblico con un’autentica ovazione. Nato in Canada, ha avuto il suo grande lancio come Tamino nel film del “Flauto magico” girato da Kenneth Branagh.
Parimenti applaudito dal pubblico, che lo ha salutato come un vecchio amico, il glorioso Ferruccio Furlanetto che dà a Gremin una nota di pratica bonomia, non disgiunta dall’idea che il Principe (qui con una divisa militare) possa diventare pericoloso se qualcuno gli toccasse il proprio bene più prezioso, lontana dal rinunciatario paternalismo stile “Re Marke” che caratterizza la maggior parte degli interpreti. Il carisma del grande interprete è sempre immenso; ma tuttavia non si può tacere lo sfilacciamento della linea vocale che, per parte sua, non è mai stata un modello di ortodossia nemmeno per uno come lui che è sempre stato più declamatore che vocalista.
Fra i comprimari vi segnalo l’eccellente Filipyevna di Emma Sarkissián e, un gradino al di sotto, il Triquet di Davies.

In conclusione, una prospettiva nuova ed unitaria su un dramma che, sinora, è stato dominato solo dal Romanticismo di riporto. Spettacolo forse appena didascalico, ma esecuzione eccellente che presenta tre protagonisti giovani, credibili e di ottimo canto. Ce n’è d’avanzo per avere una registrazione di riferimento

Categoria: Dischi

 

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