Giovedì, 28 Marzo 2024

Turandot

Aggiunto il 18 Agosto, 2007


Giacomo Puccini
TURANDOT

• Turandot MARIA CEBOTARI
• Calaf KARL HAUSS
• Liù TRUDE EIPPERLE
• Timur GEORG HANN
• Altoum HUBERT BUCHTA
• Ping FRITZ MORITZ HARLAN
• Pang WERNER SCHUPP
• Pong ROBERT KIEFER
• Un Mandarino HEINRICH HOLZLIN


Chor des Reichssenders Stuttgart
Chorus Master: non indicato

Orchester des Reichssenders Stuttgart
JOSEPH KEILBERTH

Luogo e data di registrazione: Stuttgart, 10/12/1938
Ed. discografica: Cantus Lin, 2 cd economici

Note tecniche: registrazione che risente tecnicamente degli anni trascorsi
Pro: direzione e cast
Contro: pur buono, qua e là il suono è un po’ ovattato
Valutazione complessiva: images/giudizi/ottimo.png

Si tratta un’edizione del capolavoro pucciniano i cui meriti sono molti e che dimostra una serietà di intenti difficilmente oggi riscontrabile in un mondo di tante manipolazioni foniche. Siamo nel 1938 a Stoccarda dove un giovane direttore che ha assunto da poco la guida artistica dell’Opera di Karlsruhe e che diverrà famoso per il suo repertorio mozartiano, wagneriano e straussiano, ci offre una conduzione che ha dell’eccezionale per due motivi principali: nell’intesa con i solisti e coro e nel distinguere i vari momenti della vicenda ambientata nella favolistica Cina con soluzioni davvero originali. In tal senso la direzione di Keilberth è vera, concreta e singolare come lo sarà quella di Z. Mehta sfuggendo al pericolo di ridurre il tutto ad una sorta di melassa magniloquente come quella che si ode nell’edizione Karajan, a mio avviso, inutilmente sopravvalutata e che a molti è parsa un gran poema sinfonico dove nessuno degli interpreti (colpa anche delle loro mende vocali) è all’altezza della situazione. Quest’edizione decisamente giunge (per il direttore e per i cantanti) ad un risultato qualitativo opposto: in Keilberth e nei suoi interpreti veniamo a conoscere l’identità e i sentimenti di tutti i personaggi anche se essi cantano in tedesco, ma con un’espressività e una preparazione sbalorditiva. Anzitutto la direzione che non rinuncia alla spettacolarità nelle scene più fastose, ma che sa raggiungere un notevolissimo potere evocativo nella I scena del II atto (eseguita integralmente) lasciando liberi i tre ministri (Harlan, Schupp e Kiefer: molto bravi) di fraseggiare e di esprimere i sentimenti di nostalgia, disillusione che la pagina richiede. Molto bella è anche l’introduzione al III atto e singolari le tinte che accompagnano il momento della tortura di Liù. Ma ciò che Keilberth riesce a fare è nel collegare Puccini con il ‘900 europeo e a sottolineare come Turandot in alcuni punti ripeta schemi melodici e di atmosfera tipici del teatro del lucchese anteriore a questa creazione. Cito ancora a riprova la scena dei ministri (il cui collegamento con certe movenze parodistiche del Gianni Schicchi è evidente) e la tortura di Liù (dove i cantanti si esprimono in tono espressionistico ed oppressivo tipico de Il Tabarro, opera che in terra tedesca ha trovato tanta popolarità: ne fa fede la magnifica edizione diretta da Krauss nello stesso anno con i medesimi complessi di Stoccarda e sulla quale si dovrebbe fare estrema attenzione per il tono col quale è cantata). Insomma una direzione ottima, valorizzata anche da una buona resa fonica.
Molto valido il Coro, particolarmente in evidenza nei momenti più cruenti e movimentati della partitura (ascoltarsi la ferocia del commento alla morte di Liù con il ripetuto “Il nome. Il nome”), ma neppure malvagio nelle oasi più distese. Anche per i cantanti si devono utilizzare aggettivi positivi ed è una gioia farlo, soprattutto per edizioni come questa poco conosciute ai più. Singolari, anzitutto le prestazioni di due soprani fondamentalmente lirici e con repertori molto simili, nei due personaggi che la tradizione vuole contrapposti: la dura Turandot e la dolce Liù. Quello che contraddistingue la Cebotari è anzitutto una notevole correttezza e disciplina vocale che le permettono di superare agevolmente le proverbiali difficoltà della parte. Singolare guardare alla carriera di questa cantante morta prematuramente nel ’49: da eroine sostanzialmente miti e dolci o comunque positive (Susanna, Zerlina, Sofia, Donna Anna, Contessa, Mimì e Violetta), la Cebotari è passata a ruoli più ardui quali Butterfly, Salome, Tosca e appunto questa Turandot. La definizione vocale di questo personaggio si giova anzitutto di un timbro giovanile a tratti fanciullesco (il che ci permette di rinsaldare il nesso interpretativo Salome-Turandot), ma mai querulo o lagnoso, o peggio a corto di fiato e… fantasia. Anzi nelle zone più impervie (“Mi vuoi nelle tue braccia supplicante e fremente” del II atto) il suono si mantiene solido, né il fraseggio manca di certo impeto sferzante dove occorre (“Su straniero ti sbianca la paura...” ecc.). In definitiva, una prestazione che rende l’immagine di una ragazza viziata e padrona di fare ciò che vuole e come vuole, il tutto espresso con una voce giovane e, a tratti, sbarazzina (resta l’orma dell’antica Susanna mozartiana ed è una trovata geniale), salvo poi a mostrare una spiccata umanità in “Del primo pianto”. Faccio una riflessione: quanta strada di distanza tra la Cebotari e i sopranoni che successivamente si sono imposti in questo ruolo vedendone solo il lato più semplicisticamente cattivo (e che hanno cantato bene con voci fluenti), ma anche – volendo proseguire un raffronto con l’edizione di Karajan – quanta strada tra una Cebotari (soprano lirico) che canta sempre senza mostrare sforzo e una Ricciarelli (soprano lirico) che….
Il discorso è semplice: se si vogliono proseguire certe revisioni liricizzanti (come nel caso di Turandot) occorre saperlo fare senza tradire il personaggio sul piano delle difficoltà vocali data la tessitura acuta: la Cebotari e, nel più recente passato, la Deutekom e la Sutherland lo hanno fatto. Ma poi ??? Un’idea, a mio avviso, non peregrina potrebbe essere la Gruberova che conferirebbe anche certa venatura nevrotica al personaggio.
La Eipperle fa di Liù una donna tutt’altro che vittima, capace di soffrire per il principe ma con grande dignità, espressa con una voce dolce, filati molto buoni e in genere un timbro consono alla schiava. Anche il suo “Signore ascolta” non mostra quel birignao tanto caro a certa tradizione, mostrandoci invece una grande sobrietà. Notevole nella scena della tortura e nel “Tu che di gel”, la Eipperle mostra un bel bilanciamento anche nell’incontro-scontro con la protagonista.
In quest’opera il principe azzurro della situazione è, come si sa, disputato tra le due donne. Parliamo di Calaf che è Hauss: eroico quando occorre e con una voce solida, robusta ed acuti che sono squillanti e ampi, tanto da permettergli l’ascesa al “Ti voglio tutt’ardente d’amor”. Ma il personaggio non si ferma qui perché nei momenti più distesi (che non sono molti, ma ci sono) Hauss è capace di piani molto espressivi ed è notevolissimo. Del resto, anche lui come la Cebotari ha avuto in repertorio ruoli che spaziavano dall’Hoffmann a Tamino, da Ernesto a Johnson fino ad arrivare a Calaf, Arnoldo e a Raul degli Ugonotti, passando per Adorno, Duca e Alfredo. Non meraviglia allora tutta la varietà di colori che Hauss sfoggia in quest’edizione segnalandosi per il tono di sfida (sorretto dalla voce che ho descritto) a Turandot alternato a quello di amorosa ed affettuosa comprensione nei confronti di Liù. In sostanza un bel principe che sa intonare in pianissimo “Nessun dorma” per poi dare al brano l’eroicità richiesta. Le tre maschere sono tre piccole icone di simpatia e di correttezza e offrono ad ogni loro apparire motivi di interesse. Ciò che colpisce in questi tre solisti è la loro facilità di fraseggiare con naturalezza ed espressività. La loro grande scena (II atto) è davvero molto intrigante e misteriosa. Hann è un Timur notevole per voce, commozione e solennità. Il suo collega regnante (Altoum) riceve dall’arte di Buchta un ritratto molto ricco: molto malinconico e amareggiato nel ricordare “Il giuramento atroce…” unisce nel prosieguo dell’opera una certa perentorietà senza che venga mai meno una paterna espressività e ciò soprattutto nel ribattere a Turandot la sacralità del giuramento atroce. Ci troviamo ad ascoltare perciò una notevole differenziazione psicologica e timbrica nei vari interventi di questo Imperatore cinese. Anche qui una prova ottima ! Da ultimo Holzlin è un Mandarino che canta bene, molto nobile. Un signore, insomma ! E “signora” è tutta l’edizione: se si canta in tedesco poco importa perché nella loro lingua questi cantanti ci dicono qualcosa (e non il risaputo: primo soprano a bombardamento, tenore latin lover e secondo soprano stile gattino miagolante) e il direttore è serio e sa quello che fa, ha un suo disegno oltre che interpretativo anche culturale nell’offrirci con questa Turandot che cosa Puccini voleva significare. Cantata in italiano non credo che le potenzialità espressive dei singoli solisti qui impegnati sarebbero emerse.
Luca Di Girolamo

Categoria: Dischi

 

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