Mercoledì, 24 Aprile 2024

Traviata

Aggiunto il 16 Luglio, 2006


• Violetta Valery Patrizia CIOFI
• Flora Bervoix Eufemia TUFANO
• Annina Elisabetta MARTORANA
• Alfredo Germont Roberto SACCA’
• Giorgio Germont Dimitri HVOROSTOVSKY
• Gastone Salvatore CORDELLA
• Barone Douphol Andrea PORTA
• Marchese d’Obigny Vito PRIANTE
• Dottor Grenvil Federico SACCHI
• Giuseppe Luca FAVARON
• Un commissionario Antonio CASAGRANDE
• Un domestico Salvatore GIACALONE

Orchestra e Coro Del Teatro La Fenice
Maestro del coro: Piero Monti

Direttore: LORIN MAAZEL

Regia: ROBERT CARSEN
Scene e costumi: Patrick Kinmonth
Lighting design: Robert Carsen & Peter van Praet

Edizione discografica: TDK
1 DVD a prezzo pieno
Luogo e data di registrazione: Venezia, 2004

Note tecniche: registrazione dal vivo, registrazione perfetta, ottima ripresa televisiva
Pregi: straordinaria performance del soprano; ottimo anche Hvorostovsky
Difetti: non memorabile il tenore; regia con idee interessanti, ma non la migliore di Carsen
Valutazione finale: ECCEZIONAL (Ciofi); images/giudizi/buono.png

Nei mesi scorsi la DGG ha pubblicato la rappresentazione di Salisburgo dello scorso anno: lo spettacolo era diretto da un – a nostro avviso – ispiratissimo Willy Decker che puntava nettamente sull’incomunicabilità fra gli esseri umani: nella memorabile scena finale Violetta muore completamente sola mentre tutti coloro che più ama la contemplano da lontano, seduti in poltrona, senza quasi avere il coraggio di avvicinarsi a lei.
Qui, decisamente, Carsen è più prosaico: il motore di tutta la vicenda, come lui stesso precisa nel fascicolo introduttivo del DVD, è la prostituzione. Piovono soldi da tutte le parti, sin dall’inizio dell’opera. Violetta è sul suo attrezzo di lavoro – il letto – e gli uomini fanno la fila con i soldi in mano. Nel secondo atto, in quella foresta impenetrabile la cui pace è un sogno per la protagonista (che, difatti, rimane solo sullo sfondo non permettendo mai a Violetta di entrarvi) piovono banconote al posto delle foglie secche. E, alla fine, persino il buon vecchio dottor di Grenvil, il “vero amico” come lo definisce Violetta, riscuote la sua parcella. Ma Violetta, finalmente redenta e quindi senza più un soldo, muore povera e disperata senza nemmeno un letto su cui appoggiarsi, visto che la sua casa è in fase di restauro per un nuovo inquilino; e, ai suoi piedi, un televisore acceso con la “nebbia” di fine trasmissioni che sembra peggiorare lo squallore della situazione in cui si dissolve la sventurata.
Quindi, la prostituzione. Questo è il problema di Violetta, e lo è sicuramente anche sino alla fine del primo atto, quello che molti altri registi fanno concludere da una scena d’amore fra la protagonista e Alfredo, mentre qui c’è il Barone Douphol che viene a riscuotere il suo pegno.
È per questo che stride ancora maggiormente lo jato con il secondo atto, in cui scopriamo Violetta vicina alla sua foresta, simbolo di quella purezza cui aspira e di cui nessuno sembra volerla accreditare.
Non Alfredo, che passa il suo tempo a fotografarla, come se fosse una reginetta delle riviste patinate (una delle foto scattate sarà “l’effigie” dei passati giorni da donare alla futura fidanzata).
E non, sicuramente, un inamidatissimo (ed anche un filo atticciato) papà Germont, qui più severo e scabro del consueto, ormai oltre la pietà, anch’egli pronto a pagare moneta sonante il disturbo della protagonista.
Una regia questa di Carsen che, come tutte le produzioni di questo straordinario Artista, segue un suo ben preciso progetto con una potenza figurativa notevole; ma che, rispetto ad altre sue produzioni famose (i Dialogues des Carmelites o la Kat’a Kabanova) ci sembra un filo troppo didascalica e programmatica, riuscendo di fatto a volare alto solo nel terzo atto che ci porta a vivere la fine di Violetta con una violenza inaudita, resa ancora più aspra dalla scarsa partecipazione emotiva di tutti quelli che dovrebbero volerle più bene, ma che forse non riescono a perdonarle il suo peccato originale.
La produzione, organizzata per la ricostruzione del Teatro La Fenice di Venezia, si avvale della presenza carismatica e catalizzatrice di Patrizia Ciofi, cantante fra le più eclettiche e discusse degli ultimi anni. La quale fornisce una prestazione maiuscola su tutti i fronti. Da un punto di vista vocale domina a perfezione la parte, concludendo il Sempre libera con un mi bemolle percussivo. È una parte che conosce benissimo, anche se la produzione veneziana riprende la prima stesura dell’opera, quella che fece fiasco proprio alla Fenice nel 1853, e che prevede alcune significative variazioni nel grande duetto con papà Germont, oltre che nel finale del secondo atto. Inoltre – ed era ora – sono riaperti tutti i tagli di tradizione, il che nel caso specifico del soprano è un grosso vantaggio. Crediamo di essere nel giusto affermando che Patrizia Ciofi non solo è la grande professionista che ogni produttore ben sa, nel senso che è in grado di dare un significato forte e pregnante ad ogni spettacolo cui partecipa; ma ormai ha anche raggiunto una piena autonomia dal punto di vista tecnico e della personalità. La sua Violetta è un’ etèra raffinata nel primo atto; una fragile e tormentata bambina viziata nel secondo atto (un po’ come Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany); una donna distrutta moralmente non meno che fisicamente nel terzo, straordinario atto che, da un punto di vista interpretativo globale, costituisce sicuramente la cosa più bella che la Ciofi ci abbia sinora offerto.
Alla fine dell’opera la sua figuretta scarna e scarmigliata riceve un’autentica ovazione dal pubblico in delirio.
Un gradino appena più sotto l’ottimo Hvorostovsky che, nella visione di Carsen, è costretto a fare un personaggio totalmente privo di umanità, chiuso in un doppiopetto gessato da gelido burocrate, che tradisce le uniche e scarne emozioni pulendosi gli occhiali. Il Di Provenza il mare il suol non suona come una cantilena affettuosa per commuovere il figlio, ma ha il piglio autoritario di un comando cui non si può dire di no, così come il No non udrai rimproveri tradisce con i gesti e le occhiate ben altre intenzioni. La voce è messa a dura prova dalle varianti originali che erano previste molto più acute di quello che oggi siamo abituati ad ascoltare, ma Hvorostovsky non tradisce la minima difficoltà in un canto che è sempre sorvegliatissimo. Anche per lui, alla fine, grandi applausi.
Chi lascia un po’ interdetti è Saccà, il quale inizia visibilmente ingolato, ma poi si riabilita alla grande soprattutto quanto a volume di voce; gli acuti, invece, sembrano soffrire di una posizione scorretta, ed è un peccato perché la voce sembra correre senza particolari problemi. La personalità, poi, non sembra essere la sua dote migliore, sicché ne esce fuori un Alfredo complessivamente poco interessante.
Bene tutti gli altri interpreti, con una particolare menzione per l’Obigny di Vito Priante, di bella voce e simpatica presenza.
Quanto al glorioso Maazel, si muove dentro l’opera con gran fragore di ottoni e di percussioni , ma con poco o punto senso del ritmo e scarsa propensione alla narrazione; il che, per uno come lui, suona decisamente strano.
Scarsa affinità con l’opera verdiana? Scarsa ispirazione? Comunque sia, una prova non all’altezza della sua fama.

Categoria: Dischi

 

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