Meistersinger
Aggiunto il 27 Marzo, 2017
Nel 1962 eravamo già abbondantemente fuori tempo massimo per una rappresentazione di un’opera wagneriana in italiano. Mi mancano le ragioni di una scelta del genere: nell’esiguo fascicolo allegato non se ne fa cenno. Può darsi che sia stato un estremo tentativo di conservare una tradizione esecutiva gloriosa ormai estinta; oppure il modo di dare a cantanti importanti in altro repertorio la possibilità di esprimersi in un ambito che a regola non sarebbe mai appartenuto loro. Di fatto è stata una delle ultime occasioni per una scelta esecutiva come questa, peraltro a quel punto totalmente priva di senso. Lo è quasi sempre, a dire il vero, ma la traduzione storicamente aveva avuto il vantaggio di aiutare la diffusione di un repertorio difficile e di invogliare i cantanti a occuparsene, e poi comunque si usava anche a ruoli invertiti in Germania o in Francia ove si eseguivano le opere italiane nella lingua madre; ma nel 1962 non si può proprio sentire. L’unica spiegazione possibile mi sembra quella di una vena di passatismo, fortunatamente in via di quasi definitivo esaurimento, ma ancora con qualche sparuto colpo di coda (ci sarà ancora spazio, per esempio, per un Lohengrin italiano a Parma nel 2000!), a questo punto non più giustificato nemmeno dal parterre degli esecutori.
Oltre a tutto, la prosodia wagneriana si sposa proprio malissimo alle trasposizioni linguistiche, come si evidenzia ripetutamente anche durante questa esecuzione che però ha alcune frecce al suo arco.
Ciò in cui invece fallisce è proprio nel presupposto della restaurazione di un canto fiorito di tradizione italiana: il canto è invece orgogliosamente declamato, nella più classica dell’ortodossia di Bayreuth; solo che siamo a Torino.
Prendiamo per esempio Taddei, quarantaseienne all’epoca di questa performance: il suo Sachs si fa valere non solo nel canto di conversazione, in lui sempre perfetto, ma anche nel modo esemplare con cui sgrana il discorso finale sulla Pegnitz. C’è nel suo canto proprio un’ebbrezza virtuosistica da perfetto declamatore che fa rimpiangere che non abbia approfondito questo repertorio. Altrove, invece, è affettuoso e partecipe: penso per esempio al monologo del lillà, oppure alla scena della lezione del terzo atto, la cui franca e sorridente comunicativa lo conferma nelle zone alte della classifica.
Ma per quanto lui sia bravo – e lo è davvero: è un Sachs da manuale – c’è chi lo supera nel modo in cui gestisce non solo la parola, ma anche il singolo fonema: è Renato Capecchi. Il suo sarà anche un Beckmesser di tradizione, ma lo è di tradizione rigorosamente tedesca. Vocali perfettamente luminose e squadrate, consonanti scandite, la parola come mattone per la costruzione di un personaggio che gestisce la propria esistenza sul rispetto pedissequo delle regole: tutto nel canto terso e appuntito di Capecchi contribuisce alla realizzazione di un personaggio che non ha nulla a che vedere con il canto di tradizione italiana.
Con Luigi Infantino si scende di poco. L’eloquio è terso, gli acuti sono molto nitidi, ma il personaggio è affrontato in modo un filo più convenzionale. L’altro impegnatissimo tenore, Carlo Franzini, sa il fatto suo e si disimpegna molto bene in tutto l’arco della sua parte.
Bene Bruna Rizzoli e Fernanda Cadoni: niente di stratosferico, ma ottimo buon gusto nel porgere la frase.
Bene anche Christoff, che dimostra eloquio commosso e partecipe, oltre che una vocazione al declamato abbastanza sospettabile se si considerano le sue performances nei ruoli italiani.
Ottima anche la schiera dei Maestri in cui troviamo alcuni dei più famosi comprimari dell’epoca, fra cui segnalo l’eccellente Vito Susca e Maionica, impegnato anche come Guardiano Notturno.
Dirige il tutto ottimamente il croato Lovro von Matačić, sessantatreenne all’epoca di questa rappresentazione, uno che conosceva a menadito l’arte di raccontare e che aveva esperienza col repertorio wagneriano (era stato anche a Bayreuth nel 1959 con Lohengrin): i suoi Meistersinger sono ricchi di buon senso narrativo e di coordinazione nei momenti più critici; l’orchestra suona molto bene, soprattutto negli impegnatissimi ottoni. L’unico problema, se vogliamo cercare il pelo nell’uovo, è nella presenza di alcuni tagli di cui proprio non si riesce a capire la ragione.
Ottimo anche il coro.
Pietro Bagnoli