Madama Butterfly
Aggiunto il 13 Agosto, 2010
Quando si parla di singolarità ed eccezionalità di una personalità del tutto speciale questa nota non investe solo la persona, ma anche il linguaggio e l’espressività che essa mostra nel momento in cui comunica idee e pensieri che appartengono al suo retroterra culturale e, ancor più, alla sua sensibilità. Per questo motivo, la Butterfly della Callas resta una pietra miliare della discografia e, dei tre incontri documentati in disco con Karajan (Trovatore e Lucia), di gran lunga il più ricco di suggestione. I motivi, a mio avviso, sono essenzialmente due: anzitutto per l’incontro della Callas, artista della tragicità imponente con la geisha giapponese (ricordiamo che è un’opera che ha portato anche in scena) e con la rivoluzione che ella ha provocato nell’ambito dell’interpretazione di questo personaggio soprattutto se confrontato con la discografia a lei coeva che presenta una certa uniformità di raffigurazione dell’eroina pucciniana risolta sul fronte sentimentale-materno senza scendere troppo nelle pulsioni interiori che spingono la ‘farfalletta’ a patire e ad agire. Uno sguardo alla discografia del decennio ‘50-‘60 vede le due edizioni della Tebaldi (Erede del ‘51 e Serafin ‘58), nonché quelle della De Los Angeles (diretta da Gavazzeni nel ‘54 e da Santini nel ‘59), quella della coppia Petrella-Tagliavini (1953 diretta da Questa) e quella della Moffo (diretta da Leinsdorf del ‘58). Tebaldi, Petrella, De Los Angeles e Moffo ricalcano – ciascuna con maggior coefficiente vocale (Tebaldi e Petrella) o minori mezzi (De Los Angeles e Moffo) – lo stereotipo della mamma infelice e sventurata alternando l’altisonanza (Tebaldi e, in parte, anche la Petrella) con lo zucchero a chili (De Los Angeles e Moffo, peraltro limitate vocalmente e nemmeno geniali interpreti, anzi…).
Non nuova a gesti rivoluzionari che le provenivano dallo studio (pensiamo alla ripresa del soprano drammatico d’agilità ottocentesco), la Callas rappresenta perciò la messa al bando di questo linguaggio e di questa vecchia visione delle cose. Però: nemo propheta in patria, come tutti i profeti resta sola e occorrerà attendere soprattutto la Scotto e quindi la Freni per portare avanti il discorso felicemente iniziato. Tale abbandono di vecchi moduli (ritenuti inossidabili) fu guardata con sospetto dalla critica discografica legata a quei tempi, duri – potremmo dire – a morire: Celletti, ad esempio, a p. 610 del suo Il teatro d’opera in disco 1950-1987, Milano 19883, parla, di «una protagonista non spontanea e immediata».
Cosa udiamo invece della prova della Callas? Diciamo subito che sul piano vocale qualche oscillazione la avvertiamo in alto, però siamo ancora nel ’55 e non ci sono quei suoni della Gioconda II o del Poliuto del ’60, di alcune Norme e Tosche posteriori per finire con la Carmen. Durante tutto il I atto – quello forse meno adatto alla sensibilità grandiosa della cantante greca – un’espressività rattenuta e non è solo il timbro ad essere mantenuto sul colore chiaro e fanciullesco (mai manierato o infantile), ma la capacità di entrare e dare significato non solo alla parola, ma al momento e alla situazione scenica in cui si collocano le sue battute. A partire dall’iniziale «Gran ventura» si svolge uno dei dialoghi con il Console e Pinkerton tra i più ricchi di seduzione. Raramente si è sentito cantare la Callas così in punta di piedi miniando sillaba per sillaba, anche il racconto «Nessuno si confessa» è davvero condotto con semplicità (altro che assenza di spontaneità!) fino «Morto» in risposta alla domanda sulla sorte del padre. Sublime è poi il «Quindici netti netti! Sono vecchia diggià» che, se chiaramente gli anni non rispondono all’età anagrafica della cantante (che ne contava 32 all’epoca della registrazione, più del doppio, ma sempre 7 in meno della Freni dell’edizione Karajan), possiede un’eloquenza di sorridente semplicità che fa testo!
Ma tutto da ascoltare è il breve dialogo – tutto sottovoce e con finezza estrema – tra la protagonista e Pinkerton in cui la geisha sfoggia tutti gli oggetti e le statuette degli avi. Il racconto successivo «Ieri son salita» ha un andamento cullante a partire da «Io seguo il mio destino» in cui l’idea di sottomissione donna-uomo è resa splendidamente ed è davvero da brivido per la sintesi compiuta dalla Callas perché accanto a questa prima idea abbiamo una forte venatura di malinconia dovuta allo sforzo di abbandonare le tradizioni del proprio paese per un altro. Anche il successivo «Madama F. B. Pinkerton» a matrimonio avvenuto ha un che di allucinato, come se per la geisha tutto fosse come un sogno, sogno che sarà tragico incubo nella vicenda.
Il successivo duetto d’amore ci fa udire una Callas nella quale sono singolarissimi anche l’accento e l’inflessione dati ad alcune frasi come il reiterato «Butterfly rinnegata e felice» in cui il pianissimo su felice ben si contrappone alla lieve durezza di rinnegata. Egualmente molto pensosa e meditata la frase «Somiglio la dea della luna» in cui il pianissimo della parola ciel elimina tanto zucchero che siamo stati abituati ad ascoltare. Anche il successivo «Vogliatemi bene» è tutto sussurrato e di una delicatezza estrema con un’alternanza di accenti davvero straordinaria (anche qui i due aggettivi sfiorante e profonda sono delineati con il rinforzo dovuto sul secondo e l’effetto è straordinario). Anche il «Dicon che d’oltre mar» esprime bene il terrore della trafittura della farfalla. Insomma un finale d’atto eccezionale, ma la Callas è sola, perché Gedda compita tutto apparentemente a puntino. Elegante è vero, ma interpretativamente non dice nulla (mai un briciolo di sensualità o istinto predatorio: il «Ti serro palpitante» della parte finale del duetto evoca all’incirca l’opposto) e vocalmente impacciato tale da iniziare con un «Bimba, bimba non piangere» con un pianissimo non del tutto riuscito e in sentore, a mio avviso, di afonia Del resto qualche difficoltà appare anche precedentemente quando alla frase ripetuta «Beviamo ai novissimi legami» la voce si incrina leggermente. Anche il «Bimba dagli occhi pieni di malia» è piuttosto carente di trasporto e sensualità. Non capisco come si è pensato ad un Pinkerton così elegantemente smunto dinanzi ad una protagonista di tal rango. È vero che Pinkerton canta nel I solo una piccola sezione del III, ma è pur sempre un personaggio che va fatto sentire. Qui al di là delle buone maniere e di una gentilezza di fondo, manca quella nota che realmente lo rende antipatico: la facile strafottenza mista a certa carnalità che mette in tatto per imbrogliare la ragazza giapponese. Buone maniere che quasi subito vengono a noia, almeno a me. La direzione di Karajan per tutto il I atto è notevolissima, ma forse meno lirica estatica rispetto quella della II edizione anzi qua e la tende alla stringatezza.
Nel II atto nella Callas molta dolcezza del I è sparita per far largo ad un maggior scavo della parola che corrisponde all’evolversi della vicenda: sentire ad esempio l’amarezza del «Pigri ed obesi son gli Dei giapponesi» come anche lo smarrimento della semplice frase «Questo! Oh troppe spese». Molto sognante e anche venato di instabilità psicologica la rievocazione di Pinkerton «O Butterfly piccina mogliettina…» Anche la celebre «Un bel dì vedremo» è ricchissima di sfumature ed abilità vocale nel legare i suoni. Notare qui il contrasto tra «Io me ne starò nascosta…» e le frasi che seguono. Il successivo duetto con Sharpless è tenuto dalla Callas nei termini della leggerezza (cf. la sua Amina o Rosina) uditi nel I atto. A differenza del duetto d’amore, la Callas può contare su un buon interlocutore come Borriello dalla voce morbida (anche se leggermente nasale) e dai modi cordiali. Anche Carlin come Yamadori è bravo. Egualmente intrigante è Ercolani come Goro.
Eloquentissimo e terribilmente comico (per l’illusione che copre) l’inciso «Si sa che aprir la porta..». Molto efficace il commento orchestrale alle battute che seguono tra Yamadori, Sharpless e Goro.
Scena della lettera: la direzione è tenuta in punta di piedi e notevolmente colloquiale è Borriello. Quasi sillabata e di un dolore indicibile la frase «Non lo rammento più Suzuki dillo tu! Non mi rammenta più», contrapposta a «Oh le dolci parole» di estrema commozione. Il «Due cose potrei far» è risolto in un parlato pianissimo davvero impressionante. Tutto il resto della scena fino alla comparsa del bimbo è tenuta da Karajan su una nenia funebre eloquentissima ed adatta al momento.
L’«Ah m’ha scordata» assume una grandezza davvero tragica e la successiva descrizione del bambino possiede un’affettuosità che le interpreti italiane coeve alla Callas non conoscevano o veristizzavano ingrossandone le tinte. Qui tutto è tenuto con delicatezza estrema ed estrema parsimonia di suono. Il successivo «Che tua madre…» è svolto nei tratti del minimalismo in quanto a quantità di voce, ma con un lamento che ben lascia intuire la catastrofe finale. Convulso poi l’«Ah questo mai questo mestier… la mia vita vo troncar» con acuti che, se non fermissimi, danno tuttavia l’idea di un’esistenza allo sbando.
La cacciata di Goro è sottolineata da Karajan con sonorità un po’ troppo gonfiate, ma di bel suono. Duetto dei fiori e Finale II: bella la ripresa del motivo della romanza mentre Butterfly guarda al cannocchiale e davvero la Callas qui dà sfogo alla gioia con suoni magari non bellissimi (il suo timbro era questo: prendere o lasciare!), ma con un’esultanza che le si perdonano note di poca levigatezza. Brava anche la Danieli come preziosa interlocutrice. L’ordine di raccogliere «quanto di cespo o d’erba o d’albero fiorì» vede una Callas imperiosa sì, ma anche sorridente. L’espressione malinconica di «Non son più quella» mostra una Callas ispiratissima che poi con stizza malcelata sigla un «Che ne diranno: e lo zio Bonzo…» quasi sussurrato ma scandito alla perfezione. Si tratta di tutta una serie di quadretti che rappresentano una sorta di soliloquio che la Callas intuisce e sviluppa fino a «Nello shosi farem tre forellini…»
Molto bello e struggente il Coro a bocca chiusa, ma se si confronta la II edizione l’atmosfera è meno magica. Siamo però sempre al livello dell’eccellenza alla quale più evoluti sistemi di registrazione (e la DECCA che li aveva utilizzati da gran tempo) offrono ben diverso risalto.
Di grande e tragico impatto sono gli accordi del Preludio del III atto, ma lungi dal dipingere una limpida mattina giapponese, l’orchestra sfodera tinte grigiastre venate di profonda tristezza. L’orchestra si anima durante l’alzata del sole con cinguettio degli uccelli ed è veramente un ricamo di triangoli e fiati. Il «Bimbo mio dormi» è alquanto avventuroso in alto, però l’espressione è davvero sommamente mesta. Nel terzetto «Io so che alle sue pene» ben avviato da Borriello con espressione convinta, Gedda appare piuttosto distaccato nell’accento anche se genericamente commosso ed un po’ meno rilievo assume la Danieli. Ma tutto il brano sembra essere tenuto da Karajan con tempi, a mio avviso, un po’ troppo larghi. Gedda poi tira un po’ via la frase «Datele voi qualche soccorso» e ad essa segue l’«Addio fiorito asil» precedute dalle battute «Si tutto in un istante io vedo il fallo mio, ecc» in cui lo stile è da oratorio, freddo e da accademico professore. L’espressione non è né commossa, né angosciata.
Con la comparsa di Butterfly si apre la pagina più singolare e, in certo senso rivoluzionaria, dell’intera edizione. Dal timbro e dall’espressione infantile dell’iniziale «Suzuki, Suzuki, dove sei?» c’è una progressione drammatica stupefacente: qui c’è in poco più di un quarto d’ora la ricomposizione di tutte le tessere del mosaico calla siano ed è qui che Karajan sa suonare persino i silenzi. Tutto è tenuto sul filo del sussurro e del disfacimento interiore siglati da silenzi che mettono i brividi. A poco a poco la sposa bambina si ingigantisce a figura tragica di grande eloquenza. L’«Ah è sua moglie. Tutto è morto per me tutto è finito. Ah» è indice di un annientamento che nulla concede alla facile retorica così come il «Ah triste madre» stride non poco come suono, ma stridono anche le viscere della povera eroina che nell’augurio a Kate («Sotto il gran ponte…») sfodera una malinconia, un dolore ed un rimpianto che non hanno riscontri nella discografia. Singolare è poi il «Troppa luce di fuor, troppa primavera. Chiudi» che prepara in compostezza il suicidio: non abbiamo fazzoletti bagnati e accenti enfatici (la stessa Tebaldi ne abbondava specie nella I edizione del ‘51), ma un dolore lacerante interno che si sposa con l’eroismo della donna che preferisce la morte al disonore, ormai la sposa bambina è solo un ricordo. La lettura della scritta sulla lama è della grande tragica e tutta la parte finale è davvero quello della donna matura riletta attraverso i canoni neoclassici di Norma e che nulla alla facile emozione. L’orchestra sigla alla grande una tragedia che è rito catartico entro il quale stride non poco la vocetta di Gedda che per tre volte chiama la sposa dall’esterno.
La conclusione è insieme un giudizio ed una riflessione. Abbiamo una Butterfly maiuscola che vive della sua intelligenza interpretativa, dei contrasti e del significato di ogni parola: frutto di grande preparazione, ma anche di abilità nel manovrare un timbro ed un temperamento lontano le mille miglia dalla vicenda dell’infelice geisha. Ma la sagacia della Callas credo sia un’altra: l’aver costruito una progressione drammatica passando dalla sposa bambina alla madre e fondendo in sintesi nel finale in modo unico le due coordinate! Ma anche nella sposa bambina coesistevano gioia e dolore come nella madre affetto e sofferenza di una vita che, qualora fosse stata invivibile, era meglio sopprimere. Sono altrettanti piccoli e grandi fili che si riassumono nella sintesi fatta dalla Callas in alcuni punti dell’opera e, da ultimo, in tutta la parte finale. Negli anni ’50 questo poteva realmente apparire innovativo, in un’epoca, cioè, in cui abbondava un sentimentalismo facile ed epidermico, ma che tale sul momento non appariva: tutti si commuovevano dietro alla bella voce strappacore e basta, ma non andavano oltre. A tale sentimentalismo la Callas contrappone l’esistenzialismo amaro e disincantato memore, per esempio, di certi testi di Sartre e lo esprime con quella voce ‘brutta’ che nessuno all’epoca associava alla morbidezza e allo zucchero della parte. In questo la Callas va all’osso con tutta la sua voce di artista e di persona umana con le sue ombre e sofferenze (molte) e gioie (poche). Questo è un vertice interpretativo che ci porta a dire che anche in personaggi lontanissimi dal suo spirito, la Callas sapeva trarre fuori quel quid che altre cantanti assidue frequentatrici di quei ruoli non coglievano. Restando in Puccini la sua raffigurazione di Mimì e Turandot (donne diametralmente opposte) presentano anch’esse novità di approccio diverse da coloro che non coglievano la dissoluzione fisica dell’una e la nevrotica insicurezza dell’altra, mascherando a seconda con il sentimento o con lo squillo. Non voglio dire che la Callas sia stata la migliore Mimì o la migliore Turandot, ma in questi personaggi da lei interpretati si coglie la novità che qualcuno ha raccolto e portato a maturazione con mezzi e sensibilità propri.
Certo un’edizione di questo genere avrebbe desiderato un Pinkerton maggiormente contrastante la raffigurazione escogitata dalla Callas, da un lato, per farla risaltare e, per altro verso, per rendere giustizia al fatuo e sporcaccione tenente americano. Gedda, almeno per me, non risponde a questi requisiti. Però ci sarebbe da chiedersi se la scelta di questo cantante non sia stata decisa da Karajan per un suo disegno interpretativo. Personalmente, confesso la mia ignoranza o poca perspicacia, non riesco a capire tali scopi del direttore austriaco che, tanto in Lucia quanto in Trovatore, si è trovato ed ha accolto un Di Stefano che aveva limiti e crepe ben precisi, ma anche eloquenza, tutta sua è vero, da vendere. Sarebbe interessante che qualcuno ci spiegasse i motivi di tal scelta.
La Danieli fresca nel suo sproloquio iniziale («Sorride vostro Onore»), diviene nel II e III molto più meditativa e con una bella la dizione con le sottolineature che abbiamo detto per il duetto dei fiori. Appare un po’ in ombra nel terzetto (con la tendenza ad ingrossare i suoni ‘alla verista’) e torna a farsi valida nello scambio di battute con Butterfly al III atto. Di Borriello e degli altri abbiamo parlato: il loro livello è tra il discreto ed il decisamente buono, con l’eccezione forse di Clabassi che è un Bonzo un po’ oscillante nella sua sequela di maledizioni del I atto. Coro ottimo e registrazione senz’altro molto buona
Luca Di Girolamo