Venerdì, 26 Aprile 2024

Don Giovanni

Aggiunto il 29 Marzo, 2007


WA MOZART
DON GIOVANNI
Libretto: Lorenzo Da Ponte

Personaggi e interpreti:

• Don Giovanni SAMUEL RAMEY
• Il Commendatore PAATA BURCHULADZE
• Donna Anna ANNA TOMOWA-SINTOW
• Don Ottavio GÖSTA WINBERGH
• Donna Elvira AGNES BALTSA
• Leporello FERRUCCIO FURLANETTO
• Masetto ALEXANDER MALTA
• Zerlina KATHLEEN BATTLE

Chor der Deutschen Oper Berlin
Chorus Master: Walther Hagen-Groll

Clavicembalo: Jeffrey Tate

BERLINER PHILHARMONIKER
HERBERT VON KARAJAN

Casa discografica: DGG, 3 CD a prezzo pieno

Luogo e data di registrazione: Berlino, 1985

Note tecniche: registrazione di qualità perfetta
Pregi: Furlanetto
Difetti: direzione poco caratterizzata; interpreti non tutti eleganti o ispirati
Valutazione conclusiva: images/giudizi/discreto-buono.png


Elegante, elegantissimo sin dal packaging questo cofanetto della DGG che racchiude una delle “seconde” interpretazioni di Karajan, dando per “prima” del capolavoro mozartiano l’edizione live del 1960 di Salisburgo.
Suscitò sconcerto, questo Don Giovanni, alla sua uscita: i critici ne dissero di tutti i colori.
Lento, lentissimo sino alla catatonia. Questa era la prima accusa essenziale, e alla revisione storica a distanza di oltre vent’anni appare francamente immeritata. Perché sì, è vero, è una direzione lenta (e lo si percepisce in particolare nel finale secondo), ma di sicuro non più di quella di Klemperer che, da questo punto di vista, è assolutamente pestifera. È chiaro che essendo passata moltissima acqua sotto i ponti dell’interpretazione del capolavoro mozartiano, ed essendoci ormai abituati a letture frenetiche come quelle di interpreti di provenienza barocca e di strettissima osservanza filologica (e pensiamo a Harnoncourt o Gardiner), questa direzione appare indiscutibilmente “lenta”. Ma non lo è, in definitiva: il finale primo è brillante, trucibaldo, forse non più come nell’edizione di Salisburgo di un quarto di secolo prima, ma comunque non patisce di staticità. E lo stesso il resto dell’esecuzione, che è sicuramente molto più riflessiva di quanto non costumi oggidì, ma decisamente non catatonica.
Romanticismo. Dipende cosa si intende con questa definizione, con cui in Italia si è sempre identificato il Mozart “alla tedesca” come se fosse una menda intollerabile, mentre oggi invece sappiamo che questa è un’accusa pretestuosa. È chiaro che non si deve richiedere a Karajan un’esecuzione che ci apra abissi dionisiaci, per i quali ci dovremo rivolgere in altre direzioni. È un Mozart molto apollineo, di ottime maniere orchestrali, se vogliamo anche un filino troppo sinfonico (problema che accomuna diverse produzioni operistiche dell’epoca del Maestro salisburghese) per avere una completa credibilità teatrale, ma nondimeno affascinante in più punti: dal terzetto del primo atto “Ah soccorso!...” (quello dell’uccisione del Commendatore), al cristallino accompagnamento del Catalogo, alle due arie di Ottavio, modello ancora oggi insuperato, in cui l’accompagnamento araldico e poetico allo stesso tempo ben si sposa con le ottime intenzioni dell’incompreso Winbergh: e questi sono solo alcuni dei momenti in cui la lettura di Karajan si eleva a rango di autentica poesia. Se c’è invece qualcosa che disturba un po’ l’ascoltatore è l’evidente mancanza di una vera e propria presa di posizione da parte del “regista sonoro”: chi è Don Giovanni? È un farabutto? Un eroe? Donna Anna è furiosa perché ha ceduto alle sue avances (e lo tiene nascosto a Ottavio), o piuttosto perché non è riuscita a trovare la forza di cedere? E l’evidente isterismo di Elvira è un atteggiamento stereotipato inevitabile o un portato della presenza di una Baltsa sovraeccitata?
Come che sia, appare evidente la cura maniacale con cui il direttore segue personaggi come Leporello, grazie anche – si capisce – all’attenzione meticolosa con cui Furlanetto sceglie l’inflessione di ogni singola frase; o lo stesso Don Giovanni, un Ramey vocalmente elegante, raffinato, fine dicitore che non si sporca mai le mani; e, parallelamente, risalta per contrasto ancor più il menefreghismo che circonda altri personaggi come la coppia paesana che, per di più, sono vocalmente i più insignificanti: Malta ha un’emissione bovina e per di più assai sforzata, mentre la Battle sembra giustificare ben poco l’attenzione di cui la degnavano le grandi case discografiche che, all’epoca, le affidarono produzioni di notevole importanza.
Ne deriva quindi un discreto scollamento fra quello che riescono ad esprimere alcuni membri del cast, e il poco che dicono gli altri, vuoi per demeriti personali, vuoi per scarso supporto da parte del direttore.
Detto questo, non è che alla fine si esca insoddisfatti da questi dischi: il risultato è complessivamente gradevole e discretamente equilibrato e si ascolta con piacere; però manca qualcosa, come una presa di posizione ben precisa e, diremmo, anche un accompagnamento più ferreo a cantanti che vengono lasciati andare un po’ per conto loro.
A questa categoria appartiene anche una cantante che con Karajan aveva un feeling particolare: Agnes Baltsa. Ora, non è del tutto vero che la voce sia spezzata in più tronconi: la Baltsa ha sempre cantato in un certo modo che può piacere oppure no, ma che le ha assicurato un successo di notevole spessore in tutto il mondo,grazie anche ad un carisma scenico fuori dal comune. Il problema è che in disco il carisma scenico lo possiamo solo immaginare, sostituito com’è da un’emissione bloccata sul forte costante, che fa di questo personaggio fondamentalmente un’isterica monomaniaca, incapace di qualunque emozione che non sia la voglia di rivalsa e di vendetta nei confronti del protagonista. È un peccato perché – partendo da questi presupposti –la pagina più bella di tutta l’opera, e cioè il terzetto “Ah taci ingiusto core”, pur non affondando (grazie anche al contributo di Ramey e Furlanetto), purtuttavia non si eleva da un livello minimo che sta fra l’onesta compitazione e l’isterismo maniacale.
Egualmente tendenzialmente isterica è la Tomowa-Sintow, che canta discretamente (non benissimo, però: e non ci riferiamo solo alla coloratura abborracciata di “Non mi dir bell’idol mio”, anche perché è un passaggio che ha fatto impazzire tutte le cantanti di estrazione non strettamente belcantistica), ma che non riesce ad andare al di là del pronunciamento enunciativo e proclamatorio di qualunque frase di Donna Anna, senza mai dare all’ascoltatore l’idea che abbia capito qualcosa di tutte le ambiguità non risolte di cui il personaggio è portatrice.
Già meglio le cose vanno col bistrattatissimo Winbergh, tenore assai più dignitoso di quanto la critica italiana dell’epoca sospettasse, ma alle prese con un repertorio sbagliato; non a caso, di lì a poco qualcuno si sarebbe accorto che i ruoli lirico-leggeri non erano quelli più adatti alle sue caratteristiche, proponendogli quel Lohengrin che sarebbe diventato il personaggio con cui il tenore svedese si sarebbe definitivamente identificato, prima che una morte troppo precoce ce lo strappasse prematuramente. Nonostante tutto, la professionalità è di alto profilo e il personaggio di Don Ottavio brilla di una nobiltà serena non sempre riscontrabile in altre edizioni: entrambe le arie sono cantate con molta serenità, gusto e appropriatezza, anche se con una pronuncia italiana che è eufemistico definire perfettibile.
Della performance di Don Giovanni e di Leporello abbiamo già parzialmente detto, ma vale sicuramente la pena di puntualizzare alcuni aspetti: quanto alla resa complessiva, molto meglio Furlanetto che lavora sulla frase di ogni singolo recitativo dando a quello che dice uno spessore notevole. Quanto invece ad eleganza, raffinatezza, esatto spessore della frase musicale, Ramey riesce a far valere le ragioni di una civiltà di canto che, già all’epoca, era quella di uno dei più importanti esponenti della Rossini rénaissance. Quanto tale visione sia appropriata al personaggio è francamente difficile da dire, visto che Don Giovanni è uno di quegli archetipi in cui può starci di tutto; ma indiscutibilmente il grande basso americano procede in perfetta simbiosi con la visione rassicurante di Karajan e questo è un aspetto che giova all’unitarietà della visione d’insieme.
Rimane da parlare di Burchuladze. La voce, all’epoca, era di una potenza straordinaria, e chi lo ha ascoltato dal vivo lo può confermare. La parte è una di quelle massicce, tetragone, che richiedono – in definitiva – scarso spessore interpretativo e massiccia presenza incombente ed inquietante; e, da questo punto di vista, il risultato è perfettamente raggiunto.
In conclusione, un prodotto che ha retto discretamente la prova del tempo, che non appare meritevole di quelle critiche pesanti che gli furono scaricate addosso alla sua uscita, che però soffre di contraddizioni non risolte a causa soprattutto della mancanza di un disegno interpretativo che vada oltre il puro aspetto formale di nemmeno tutte le componenti. Sicuramente non è uno di quei lavori che hanno contribuito in modo determinante alla creazione del mito di Karajan

Categoria: Dischi

 

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