Cavalleria rusticana
Aggiunto il 18 Novembre, 2018
Le magie di Karajan sono mesmerizzanti nel versante orchestrale dell’opera di Mascagni, ed è forse la prima volta che ci accorgiamo della profonda sacralità di quest’opera così attaccata a una sorta di panteismo. È la Natura che si risveglia con i riti della Primavera; e, per la prima volta, ci rendiamo conto dell’importanza del lungo preludio e dei cori dei lavoratori che, insieme, ci raccontano il loro stare sospesi fra terra e cielo. E la musica non ci era mai apparsa così trascendentale, piena di fremiti e di mistero: da Karajan in avanti cambierà tutto, per tutti gli interpreti che verranno, sino al limite estremo rappresentato da Sinopoli che trasformerà l’opera in una sorta di messa profana.
Come nei coevi Pagliacci, questo risultato forse non sarebbe stato possibile senza l’idiomaticità dell’Orchestra della Scala e del meraviglioso Coro, all’epoca una gioiosa macchina da guerra nelle mani del grandissimo Roberto Benaglio. Le pagine corali hanno il respiro di una tragedia greca, con un’acme di straordinaria intensità nella processiona pasquale, ma anche nella finta allegria del Brindisi. I popolani sono i sacerdoti che commentano le azioni degli uomini e lo fanno con una solennità che, sino a quel momento, non avevamo mai percepito.
È ovvio che un’impostazione del genere si porta dietro due considerazioni.
La prima: un sinfonismo così sottolineato va nettamente a discapito della teatralità. E non è che i due aspetti non possano coesistere. Muti, per esempio, cui – in modo del tutto speculare – Cavalleria riesce molto meglio di Pagliacci, parte da Karajan nel recupero del panteismo mistico di cui l’opera è intrisa, ma lo intride di una teatralità brutale, violenta, molto ancien régime, sino a formalizzare un sincretismo molto affascinante nella proposizione ancorché discutibile nei risultati (soprattutto per quanto concerne la prima donna).
Prospettiva affascinante, questa di Karajan, quindi; e prospettiva che, come dicevo, ha fatto scuola sino alle estreme conseguenze.
Ma – e questa è la seconda considerazione – Cavalleria senza teatro è monca; e qui di teatro ce n’è proprio pochino, anche per colpa dei cantanti.
Tutto ciò che rende grandissimo il Canio di Bergonzi, gli si ritorce contro in Cavalleria. La timidezza nel porgere la frase, l’eloquio intimamente affettuoso, il sorriso insito nella frase: non c’è niente di queste qualità che vada bene per Turiddu. Intendiamoci: non è che Turiddu debba essere un troglodita, ma se in un’edizione come questa non si crea un po’ di scompiglio almeno sul piano vocale, si vive la sensazione di trovarsi in un’altra opera. Canta bene? Certo, Bergonzi canta sempre bene; ma Turiddu, come personaggio, gli è completamente estraneo. Oltre a ciò, la pronuncia bassopadana in un contesto così fortemente idiomatico suscita più di un sorriso (Sciantuzza schchiavo non sciono; sc’io non tornassci), e qui è forse un po’ peggio del solito. La Siciliana è cantata bene, ma non in modo tale da farla preferire ad altre versioni, anche di quelle parimenti poco idiomatiche. Nel grande duetto non mette in campo né colori né emozioni. E nell’Addio alla madre è goffo e impacciato.
Solo un po’ meglio la Cossotto, che però si traveste da sacerdotessa, da vestale del rito pagano celebrato da Karajan. La voce è nitida e splendidamente emessa come al solito; e, come al solito, con ben poca partecipazione e molto appagamento del settore acuto.
In questo contesto così fortemente caratterizzato al ribasso sul fronte teatrale, spicca in modo anomalo l’Alfio di Guelfi, letteralmente cannoneggiato.
Simpatica a spigliata la Martino, mentre la Allegri è una specie di habitué (discografica e non) del ruolo di Mamma Lucia.
Pietro Bagnoli