Giovedì, 28 Marzo 2024

Pagliacci

Aggiunto il 17 Novembre, 2018


RUGGERO LEONCAVALLO
PAGLIACCI

• Nedda JOAN CARLYLE
• Canio CARLO BERGONZI
• Tonio GIUSEPPE TADDEI
• Beppe UGO BENELLI
• Silvio ROLANDO PANERAI


Coro del Teatro alla Scala di Milano
Chorus Master: Roberto Benaglio

Orchestra del Teatro alla Scala di Milano
HERBERT VON KARAJAN

Luogo e data di registrazione: Milano, Teatro alla Scala, Ottobre 1965 (Intermezzi: Berlino, Settembre 1967)
Ed. discografica: DG 419 257-2 (+Cavalleria rusticana) {3CDS} (1987)ª; DG «The Originals» 449 727-2 {1CD} (1997)ª; DG F95G50427-9 (+Cavalleria rusticana) {3CDS} (Japan) ; DG POCG 2831-3 (+Cavalleria rusticana) {3CDS} (Japan) (1993)ª; DG POCG 3629 {1CD} (Japan) (1996)ª

Note tecniche sulla registrazione: eccellente
Pregi: un grande classico da tutti i punti di vista
Difetti: non ce ne sono
Valutazione finale: images/giudizi/eccezionale.png

Del dittico Pagliacci-Cavalleria inciso da Karajan, questa è la parte di gran lunga migliore grazie alla perfetta adesione dei cantanti al disegno interpretativo del direttore; adesione che è resa possibile non solo dal buon canto cui fanno riferimento tutti i critici – Giudici su tutti, ovviamente – ma anche dalla credibilità interpretativa del protagonista; che, in entrambi i casi, è il buon Bergonzi.
Ora, sul Commendatore Bergonzi è necessario intendersi. Per quanto mi riguarda è stato un grandissimo professionista, un vero Grande del Canto, ma non un uomo per tutte le stagioni e per tutti i repertori. Era immediatamente riconoscibile appena apriva bocca, ma la sua sensibilità lo portava ogni tanto all’inerzia interpretativa in ambiti che sembrava non riconoscere come suoi. Lo si è sempre definito “voce verdiana” e, con tutti i limiti che una definizione del genere si porta dietro, direi che – come dicono i ragazzi di oggi – “ci sta”. Certo, si devono accettare compromessi o regole diverse.
Nel 1965, quando il poco più che quarantenne Bergonzi registra questo ruolo con l’apporto non indifferente di Karajan, gli appassionati avevano in mente ben altri modelli espressivi, che sono quelli che collochiamo genericamente nell’area “verismo” e che rimandano, nell’immediato precedente, a Mario Del Monaco e Franco Corelli, totali monopolizzatori della parte dagli Anni Cinquanta, da quando cioè erano subentrati a Di Stefano. Sino a quel punto, il cliché era sempre lo stesso: ipertensione drammatica sin dall’inizio, quando cioè teoricamente Canio dovrebbe essere ancora il talento comico che gira per la Calabria con la propria compagnia di guitti. Per chi voglia rendersene conto, basta dare un’occhiata al video di Del Monaco di Tokyo 1961: non c’è un saltimbanco, è Otello che canta “Un grande spettacolo” come se fosse “Esultate”, ed è Otello che si abbatte su Nedda come se fosse Desdemona. Quanto a Corelli, la sua malinconia è senz’altro più centrata come dato saliente nella comprensione del personaggio, ma la voce è sempre quella di un eroe, non di un vinto: e, ancora una volta, ci sta, se si pensa che il primo interprete fu Fiorello Giraud, noto heldentenor.
Con Bergonzi, il piano interpretativo cambia, grazie anche all’intesa pressoché perfetta con Karajan; intesa che sembra molto più evidente rispetto a quella messa in campo in Cavalleria.
Il personaggio è un timido, complessato, che cerca di piacere al proprio prossimo non solo come parte essenziale del proprio lavoro. Da questo punto di vista, “Un tal gioco” è un piccolo capolavoro: Del Monaco ne faceva un proclama da guappo sin dall’enunciazione della prima parte, con ostentazione di una tale brutalità che ci si chiede come la gente potesse “applaudire ridendo allegramente”. Con Bergonzi, nella prima parte “vediamo” proprio la sceneggiata con tutto il suo aspetto cialtrone e ridicolo; e la minaccia arriva appena velata, alla fine, come un lieve alert, giusto per ricordare ciò che viene enunciato, e cioè che “il teatro e la vita” non sono esattamente “la stessa cosa”. E proprio per questa ostentata, timida tranquillità che si avverte con ancora più emozione il cambio di registro con la seconda parte del dramma, e in particolare con la scena della commedia, in cui un Canio inizialmente stranito e poi sempre più aggressivo arriva a consumare il delitto. Quindi, per quanto concerne l’aspetto interpretativo, questo è – se non un capolavoro assoluto (ma ci tira molto vicino) – qualcosa di veramente nuovo, grazie anche all’intesa pressoché perfetta col direttore.
Per quanto riguarda il cantante Bergonzi, è assolutamente notevole. Certo, ci sono sempre i soliti difetti di pronuncia bassopadana, ma il canto è esemplare e, per una volta, dà dignità alle vicende umane di un povero saltimbanco timido e stravolto da un’evoluzione più grande di lui: trionfatore assoluto.
Al suo fianco, un cast fantastico.
Joan Carlyle ha fatto carriera prevalentemente britannica, canta benissimo ed è una delle migliori interpreti di Nedda documentate dal disco.
Giuseppe Taddei fa un po’ di fatica sulla tessitura del prologo concluso dagli acuti di tradizione, ma canta con una profonda umanità e senza bava alla bocca: coltiva semplicemente una disperazione analoga a quella di Canio e di Nedda.
Rolando Panerai aveva già inciso splendidamente Silvio con Serafin, Callas e Di Stefano: ancora una volta, il suo canto è pieno, affettuoso, timbratissimo e pieno di sincerità.
Ugo Benelli canta benissimo.
L’Orchestra e il Coro della Scala eseguono meravigliosamente questo repertorio che hanno nel proprio DNA, anche se accettano e sviluppano le indicazioni del direttore con un suono terso e luminoso.
Quanto a Karajan, si avverte il profondo amore per questa partitura di cui ci racconta – con lievemente meno teatralità rispetto a Serafin – le profonde connessioni con il mondo di Wagner, di Mendelssohn, di Verdi e di Puccini. Esiste in questa lettura di Karajan, rispetto ad altre edizioni, un maggior contenuto “sinfonico”, ben percepibile non solo nell’Intermezzo ma anche nell’accompagnamento alla ballata di Nedda e al Notturno dei due amanti clandestini. Ma, direi, anche la scelta degli interpreti risponde a un desiderio di spostare gli equilibri interpretativi consueti; e, da un punto di vista strettamente innovativo, questa è una delle migliori direzioni di Karajan documentate da disco
Pietro Bagnoli

 

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