Venerdì, 29 Marzo 2024

Aggiunto il 07 Luglio, 2006

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Dame Joan Sutherland



Note biografiche



Joan Sutherland
(Sydney, 7 novembre 1926)

Per una giovane artista che adora Kirsten Flagstad e desidera interpretare Brünnhilde, Sieglinde o Isolde, non v’ha miglior debutto che quello wagneriano: il 22 marzo 1947, alla Sydney Town Hall, il programma del Wagnerian Operatic Concert prevede l’esibizione di Joan Sutherland, ventenne soprano australiano, nella ballata di Senta del Fliegende Holländer, nella scena della stanza nuziale del Lohengrin e nel quintetto dei Meistersinger, il tutto cantato in inglese.
Parrà strano, ma Miss Sutherland non frequenta il conservatorio. Orfana di padre, ha studiato da mezzosoprano con sua madre, esercitandosi molto nella coloratura, e le sue decise aspirazioni musicali convivono, suo malgrado, col pur necessario lavoro di segretaria (che lascerà nel 1949). Solo la vincita di una borsa di studio le ha permesso di seguire le lezioni di Aida Summers che, per sua fortuna, la dichiara dramatic soprano e la indirizza verso un repertorio conforme alle sue qualità, consentendole di vincere alcuni premi locali. La frequentazione dei concerti giovanili della Sydney Symphony Orchestra, inoltre, l’ha messa in contatto con un gruppo di promettenti musicisti australiani, tra i quali il pianista Richard Bonynge, avvicinandola alla Bach Choral Society e al Ladies Choir, con cui nel 1946 esegue, da corista, l’Oratorio di Natale bachiano. Ed è proprio cantando nel coro che viene notata da un collega ed è ingaggiata per il concerto del suo debutto.
Lo sboccio wagneriano, però, è destinato a restare piuttosto isolato. Il 20 giugno, a tre mesi dal concerto d’esordio, Joan è Galatea nell’Acis and Galatea di Händel, e il 30 agosto è Dido nel Dido and Aeneas di Purcell. A settembre è in tour con un programma eterogeneo che, tra l’altro, include Porgi, amor, qualche ristoro delle Nozze di Figaro e Voi lo sapete, o mamma della Cavalleria mascagnana.
Negli anni seguenti le esibizioni della Sutherland si moltiplicano, con un repertorio ancora decisamente composito: affronta l’Elijah di Mendelssohn (1949) e il Samson e il Messiah di Händel (1950), nonché la Judith composta dal direttore del conservatorio di Sydney, Eugène Goossens (1951), e nei recital alterna pagine verdiane (Ritorna vincitor) e wagneriane (Dich, teure Halle) a Suicidio! della Gioconda.
Nell’agosto 1951 Joan lascia Sydney per Londra, dove frequenta l’Opera School presso il Royal College of Music e ritrova Bonynge, che le trasmette la passione per il melodramma del primo Ottocento e, convincendola a studiare la scena di pazzia dei Puritani, la costringe di fatto ad affinare specialisticamente la sua tecnica di canto e a guadagnare un controllo totale di acuti e sopracuti (è noto che Richard vinse le sue resistenze ricorrendo anche all’inganno, facendole eseguire brani trasposti una terza sopra). Dopo due audizioni a vuoto per il Covent Garden, il 16 luglio 1952 il soprano interpreta Giorgetta nel Tabarro di Puccini al Parry Theatre: l’impressione dei critici e del pubblico è più che buona, tanto da aprirle le porte del massimo teatro londinese, presso cui impersona, il 28 ottobre, la Prima Dama nel Flauto magico di Mozart.
Dal 1952 al 1958 la Sutherland affianca lo studio con Bonynge (che sposa nel 1954) a concerti e rappresentazioni alla Royal Opera House e in altri teatri di Regno Unito, Irlanda e Canada, affrontando sia le parti sopranili di alcune composizioni non operistiche di Monteverdi, Bach, Mozart, Beethoven, Verdi, Dvořák, Bruckner, Mahler, Honegger e Martin, sia ruoli secondari in Aida, Norma, Tristan und Isolde, Elektra, Die Walküre, Carmen, Der Ring des Nibelungen e, soprattutto, interpretando per la prima volta Amelia nel Ballo in maschera (1952), la Contessa nelle Nozze di Figaro e Lady Rich in Gloriana (1953), il ruolo del titolo nell’Aida, Agathe nel Freischütz, Lucinda nella Cecchina di Piccinni e Antonia nei Racconti di Hoffmann (1954), Jenifer in The Midsummer Marriage di Tippett (in prima mondiale), Giulietta e Olympia nei Racconti, Euryanthe nell’omonima opera di Weber e Micaela nella Carmen (1955), Vitellia nella Clemenza di Tito e Pamina nel Flauto (1956), Eva nei Meistersinger, il ruolo del titolo nell’Alcina di Händel, Gilda nel Rigoletto, Madame Herz in Der Schauspieldirektor di Mozart, Laodice nel Mitridate Eupatore di Scarlatti, il ruolo del titolo nell’Emilia di Liverpool di Donizetti e Desdemona nell’Otello verdiano (1957), Madame Lidoine nei Dialoghi di Poulenc, Temperentia nell’Applausus Musicus di Händel e Donna Anna nel Don Giovanni (1958).
La lunga gavetta termina il 17 febbraio 1959, colla prima di cinque leggendarie recite di Lucia di Lammermoor, il capolavoro donizettiano allestito al Covent Garden dopo ventinove anni di assenza in cartellone. Diretta da Serafin e Zeffirelli, la trentaduenne Joan Sutherland strega il pubblico e s’impone improvvisamente all’attenzione internazionale con un clamoroso trionfo di inedita vocalità belcantistica e intensa interpretazione tragica. È la data di nascita del fenomeno Sutherland (consacrato da un contratto esclusivo colla Decca), destinato a tracciare un solco profondissimo nella storia del canto lirico: «La perfezione dell’emissione, la naturalezza con cui le uscivano dalla bocca i più pericolosi vocalizzi, la dolcezza vellutata del timbro, mai incrinata da un’apparenza di sforzo, la nobiltà del portamento, tutti questi elementi – scriverà, tre anni più tardi, un estasiato Massimo Mila – concorrevano a fornire il personaggio d’una soggiogante presenza scenica».
Balzata da Londra all’Europa e al resto del mondo, la Sutherland limita e specializza il proprio repertorio e nel corso degli anni, diretta quasi esclusivamente da suo marito, debutta in Rodelinda (1959), La traviata, I puritani e La sonnambula (1960), Beatrice di Tenda (1961), Die Zauberflöte (Königin), Gli Ugonotti e Semiramide (1962), Giulio Cesare e Norma (1963), Faust (1965), La fille du régiment (1966), Lakmé e Orfeo ed Euridice di Haydn (1967), Les contes d’Hoffmann (i quattro ruoli sopranili, 1970), Maria Stuarda (1971), Lucrezia Borgia (1972), Die Fledermaus (1973), Esclarmonde (1974), Il trovatore (1975), La vedova allegra (1976), Suor Angelica e Le Roi de Lahore (1977), Idomeneo (1979), I masnadieri (1980), Adriana Lecouvreur (1983), Anna Bolena (1984) e Hamlet di Thomas (1985). Alle rappresentazioni teatrali accosta frequenti apparizioni televisive e una lunga serie di concerti, con brani essenzialmente barocchi e belcantistici.
Paga degli strepitosi successi internazionali, la primadonna si ritira dalle scene nel 1990, sessantaquattrenne, dopo quarantatré anni di carriera, circa sessanta ruoli interpretati e col titolo di Dama dell’Impero Britannico, concessole da Elisabetta II nel 1979 per meriti artistici. Ha dichiarato: «I’m very happy to sing whatever I’m singing. I’ve always enjoyed any role I’ve been given at a certain time. They’ve all been favourites, they’ve all been wonderful pieces to play».



Registrazione



1955* Weber, Euryanthe
(con M. Schech, F. Vroons, O. Kraus, K. Böhme)
dir. F. Stiedry (Londra, BBC, 30 settembre o 1° ottobre)

1959 Operatic Arias
(arie da Lucia di Lammermoor, Ernani, I vespri siciliani, Linda di Chamounix)
dir. N. Santi

1959 Mozart, Don Giovanni
(con E. Wächter, E. Schwarzkopf, G. Sciutti, L. Alva, G. Frick)
dir. C.M. Giulini

1960 The Art of the Prima Donna
(arie di Arne, Händel, Bellini, Gounod, Verdi, Mozart, Thomas, Meyerbeer, Delibes, Rossini)
dir. F. Molinari Pradelli

1961 Donizetti, Lucia di Lammermoor
(con R. Merrill, R. Cioni, C. Siepi)
dir. J. Pritchard

1961 Verdi, Rigoletto
(con R. Cioni, C. MacNeil, C. Siepi)
dir. N. Sanzogno

1962* Mozart, Die Zauberflöte
(con G. Evans, R. Lewis, J. Carlyle, D. Kelly)
dir. O. Klemperer (Londra, Covent, 4 gennaio)

1962 Bellini, La sonnambula
(con N. Monti, F. Corena)
dir. R. Bonynge

1962 Verdi, La traviata
(con C. Bergonzi, R. Merrill)
dir. J. Pritchard

1962 Händel, Alcina (ed estratti del Giulio Cesare)
(con T. Berganza, M. Sinclair, E. Flagello, G. Sciutti, M. Freni)
dir. R. Bonynge

1962 Command Performance
(arie e romanze di Weber, Massenet, Meyerbeer, Leoncavallo, Verdi, Rossini, Bellini, Benedict, Arditi, Ricci, Tosti, Bishop, Flotow, Wallace, Balfe)
dir. R. Bonynge

1963 The Age of Bel Canto (con M. Horne, R. Conrad)
(brani di Piccinni, Händel, Shield, Mozart, Gail e Boieldieu, Rossini, Weber, Bellini, Donizetti, Verdi)
dir. R. Bonynge

1963 Bellini, I puritani
(con P. Duval, R. Capecchi, E. Flagello)
dir. R. Bonynge

1963 Bizet, Carmen
(con R. Resnik, M. del Monaco, T. Krause)
dir. T. Schippers

1964 Bellini, Norma
(con M. Horne, J. Alexander, R. Cross)
dir. R. Bonynge

1966 Rossini, Semiramide
(con M. Horne, J. Rouleau, J. Serge, S. Malas)
dir. R. Bonynge

1966 Bellini, Beatrice di Tenda
(con L. Pavarotti, C. Opthof, J. Veasey)
dir. R. Bonynge

1966 Gounod, Faust
(con F. Corelli, N. Ghiaurov, M. Elkins, M. Sinclair)
dir. R. Bonynge

1967 Delibes, Lakmé
(con G. Bacquier, A. Vanzo, J. Barbié)
dir. R. Bonynge

1967 Verdi, Requiem
(con M. Horne, L. Pavarotti, M. Talvela)
dir. G. Solti

1967 Donizetti, La fille du régiment
(con L. Pavarotti, S. Malas, M. Sinclair)
dir. R. Bonynge

1968 Mozart, Don Giovanni
(con G. Bacquier, W. Krenn, P. Lorengar, D. Gramm, M. Horne)
dir. R. Bonynge

1969 Romantic French Arias
(arie di Offenbach, Meyerbeer, Charpentier, Auber, Bizet, Massenet, Gounod, Lecocq, Massé)
dir. R. Bonynge

1969 Meyerbeer, Les Huguenots
(con M. Arroyo, H. Tourangeau, A. Vrenios, N. Ghiuselev, G. Bacquier)
dir. R. Bonynge

1970 Händel, Messiah
(con H. Tourangeau, W. Krenn, T. Krause)
dir. R. Bonynge

1970 Donizetti, L’elisir d’amore
(con L. Pavarotti, S. Malas, D. Cossa)
dir. R. Bonynge

1970* Bellini, Norma
(con C. Bergonzi, M. Horne, C. Siepi)
dir. R. Bonynge (New York, Met, 4 aprile)

1971 Donizetti, Lucia di Lammermoor
(con L. Pavarotti, S. Milnes, N. Ghiaurov)
dir. R. Bonynge

1971 Verdi, Rigoletto
(con S. Milnes, L. Pavarotti, M. Talvela, H. Tourangeau)
dir. R. Bonynge

1972 Puccini, Turandot
(con M. Caballé, L. Pavarotti, N. Ghiaurov, P. Pears)
dir. Z. Mehta

1972 Offenbach, Les contes d’Hoffman
(con P. Domingo, G. Bacquier)
dir. R. Bonynge

1973 Bellini, I puritani
(con L. Pavarotti, P. Cappuccilli, N. Ghiaurov)
dir. R. Bonynge

1974-5 Donizetti, Maria Stuarda
(con L. Pavarotti, H. Tourangeau)
dir. R. Bonynge

1975 Massenet, Esclarmonde
(con H. Tourangeau, C. Grant, G. Aragall, L. Quilico, R. Lloyd)
dir. R. Bonynge

1975 Leoni, L’oracolo
(con T. Gobbi, C. Grant, R. van Allan, R. Davies, H. Tourangeau)
dir. R. Bonynge

1976 Operatic Duets (con L. Pavarotti)
(duetti da La traviata, La sonnambula, Linda di Chamounix, Otello, Aida)
dir. R. Bonynge

1976 Verdi, Il trovatore
(con L. Pavarotti, M. Horne, I. Wixell, N. Ghiaurov)
dir. R. Bonynge

1977 Donizetti, Lucrezia Borgia
(con G. Aragall, M. Horne, I. Wixell)
dir. R. Bonynge

1978 Sutherland sings Wagner
(brani da Rienzi, Der fliegende Holländer, Tannhäuser, Lohengrin, Die Walküre, Die Meistersinger von Nürnberg, Tristan und Isolde)
dir. R. Bonynge

1978 Puccini, Suor Angelica
(con D. Jones, C. Ludwig, I. Buchanan)
dir. R. Bonynge

1979 Massenet, Le Roi de Lahore
(con L. Lima, S. Milnes, N. Ghiaurov, J. Morris, H. Tourangeau)
dir. R. Bonynge

1979 Verdi, La traviata
(con L. Pavarotti, M. Manuguerra)
dir. R. Bonynge

1980 Bellini, La sonnambula
(con L. Pavarotti, N. Ghiaurov)
dir. R. Bonynge

1982 Verdi, I masnadieri
(con S. Ramey, F. Bonisolli, M. Manuguerra)
dir. R. Bonynge

1983 Thomas, Hamlet
(con S. Milnes, G. Winbergh, Conrad)
dir. R. Bonynge

1984 Bellini, Norma
(con L. Pavarotti, M. Caballé, S. Ramey)
dir. R. Bonynge

1985 Händel, Athalia
(con E. Kirkby, J. Bowman, A. Rolfe Johnson, D. Thomas, A. Jones)
dir C. Hogwood

1985 Händel, Rodelinda
(con S. Ramey, A. Nafé, H. Tourangeau, C. Rayam, I. Buchanan)
dir. R. Bonynge

1987 Donizetti, Anna Bolena
(con S. Ramey, J. Hadley, S. Mentzer, B. Manca di Nissa)
dir. R. Bonynge

1987 Verdi, Ernani
(con L. Pavarotti, L. Nucci, P. Burchuladze)
dir. R. Bonynge

1988 Cilea, Adriana Lecouvreur
(con C. Bergonzi, L. Nucci, C. Ciurca)
dir. R. Bonynge


Nel 2004 la Decca ha pubblicato un cofanetto di sei cd, The art of Joan Sutherland. Pur con vistose lacune, il materiale riunito per l’occasione dà un quadro abbastanza ampio della parabola artistica della Stupenda, articolandola in comodi ambiti stilistico-cronologici: il barocco, Mozart, Verdi e Wagner, l’opera francese e frammenti di vario romanticismo, per di più presentando per la prima volta sei splendide arie francesi, incise con Bonynge al piano nel 1969 – a margine del recital famoso – e incredibilmente dimenticate. Ascolto dopo ascolto si gode dell’arte di questo leggendario soprano, che ha messo al servizio della belcanto-renaissance (e del melodramma in genere) un talento eccezionale, levigato durante anni di intenso studio, riesumando, in collaborazione con suo marito, prassi e opere dimenticate: è superfluo evidenziare come la storia della musica e della sua interpretazione abbiano colla comunione artistica e umana dei signori Bonynge un non piccolo debito.
Dramatic coloratura soprano, ma anche donna di grande intelligenza e forte personalità, generosamente dotata di spiccato senso dell’umorismo, la Sutherland è stata una diva-antidiva, riservata, che amava intrattenersi in camerino, tra l’una e l’altra scena, lavorando all’uncinetto, e che di recente, in un’intervista, ha fatto ennesimo sfoggio di autoironia ammettendo di cantare ancora, passeggiando nel giardino di casa, con ronzante voce di baritono. Ma quel che conta è ben altro. La sua improvvisa epifania internazionale ha segnato l’avvio di un’insperata riforma belcantistica, subito accolta con vivo entusiasmo di critica e di pubblico: dopo i primi abbacinanti ripristini di Maria Callas (la ‘rivoluzione’), riviveva finalmente sulla scena, con programmatica ampiezza, il mito di un passato già incartato nei libri di storia, e l’esempio di un’estrema consapevolezza stilistica, anche semplicemente orientando, diede frutti notevoli per quantità e qualità dell’esplorazione di un repertorio fino ad allora adulterato o dimenticato, istituendo una specializzazione interpretativa viva ed elastica, senza data di scadenza. Tanto che se oggi il melodramma si esegue in un certo modo, lo si deve anche e soprattutto a Joan Sutherland e alla sua suprema celebrazione della gloria della voce umana.



Commenti



LA STUPENDA

Sostenere che Joan Sutherland è stata una delle più grandi protagoniste dell’opera nel Novecento non comporta sforzo alcuno: si tratta di riconoscere nella sua lunga parabola artistica il segno oggettivo di un significativo e persistente consenso internazionale e di una forte e peculiare impronta stilistica. Con lei la natura è stata generosa: la sua voce, di bellissimo e ricco timbro (nei primi anni sessanta l’originale argentina freschezza dei suoni, a causa di una serie di interventi chirurgici sui seni nasali, cedette il passo a una voce più scura e morbida, egualmente seducente), aveva prodigiosa omogeneità (comportante, peraltro, una tavolozza cromatica ridotta all’essenziale), notevole volume e straordinaria estensione (la limitata sostanza del registro grave, poco risonante, era compensata da una gamma di acuti e sopracuti di bellezza e rotondità senza eguali), e lo studio rigoroso e continuato, seppur non rimediando alle invincibili tendenze a intubare i suoni del caldo registro centrale e a sfumare le consonanti – soprattutto le occlusive – fino a rasentare talvolta l’inintelligibilità (l’articolazione, abbastanza buona fino ai primissimi anni sessanta, divenne opaca e nel tempo, fatto salvo un minimo miglioramento nel decennio successivo, si fece sempre più confusa, anche a causa di dizione e pronuncia meno vigilate), le guadagnò una tecnica sopraffina, tutta italiana, che esaltava i sopracuti limpidi e penetranti e le consentiva, tra le altre cose, un controllo dinamico assoluto, un legato da manuale e agilità perfette quanto spericolate, anche a piena voce. Queste qualità, unite alla consapevolezza storica e all’elastico sapere filologico derivatole dalla competenza di Richard Bonynge, hanno fatto sì che la Sutherland – dagli ammiratori proclamata La Stupenda, Koloraturwunder e The incomparable – contribuisse più di chiunque altro alla riforma del canto lirico nel segno del recupero della tecnica e della prassi esecutiva belcantistica, sviluppando specialisticamente e portando ai massimi esiti la ‘rivoluzione’ iniziata poco prima da Maria Callas.
Colla cantante greca, quasi sua coetanea (maggiore di circa tre anni) ma ben più precoce nel successo, Joan ha l’occasione di lavorare al Covent Garden, interpretando nel 1953 ruoli minori nell’Aida (la sacerdotessa) e nella Norma (Clotilde). L’anno prima aveva potuto assistere alle prove della Norma colla Callas e la Stignani, riportandone un’emozione enorme, e con Richard ha da subito ascoltati e riascoltati i dischi della Divina, per poi restare ammirata alle sue recite londinesi del Trovatore e della Traviata. Ma come sarebbe un errore sottovalutare l’influenza della Callas sulla Stupenda, lo sarebbe anche una sopravvalutazione: il magistero callassiano sulla Sutherland fu soprattutto culturale e non provocò alcuna velleità d’emulazione. Nel solco tracciato dalla Divina nella rifioritura del belcanto (promozione, secondo Celletti, di «un irresistibile, ma generico, ritorno all’antico»), il soprano australiano si inserì con assoluta originalità e superiore consapevolezza specialistica, attingendo a pionieristiche ricognizioni musicologiche e a meditati ascolti di documenti sonori vecchi e nuovi, spingendosi «molto più in là della Callas nell’ambito del virtuosismo puro, dell’eleganza di esecuzione, del rispetto delle leggi obbligatorie per il repertorio preverdiano, come l’improvvisazione delle mezze cadenze e delle cadenze, e le variazioni nei ‘da capo’» (Celletti). La progressiva acquisizione di una completa coscienza stilistica è ravvisabile non soltanto nella graduale scrematura e riorganizzazione del suo repertorio nel corso degli anni cinquanta (che tende a concentrarsi su lavori sette-ottocenteschi di area italiana o francese), ma anche dalla trasformazione dell’interprete che, accantonando l’effetto di parola e di colore, sperimenta e conquista soluzioni espressive più raffinate, risolte in una tornita ed emozionante bellezza sonora, con un amplissimo ventaglio di risorse legate al fraseggio musicale.
In quest’ottica, la Lucia del 1959 appare emblematica, oltre che per la compiuta epifania di una grande artista, proprio per il significato di simbolica cesura tra due vicende di carriera leggermente differenti. La registrazione radiofonica della scena di pazzia (recita del 26 febbraio) documenta i residui di un sentimento di recitazione più esteriorizzato, nutrito dalla confidenza con opere più ‘prosastiche’ (si ascolti, per un esempio significativo, la registrazione amatoriale di Ritorna vincitor, dalle recite di Aida, in inglese, del 1955), e quindi attento, oltre che all’accento musicale, sempre curatissimo, anche all’accento della parola; finanche nella ripresa della cabaletta – meravigliosamente variata – s’avverte un misurato compiacimento per certi effetti drammatici, con simulazione di affanno (al giunger tuo soltanto…) e sopracuti tirati di forza fino a un educato (e mai volgare) parossismo espressivo (tra le critiche coeve si leggono passi come questo: «Her voice, intrinsically beautiful, was under the strictest control, the ornaments evenly delivered, nothing shirked, and the entire shaping of the scene put to the most dramatic effect»). Si direbbe quasi un’ultima minima concessione alle ‘tradizionali’ attese del pubblico, se dietro l’angolo, immediatamente dopo (aprile 1959), c’è la sostanza che si palesa già nell’incisione della stessa pagina per la Decca (Operatic Arias), che testimonia un approccio intenzionalmente meno estroverso, più sofferto ed elegiaco, più intimo e interiore nonché più cesellato vocalmente, eppure non meno espressivo, pienamente confermato nell’incisione integrale dell’opera nel 1961 (affrontata malgrado una fastidiosa sinusite), in cui questa significativa scelta attorale si fa ancor più intensa, toccante e partecipata (tanto più che, nel frattempo, era cresciuta la dimestichezza dell’artista coll’amata loquela di Dante).
A proposito di questa geniale espressività, mirabilmente coniugata con un saldo aplomb stilistico, si è parlato – e giustamente – di astrazione e stilizzazione, ma non nel senso di rappresentazione essenziale degli affetti, quanto nel significato di purificazione del tessuto musicale dagli eccessi retorici, coerente con un determinato criterio estetico e necessaria per la manifestazione di un intenso potere interpretativo tradotto in scelte espressive inedite: la resa drammatica non è più ricercata preponderantemente nell’effetto di parola (che, anzi, è spesso del tutto evitato) ma soprattutto nell’accento musicale e nella gestione delle risorse ‘strumentali’ della voce, piegata all’espressione mediante un controllo accostabile a quello di un qualsivoglia musicista che suoni il proprio strumento (il soprano australiano ‘suona la voce’ come un violinista il violino).
Il fraseggio musicale sutherlandiano conosce un rubato finissimo, un ammaliante allentamento del moto fatto di impercettibili indugi e lievissime accelerazioni all’interno delle frasi, un ottimo controllo del respiro e dell’intensità sonora, un’accorta preferenza di color chiaro o color scuro, un abilissimo dosaggio del legato, una meditata gestione di portamenti e abbellimenti nonché un infallibile istinto per la maggiore o minore pulsione ritmica: ne deriva l’uranica immaterialità conferita a molti cantabili, come pure la travolgente frenesia di esattissime cabalette, nell’intensa evocazione di un intero caleidoscopio di immagini e sentimenti. Non a caso, interrogata sulla Callas, la Sutherland ha affermato: «È stata la più seducente artista della voce che io abbia mai conosciuto. Un talento incredibile, con una volontà di lavoro instancabile. Purtroppo cantò troppi ruoli diversi all’inizio della carriera. E al contrario di me, che ho cercato soprattutto di sviluppare un bel suono, evitando una drammatizzazione eccessiva della voce, lei puntava su questa caratteristica, creando effetti straordinari ma mettendosi a rischio». Evitare «una drammatizzazione eccessiva della voce» significa appunto recitare (drammatizzare) sviluppando «un bel suono», comunicando le emozioni e i sensi del dramma quasi esclusivamente con esso, colla forza di suggestione della musica. In poche righe la Sutherland ha perfettamente riassunte le profonde differenze tra lei e la Callas, indicando nelle scelte di repertorio e nella gestione degli effetti vocali il loro maggiore discrimine.
A parte ciò, se nel flusso melodico (che lei chiama «respiro della melodia cantata») l’espressività sutherlandiana ha modo di esprimersi compiutamente, non si può tacere che essa – anche a causa della specifica impostazione vocale – ha trovato terreno impervio nei declamati e in tutti quei luoghi, particolarmente recitativi, in cui l’accento di parola e il gioco plastico e coloristico aiutano non poco a rendere compiutamente il messaggio drammatico. Tuttavia, le soluzioni di volta in volta adottate dal soprano mostrano una decisa volontà di risolvere i passaggi con efficacia unita a coerenza stilistica, ottenendo risultati del tutto plausibili non soltanto nelle varie scene di pazzia, in cui comunica uno straniamento incredibilmente intenso e mai grottescamente nevrotico, ma anche in violenti declamati come Figlia impura di Bolena della Maria Stuarda o Presso Lucrezia Borgia! dell’altro capolavoro donizettiano, entrambi resi con impressionante alterezza venata di ferina crudeltà. Ciò non toglie, tuttavia, che talora il tentativo di mediazione non appaia pienamente riuscito, dando piuttosto l’idea di una semplificazione poco comunicativa, oppure di una faticosa artificiosità, spia non già di una mancata immedesimazione nel relativo personaggio – ché anzi è evidente il totale e consapevole compenetrarsi, con inesausta varietà, nei diversi caratteri interpretati – ma di un limite/impedimento essenzialmente tecnico.
Negli anni sessanta, consacrata dall’epifania londinese, la Stupenda, in perfetta intesa con Bonynge (per lei «guida incomparabile nei territori della musica») e spesso affiancandosi il mezzosoprano Marilyn Horne, dà il via a una vera e propria riforma del canto, orientando irresistibilmente il gusto del pubblico e la formazione vocale di intere generazioni di studenti di conservatorio. Del 1960 è The Art of the Prima Donna, monumentale recital (diretto da Molinari Pradelli), con cui è illustrato il progresso della tradizione belcantistica da Arne e Händel a Verdi, celebrando famose primedonne del passato, dalla Billington alla Pasta, alla Malibran, alla Grisi, alla Tetrazzini, alla Melba. Brano dopo brano, mutando accortamente approccio esecutivo a seconda del contesto stilistico, la Sutherland padroneggia con sfacciata semplicità tutte le impervie colorature, variando magistralmente (fu Bonynge, che scelse i pezzi, a provvedere varianti e puntature) ed eseguendo una disarmante infinità di trilli granitici, di roulades di prodigiosa esattezza, di volate liquide e impalpabili, di filati eterei e dolcissimi, di picchettati perfetti, di sopracuti astrali, in un virtuosismo trascendentale, di sopraffina eleganza e di acutissima espressione. La sua bravura è talmente inebriante da ubriacare.
Nel 1963 questa ‘pedagogia belcantistica’ ha un seguito con The Age of Bel Canto, recital a tre voci (colla Horne e Richard Conrad) confezionato da Bonynge, che propone brani di Piccinni, Händel, Lampugnani, Bononcini e altri, fino al celestiale duetto Semiramide-Arsace del capolavoro rossiniano e, soprattutto, al duetto Arturo-Alaide della Straniera belliniana e alla vertiginosa cabaletta di Odabella dell’Attila verdiano, resa con una perfezione, un piglio (gli attacchi sono a dir poco sbalorditivi), una potenza e un aplomb inimitabili e insuperati.
Alcune delle opere sfiorate da questi e altri strabilianti recital (tra cui Command Performance e Coloratura spectacular) sono state più volte affrontate in teatro, diventando veri e propri ‘cavalli di battaglia’. La Sutherland è stata 51 volte Lucrezia Borgia, 57 Antonia dei Contes d’Hoffmann (45 Giulietta, 42 Olympia e 37 Stella), 61 Donna Anna del Don Giovanni, 62 Amina della Sonnambula e Marie della Fille du régiment, 68 Elvira dei Puritani, 81 Violetta della Traviata, 111 Norma e 221 Lucia. Ha interpretato 57 volte anche Anna Glavari della Merry Widow e 25 Rosalinde del Fledermaus, segno della sua passione per l’operetta e il musical (ai quali ha dedicato, tra l’altro, un brillante recital discografico, Love live forever, nel 1966).
La Sutherland è stata un’attrice tragica molto carismatica e coinvolgente. La sua presenza sul palcoscenico, che dominava anche per il fisico imponente, era caratterizzata da mimica spiccata e ampio movimento, il tutto secondo stilemi d’altri tempi, nella rispettosa gestione di un efficace linguaggio codificato. La sua espressività fisionomica e corporea, pur nell’immedesimazione nel personaggio recitato, mostrava infatti quell’assoluto autocontrollo prescritto da alcuni manuali ottocenteschi, accompagnati da eloquenti illustrazioni, come l’Estetica del canto e dell’arte melodrammatica del baritono Enrico Delle Sedie (1885): «Sulla scena l’attore deve attribuirsi la natura del personaggio che rappresenta. […] È necessario che la sua persona sia sempre convenevolmente disegnata in scena, il gesto, il passo ed il portamento devono variare secondo il soggetto che rappresenta. […] È d’uopo saper scegliere il gesto che previene un’azione e quello che la eseguisce […] senza esagerazione». A ciò s’aggiunga che Bonynge è sempre stato collezionista – oltre che di spartiti, partiture e libretti – di fotografie, raffigurazioni varie e cimeli di cantanti e allestimenti operistici del passato, materiale (non di rado pubblicato a corredo delle sue incisioni discografiche) che è stato senza alcun dubbio ricca fonte d’ispirazione per l’arte scenica della Sutherland: si pensi solo all’incisione ritraente Jenny Lind che, nei panni di Lucia, corre straniata sulla scena, una delle tante immagini che la primadonna australiana ha riesumate e abilmente fatte proprie. Il risultato è una recitazione di schietta teatralità, molto comunicativa, coerente pendant visivo di una riforma belcantistica che, per i ruoli interpretati dalla cantante-attrice, propone anche – con ragionevole elasticità – un aspetto simile all’originario.
Diverse testimonianze video, purtroppo in gran parte risalenti agli ultimi anni di carriera, documentano i principali ruoli affrontati in teatro dalla Sutherland. Altri filmati, inoltre, mostrano l’estrema spigliatezza e la briosa simpatia esibita dalla Stupenda nei ruoli ‘buffi’ (compresi quelli delle commedie musicali e delle operette), nei quali il soprano, perfettamente a proprio agio, conferma visivamente la formidabile carica ironica e autoironica della sua travolgente recitazione comica (si veda, tra i tanti esempi possibili, almeno l’Annetta dei fratelli Ricci).


VOLTI DI UNA PRIMADONNA

Pur essendo signora di un funambolismo sovrumano, la Stupenda evitò accortamente gratuità ed eccessi circensi, piegando sempre il virtuosismo all’espressione: «She is not a stunt singer, and she does not throw in high notes on no provocation. She phrases quite elegantly, and with all her heart she tries to use her voice to bring out the musical meaning» (Harold C. Schonberg, 1961). Questa premessa vale anche per le sue storiche puntate nel barocco, in cui l’esattezza vocale e l’irrefrenabile fantasia interpretativa si sono fuse ridonando ad alcune creature händeliane (in specie Alcina, Rodelinda e Cleopatra) l’originaria forza teatrale, vivificante anche pagine di Arne, Bononcini e, soprattutto, Graun (la sua mirabolante esecuzione di Non han calma le mie pene del Montezuma è probabilmente il massimo tributo di un soprano del Novecento alle ragioni del canto e dell’estetica musicale barocca).
Restando al Settecento, e considerando la chiara congenialità coll’opera mozartiana, gli abboccamenti sutherlandiani col genio di Salisburgo appaiono stranamente limitati agli anni di gavetta, fatto salvo l’amato ruolo di Donna Anna, dalla Stupenda stilizzato nel segno di una dignità altera e malinconica, enigmatica e affascinante. Peraltro, accanto alla Contessa delle Nozze, interpretata nel 1953 e ripresa nel 1956, a Vitellia della Clemenza e Pamina del Flauto, affrontate nello stesso 1956, a Madame Herz dello Schauspieldirektor, portata in scena nel 1957, e all’Elettra dell’Idomeneo, impersonata tardi (1979), non si può non ricordare la sua esemplare Königin della Zauberflöte, eseguita con accomodamenti di tono nel 1962, al Covent Garden, diretta da un Klemperer vecchio e malato: la registrazione di una delle recite testimonia un elettrizzante fulgore vocale e un accento che sa rendere incomparabilmente sia la subdola tristezza della prima aria (d’un tratto incendiata con un’impressionante furia ritmica) sia la terribile e malvagia protervia della seconda, e – soprattutto in O zittre nicht, mein lieber Sohn – conferma l’intervento del soprano sulla stessa direzione («very slow and irregular»), compromessa dal grave stato di salute del maestro: «The orchestra leader, Charles Taylor, said to me: “Don’t watch him, Joan dear! You just go and we’ll be with you!”».
Nonostante le limitate risorse coloristiche, la caratterizzazione sutherlandiana dei grandi ruoli tragici dell’Ottocento italiano (Semiramide, Norma, Beatrice, Elvira, Lucrezia Borgia, Maria Stuarda, Lucia, Gilda, Leonora, Violetta) è molto varia, sempre innovativa, seppur globalmente riconducibile a un piano espressivo che ne esalta i contorni ‘astrali’ e l’interiorizzazione, nonché una segreta fragilità tutta femminile, talvolta anche floreale. Ne è esempio sommo la Semiramide rossiniana, impersonata per la prima volta nel 1962 e consegnata al disco nel 1966. L’interpretazione della Sutherland, proiettata verso un ideale di perfezione assoluta, è quasi inquietante, sia nello sfoggio di una perizia belcantistica che non conosce approssimazioni sia nella trascendenza espressiva, che trova infinite sfumature musicali per assolutizzare le tante pieghe psicologiche di un personaggio regale, melanconico, protervo, diabolicamente sospeso tra l’incesto e l’amore materno, intimamente lacerato. Custode orgogliosa di una prassi esecutiva coscientemente riesumata, la Stupenda s’immedesima totalmente nella regina rossiniana e ne esprime ogni sentimento con un fraseggio miracoloso, iridescente, che esalta l’incantevole patetismo di una coloratura liquida, priva di sforzo, espressivissima, e la tragica grandiosità di accenti e gesti sontuosi, amplissimi, sovrumani.
Quanto alla sua Norma – variamente documentata, ma già affatto compiuta nell’uranica incisione del 1964 –, aliti di estrema malinconia allontanano il rischio di algore neoclassico, ma senza la minima concessione all’effetto espressionistico: la drammaticità è affidata a un gesto vocale essenziale, sempre coerente, in un’aura classica regale e imponente, dove le movenze patetiche sono tanto più intense quanto più sono lente e statuarie. La dimensione tragica ricreata è da toga e coturnio, religiosa come le rappresentazioni della Grecia classica, ma innervata di una poesia di sapore leopardiano, incantevolmente sospesa tra divini movimenti di dramma antico e il baratro dello spirito romantico, pienamente manifesto nella fluttuante e siderea elegia del cantabile della cavatina, letta nella proibitiva tonalità originale di sol maggiore. Alla Sutherland il personaggio non sfugge mai. Fin dal recitativo d’esordio, morbido e purissimo, ella incarna la «celeste austerità» della sacerdotessa con una sublimazione del rango che le permette di acquistare un’imponenza straordinaria, grazie a una lunare serenità sovrumana, divina (e divinatoria), a una imperturbabile quiete di forte intensità, velo che si dissolve solo nell’intimistica speranza della cabaletta, perfetta ma dolorosissima. Nella tacitata foresta carezzata dal raggio della nascente luna, la Norma del soprano australiano sorge maestosamente serena. La sua autorità e credibilità discendono direttamente dalla sua imperturbabilità: conosce il futuro e parla al Cielo, non ha bisogno di alzare retoricamente la voce per convincere chi l’ascolta e non ha bisogno di ‘frustare’ coll’accento per impartire un ordine. Ella è tanto più imponente quanto più s’invera l’amplificazione della sua natura semi-divina. Nei momenti del dolore e della rabbia, la sacerdotessa sutherlandiana, tornata vera donna, si muove agevolmente in una malinconica e meditabonda femminilità, assolutamente coerente col personaggio. Le sue raccolte vibrazioni simpatetiche nei confronti di Adalgisa, la vitale condivisione della gioia, la reazione mai plateale a Pollione e al tradimento, sono intensamente realistiche, commoventi e coinvolgenti. Così, nella scena del tentato infanticidio, se l’accento è misuratissimo, il gesto è sentito, profondamente avvertito, e mostra senza artifici (e isterismi) la trasparente sofferenza di una donna disperata che parla a se stessa (finalmente senza sinistre movenze vampiresche), fino alla sfinita, volutamente senza vigore, ammissione di maternità, incomparabilmente straziante. Per non dire del duetto col tenore e di tutta la scena finale, caldamente illuminata da un’espressività nuova, vivida e traboccante, affatto indimenticabile.
Accanto alla tragica eroina classica, anche la Sutherland, come la Callas, s’abbandonò all’elegia della Sonnambula. Florealmente astratta e quasi immateriale (onirica, quasi riflesso fisico dell’esperienza psichica del sonnambulismo), la sua Amina (perfetta nell’incisione del 1962) è tutta un perlaceo ricamo belcantistico che, intrecciando toni di dolce e ingenua allegria, malinconia e doloroso struggimento, trabocca infine all’estrema conquista della realtà, nella tangibile felicità sprizzante dalla vitalissima cabaletta conclusiva: il sorriso fragrante, abbagliante, luminosissimo che permea tutta la dichiarazione di gioia della protagonista non è mai stato così vero, naturale, vibrante di vita e di innocente candida purezza trionfante.
Restando in terra belliniana, accanto a Beatrice di Tenda, ruolo genialmente riesumato e fatto definitivamente proprio (inciso nel 1966), si colloca l’Elvira dei Puritani, levigatissima, intensa, belcantisticamente suprema e due volte ufficialmente consegnata al disco (nel 1963 e, in esecuzione assolutamente integrale, nel 1973). A mostrare la completa adesione al carattere del personaggio, rivelato sia nella dolce e sognante mestizia (che cresce fino alla più straziante disperazione) sia nell’intermittente contentezza tanto traboccante quanto sinistra (in quanto spia di fragilità psichica), basta anche il solo cantabile del secondo atto, reso con una pregnanza strabiliante, conseguenza di una completa partecipazione alla smemorante sofferenza del personaggio, resa in tutta la sua grandezza attraverso «sottili intuizioni espressive che si fondano sempre sull’assolutezza della musica» (Piero Mioli). Ad esso potrebbe aggiungersi, ad abundantiam, l’esaltato ed esaltante rondò finale (rinvenuto da Bonynge), che celebra con esuberante vitalità la liberatoria, gloriosa letizia ritrovata.
Tra le figure tragiche donizettiane, invece, spicca senz’altro Lucia, il ruolo sutherlandiano per eccellenza, capitolo fondamentale della storia dell’interpretazione del grande capolavoro del melodramma romantico. La Sutherland, dopo la sana virata della Callas (che aveva genialmente sottratto il personaggio al falsante monopolio dei soprani leggeri), restituì all’eroina scozzese tutta l’allure primigenia, facendola propria con totale consapevolezza belcantistica e drammatica, rifuggendo gli eccessi retorici e accogliendo, con intelligente elasticità, molti pregi di una prassi esecutiva problematica e comunque vitale e imprescindibile. Il sottile crescendo psicotico, inarrestabile dalla prima apparizione in scena fino alla scena di follia, diventa tutto un gioco di straniamenti, di velature patetiche, disperate, peccaminose, di asfissianti languori, di tenerezze smaganti, dove nessun sentimento è lasciato scivolare inespresso. Mi piace ricordare, a proposito, il grande duetto con Enrico nella seconda incisione in studio (1971), eseguito con Sherrill Milnes nella proibitiva tonalità originale. Nel tempo d’attacco la Sutherland ricorre a un’emissione ‘malata’, sofferente e affannosa, morbida ma pronta a tendersi graffiante negli acuti, conservata nella sequenza di fulminei attacchi (Taci! taci!) e insane depressioni (Ad altro giurai… ad altro giurai mia fé) del recitativo. Bagliori limpidissimi, trasparenti, fantasmatici, si accendono alla vista del simulato foglio (intensissimo l’accento di Il core mi balzò!) e fluttuano nel trenodico cantabile. Il tempo di mezzo, poi, è un capolavoro di finezza espressiva, dall’Ebbene? intimamente angoscioso al tremante Un brivido / mi corse per le vene! e via così fino alla cabaletta, preceduta da un giustamente imbambolato Pace, pace. Dopo la lacrimosa, eterea preghiera di morte, sempre più debole e smaterializzata, il disperato, lancinante sopracuto finale del soprano, che perfora i sensi dando i brividi, è indimenticabile, mentre Bonynge – che nella ripresa, con grande intuito, ha variata inaspettatamente l’agogica – fa sussultare l’orchestra (dal sound luttuosamente pastoso e vellutato) con una serie di rabbiose bordate, su cui l’Enrico di Milnes s’inerpica fino a un picco di spietata protervia, galvanizzante, spietatamente vittorioso su una Lucia che precipita su un suono ottuso e smarrito, devastato.
Altro prediletto ruolo donizettiano è Maria Stuarda, interpretato per la prima volta nel 1971. Anche qui ogni accento retorico è programmaticamente bandito, e la Sutherland giunge al declamato del finale secondo colle sole armi del canto puro, uscendone assolutamente vincente. Il brano, peraltro, non richiede affatto una recitazione espressionistica: il calcolatissimo effetto di scabro ed efficace crescendo emotivo e sonoro prorompe, al colmo della tensione, all’ultimo dei sei versi, e per riuscire espressivi (ma non grotteschi) bisogna dosare l’accento restando ben saldi nei termini del belcanto. Altera, sprezzante ma con tono nobilmente regale, la Stupenda imposta l’espressione sull’accento dinamico e sulla resa di alcune consonanti: l’effetto è magnifico (addirittura spaventoso) e l’aplomb stilistico magistrale. Si ascolti, nell’incisione del 1974-75, Quale insulto! Oh, ria beffarda, grandioso e malvagio (le ultime due parole sono pronunciate quasi a denti stretti), e poi Figlia impura di Bolena, colla p mordacemente schioccata e Bolena nominata con secco e troncante disprezzo, quindi la rabbia ferina di parli tu di disonore?, il duro sussiego di Meretrice indegna oscena, il feroce in te cada il mio rossor colla c e la r perfidamente sbalzate, fino all’imponente arcata finale, col liberatorio bastarda eruttato violentemente, letteralmente ‘sputato in faccia’ a Elisabetta, e la limpidissima puntatura finale, lucidamente contenuta, il tutto con un timbro incandescente, bellissimo, magnificamente vittorioso. Nell’atto terzo, poi, il personaggio emerge nella sua combattuta interiorità grazie a sfumature espressive eleganti quanto intense (colla strana eccezione della frase Al dolce suo sorridere / odiava il mio consorte, che vibra di un trillo formidabile ma resta alquanto opaca di senso), la preghiera corale è di una bellezza sconvolgente e l’ultima aria, commossa e commovente, ha nella dolorosa cabaletta un sapore di celestiale serenità, in cui i virtuosismi si tingono di tesa speranza ultraterrena.
Quando affronta Lucrezia Borgia (personaggio che la folgora nel 1968, nell’interpretazione «exemplary» della Caballé, e che affronta nel 1972 per poi inciderlo nel 1977), la Sutherland sviscera il dualismo del ruolo in modo assolutamente convincente: madre dolorosa, sfinita, ansiosa, matura ‘chioccia’ per l'indocile Gennaro, mostra gli artigli cogli altri, col marito, con Gubetta e, soprattutto, al festino della Negroni, sprizzando superbia assassina e devastante crudeltà, ma restando sempre e comunque una dama nobile e raffinata, finanche charmant (con un sano pizzico di autoironia). Per apprezzarne l’immedesimazione nel ruolo, si ascolti (e si veda, grazie alla registrazione di una strepitosa recita londinese con Alfredo Kraus) anche solo in che modo questa Borgia sappia ripiegarsi tramortita all’accorgersi d’aver avvelenato nuovamente il figlio, per poi – tempo un attimo – riergersi fiera e allontanare tutti per restar sola, devastata, col giovane.
Il primo incontro con Verdi, invece, è legato al Rigoletto. Incantata dall’interpretazione della Galli Curci, soprattutto per lo stile e l’espressione del suo Caro nome, la Sutherland faticò non poco per liberarsi delle influenze dell’antico soprano e far davvero proprio il personaggio di Gilda, nei cui panni si calò per la prima volta nel 1957. Ma il ruolo fu presto intimamente colto e posseduto, fiorito di mille prodigi vocali e profumato di un’inquieta dolcezza unita a meditabonda malinconia, segretamente fremente di sensualità proprio in quel Caro nome che si fece liquidissimo, infinito, naturalissimo, un sublimante ricamo di fresca passione e fragilissima innocenza (in disco sia nel 1961, col fascino di una voce incredibilmente fluorescente, sia dieci anni dopo, con un timbro non più giovanile ma superiore fantasia belcantistica e più spiccata drammaticità, fino alla riproposta del beneficio supremo di una folgorante puntatura all’accensione della tempesta del terzo atto, emozionantissima).
Accanto a Gilda c’è Violetta, per la quale si può parlare pacificamente di rivoluzione interpretativa. Frutto di una visione intimista, profondamente meditata, la lettura sutherlandiana – fermata in disco nel 1962 – si pone in aperta rottura col passato, annullando quasi del tutto la poetica verdiana del conflitto sociale e virando decisamente su un caleidoscopio sentimentale di stampo decadentista, tesoro di infinite sfumature psicologiche in sofferta interiorizzazione.
Ben più tardo l’abboccamento colla Leonora del Trovatore, nonostante l’incoraggiamento in tal senso di un critico londinese rimontasse addirittura nel 1952. Ma la Stupenda, impensierita dal peso della parte (e soprattutto dalla lunga scena del Miserere), attese fino al 1975, e attese troppo, perché la voce, sebbene del tutto integra, non aveva più la freschezza necessaria a rendere le sfaccettature più ardenti dell’indole della giovane dama spagnola. Ciononostante, il personaggio ci fu – giunonico ma convincente – e fu a suo modo memorabile, e non soltanto nella nobilissima incisione in studio del 1976 ma finanche nel lussuoso video di Sydney (1983), sempre con un registro acuto invitto, splendente, e con un fraseggio impagabile, di umore lunare, sognante, interiore, squisitamente romantico, che certo non basta a risaltare i passi più impetuosi, come il cantabile del duetto col conte, ma anima la lunga scena finale con generosa bellezza di canto e di espressione (soprattutto in disco, grazie anche al solito perfetto sposalizio vocale con Pavarotti).
Diverso il discorso relativo ad Amalia dei Masnadieri (interpretata nel 1980, incisa nel 1982) e, in misura maggiore, ad Anna Bolena (1984, incisa nel 1987) e ad Elvira dell’Ernani (anch’essa incisa nel 1987), tre ruoli che, seppur intensamente partecipati nonché sostenuti dal miracolo di un supremo bagaglio tecnico in grado di contenere egregiamente l’usura dello strumento vocale e di superare i sopraggiunti difetti, sono stati affrontanti troppo tardi, durante il declino, quando il vibrato si è fatto progressivamente più sonoro e la voce è andata via via appannandosi sia nei gravi sia nei medi. Lo stesso limite – più o meno condiviso dalle nuove incisioni della Traviata (1979), della Sonnambula (1980) e di Norma (1984), oltre che dalle edizioni dell’Athalia e della Rodelinda händeliane (entrambe del 1985) – riguarda inevitabilmente anche Adriana Lecouvreur (interpretata nel 1983 e incisa nel dicembre 1988), personaggio affrontato con assoluta convinzione, ma nondimeno pesantemente matronale, tanto aggiogante sulla scena (grazie alle spiccate qualità attorali e al carisma della leggendaria primadonna) quanto scarsamente efficace in disco: dopo il curioso Oracolo di Leoni (inciso nel 1975) e l’improbabile Suor Angelica (1977, incisa l’anno seguente), la Sutherland ha ceduto anche alle lusinghe melodiche di Cilea, a un’estrema tentazione ‘verista’ che, peraltro, aveva una radice ben più che convincente nell’inatteso prodigio del 1972, quando il soprano aveva incarnato la Turandot pucciniana, consegnando al disco una vocalità celestiale e un miracoloso ricamo di nuances psicologiche, edificando un monumento definitivo di vertiginosa grandeur sonora e interpretativa (e non senza una fuggevole tentazione di ripetere il portento in teatro: «I must say it was a thrilling experience and for a while I contemplated singing the role in the theatre. However, after due consideration, I decided to leave the public with the impression I gave on the recording of the icy princess»).
Accanto a quelli tragici, nella carriera della Sutherland rivestono pari importanza i ruoli comici italiani, benché limitati a due soli personaggi, entrambi donizettiani. La sua Marie della Fille du régiment, di assoluto riferimento, è vocalmente perfetta, more solito, ma anche scatenata e mascolina, fascinosamente vigorosa, briosa e piccante al punto giusto, ritratta in un cammino di formazione che si conclude collo sboccio di una piena e consapevole femminilità. Esclusivamente discografica è, invece, la sua Adina dell’Elisir d’amore, invero più giovane signora di città che immatura signorina di campagna, e comunque miracolosa in una inesausta fioritura di irresistibili abbellimenti e in un poliedrico sfoggio di carattere: ora acuta, ora capricciosa, ora malinconica, ora mordace, perfetta nel canzonare ma anche sinceramente commovente, è talmente vera e romantica (e vocalmente suprema) da sostituire alla rigorosa cabaletta originaria, colpevole di un rossinismo piuttosto meccanico, quella alternativa della Malibran (cara anche ad Adelina Patti), lo scatenato valzer Nel dolce incanto che diventa delirio sublimante, inestimabile trionfo di una primadonna assoluta che, insieme a una bravura prodigiosa, possiede la rarissima virtù di saper vivere e saper esprimere la più autentica joie de chanter.
Fondamentale è, nondimeno, il contributo della Sutherland all’opera francese dell’Ottocento, che investe Meyerbeer, con recite giustamente leggendarie degli Huguenots (primamente Ugonotti, alla Scala nel 1962), Gounod (Faust), Offenbach (coi quattro ruoli sopranili dei Contes), Bizet (Micaela della Carmen), Delibes (Lakmé), il Massenet dell’impossibile Esclarmonde e del fascinoso Roi de Lahore, nonché, in evitabile ritardo, Thomas (Hamlet, affrontato solo nel 1985, nonostante un’annosa strabiliante confidenza col delirio di Ophélie), e si spinge da subito fino al Novecento, con Madame Lidoine dei Dialogues des carmélites di Poulenc, personaggio interpretato nel 1958, in occasione della prima rappresentazione inglese dell’opera (quando lo stesso Poulenc modificò appena la parte di Lidoine espressamente per la Sutherland), e ripreso nel 1984, per la prima rappresentazione alla Sydney Opera House. Peraltro, a provare il profondo amore del soprano per l’Ottocento francese basterebbe ascoltare anche solo Romantic French Arias, recital del 1969, un magistrale mosaico di pagine note e meno note definitivamente interpretate: «The collection of French arias – scrive la Stupenda – is one of my favourite recordings as there are so many varied items, some of which had either never been recorded or not for many years. It was an exciting repertoire to work on and some of that excitement seems to remain on the disc». Dall’estatica dolcezza di Depuis le jour della Louise di Charpentier alla pirotecnica vitalità di O légère hirondelle della Mireille di Gounod, passando per la grande aria del Fra Diavolo di Auber (versione italiana), letta e variata con onnipotenza vocale ed espressiva, questo recital è forse la massima testimonianza della superiore affinità artistica della Sutherland con questo complesso repertorio e della sua passionale adesione alla sostanza stessa dell’opera romantica francese.
E si ritorna a Wagner, ossia al sogno rimasto nel proverbiale cassetto, o quasi. Propiziata dall’ammirazione per la Flagstad, dal teutonico debutto in patria e dalla propedeutica frequentazione del teatro di Weber, l’aspirazione sutherlandiana al canto wagneriano si è tuttavia limitata all’Eva dei Meistersinger e a ruoli minori, tra cui – in disco – l’irripetibile uccellino del Ring soltiano. Ma lo sfizio di un recupero protagonistico in extremis la Dame se lo tolse nel 1978, con Sutherland sings Wagner, un recital discografico molto intenso, straordinariamente cantato (anche se la voce tradì qui e là una certa stanchezza). Bonynge diresse la National Philharmonic Orchestra con leggerezza intrigante, privilegiando impasti puliti e quasi trasparenti, molto probabilmente assai vicini a quelli che si sentivano nei teatri europei nel secondo Ottocento, e la Stupenda realizzò un vera e propria dichiarazione d’amore per l’opera di Wagner, applicando a pagine esemplari di Rienzi, Holländer, Tannhäuser, Lohengrin, Walküre, Meistersinger e Tristan, sempre pervase di profonda emozione, una vocalità tutta italiana, controllatissima, straordinariamente musicale. E poco importa se la dizione, nonostante la chiara intenzione di far risuonare maggiormente le consonanti, restò, more solito, molto sfumata: il risultato è talmente affascinante da far rimpiangere più d’una delle mai affrontate letture integrali.
Ciò nondimeno, prima ancora che per i ruoli wagneriani, bisognerebbe rammaricarsi per altri appuntamenti mancati, quelli con tanto Händel, con diverso Mozart (Die Entführung soprattutto), col Bellini del Pirata, della Straniera e dei Capuleti, col Donizetti almeno di Pia de’ Tolomei, Linda e Don Pasquale, ovvero con tanto Rossini e Pacini e Mercadante, nonché con alcuni titoli di Verdi (per esempio Attila o I vespri) e con diverso teatro francese. Ma, alla volta di un’artista che in oltre quarant’anni di carriera non si è certo risparmiata, sarebbe un reclamo oggettivamente ingiusto, oltreché inutile.

Emanuele d'Angelo

Categoria: Cantanti

 

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