Rientro ora da Salisburgo dove ho assistito al concerto diretto da Rattle con i Berliner e a questi Meistersinger. E provo a dire la mia.
Si è trattato di uno spettacolo eccellente sotto il profilo tecnico (con dei cambi di scena silenziosissimi e davvero impressionanti) e musicale.
Non direi che questa è una regia ruffiana che annacqua la vicenda in una cornice onirica buona per tutti gli usi. Non mi sembra affatto così. La componente del sogno/realtà è elemento intrinseco dell’opera. Il Wagner dei Meistersinger aveva per sogno la creazione dell’opera d’arte tedesca (non a caso nella regia di Herheim la tenzone di Walther e il suo Preislied si confondono di continuo con la figura di Wagner e con l’opera stessa dei Maestri Cantori). Nel corso di tutta l’opera vi è un continuo confronto/scontro tra realtà e sogno (la notte di San Giovanni in cui, secondo la tradizione, dominavano gli spiriti maligni –nella regia di Herheim i persoanggi delle fiabe dei Grimm-, poi sconfitti dalla luce del giorno; tutto il primo quadro del III atto con Sachs messo duramente a confronto con la realtà così lontana dal sogno, ma anche la gestazione del Morgenlied da parte di Walther e Sachs, che si confondono e fondono nell’atto creativo). Ora, mi sembra che tutto questo sia stato reso da Herheim come meglio non si potrebbe. Sachs e Beckmesser come facce della stessa medaglia? Non direi. Invece mi sembra piuttosto che nella regia di Herheim siano Sachs e Walther ad essere facce della stessa medaglia (ed entrambi una proiezione dello stesso Wagner: guardate come i due cantano insieme, compartecipi dell’atto creativo, il secondo bar del Morgenlied).
In questa regia Beckmesser non è altro che uno strumento nelle mani del creatore Hans, il supremo creatore, il regista della vicenda (ambientata nella casa di Sachs, o forse nella sua stessa mente): Sachs ne controlla i movimenti, ne conosce e guida pensieri e parole. A proposito della prima regia dei Meistersinger di Wieland Wagner (1956), Nike Wagner scrive: “Sachs era uno psicanalista che intento a dirigere questo gioco di sottointesi psicologici, incanalando le tensioni erotiche di Eva e Walther nel matrimonio, e le forze distruttive dei cittadini in eccessi innocenti”. Mi sembra che questo sia esattamente quello che Herheim realizza in scena alla fine del II atto, e nel corso dell’intera opera.
E’ una regressione rispetto ai Meistersinger di Katharina? Non so. A me sembra che le due regie percorrano strade molto diverse: quella del Kozept (nella più classica accezione del Regietheater tedesco) in Katharina, quella del “realismo psicologico” erede di Felsenstein in McVicar, quella del “realismo magico” in Herheim. Tre spettacoli splendidi, coesi, di grande forza nei contenuti e nella forma.
I Meisteringer sono un’opera che a Bayreuth più di qualunque altra è “proprietà Wagner” se si considera che, con l’eccezione della prima edizione del 1951 con la regia di Hartmann, tutte le successive sono state di membri della famiglia Wagner: Wieland, Wolfgang, Katharina. E qui Katharina ci è andata giù duro, ha afferrato il coro per le corna, e con estrema lucidità e coerenza ha messo a nudo gli aspetti anche più politicamente scottanti di quest’opera. Ne è uscita una lettura che, pur sconvolgendo in molti aspetti la drammatugia originaria, si è dimostrata lucida, lineare (quasi scolastica a paragone di altre regie “concettuali”), provocatoria, intelligentissima. Pensata come una bomba, ha avuto l’effetto di una bomba. Hai ricordato gli aspetti salienti di quella regia. Mi permetto di aggiungere il rilievo dato alla figura di Beckmesser (nel capolavoro di Volle!!) che nel finale diventa un artista outsider, contro ogni schema, contro ogni regola: la sua esibizione è la traduzione visiva di quell’autentico poema dadaista (il primo del suo genere; Wagner inventore del Dada?! Ebbene sì!

) che è il Preislied storpiato. Non so se qualcun altro abbia visto questa regia, né so che valutazione ne abbia dato l’amico Marazzi (so che Mattioli non ne fu entusiasta). Vabbè, caro Pietro, vorrà dire che al mondo solo tu ed io l’abbiamo apprezzata: ce ne faremo una ragione (magari andandocene a Bayreuth per il Tristan che la pronipote Wagner allestirà nel 2015!

).
Ma, tornando ai Meistersinger visti a Salisburgo, anche Herheim ha dimostrato di aver riflettuto (e quanto, e con che risultati!) su quest’opera, sui suoi presupposti, sul suo contesto. Un solo esempio (se ne potrebbero fare mille). Il momento in cui nel II atto Eva sta per fuggire con Walther, e i due scoprono che la via di fuga è sbarrata da Sachs. Nella regia di Herheim, si apre l’anta dell’armadio-laboratorio del ciabattino, e l’oscurità della scena è annullata dalla luce violenta che proviene dalla gigaantesca lampada ad olio di Sachs: un chiarissimo, bellissimo riferimento al secondo atto del Tristan und Isolde nella sua dialettica buio/luce, notte/giorno. Non l’avevo mai notato: il Tristan und Isolde è anche qui, non solo nel celeberrimo Tristan-Akkord citato nel III atto. E quante se ne potrebbero dire, su quel telo bianco che copre e lascia scoperto (cos’è realtà? Cosa desiderio? Cosa sogno? Cosa follia?), proprio come il velo di Maya dello Schopenhauer letto e ammirato da Wagner.
Tutto questo per dire che, dietro la cornice apparentemente buona per tutti gli usi e ruffiana, in questi Meistersinger si nasconde un tesoro.
Musicalmente lo spettacolo è stato letteralmente dominato da Volle, già incomparabile Beckmesser (con Lehnhoff al fianco di Van Dam e con Katharina Wagner), ora gigantesco Sachs. Una mimica e una gestualità incredibili, una dizione perfetta, un’infinità di colori e di inflessioni, con una nota di angoscia, di rabbiosa, violenta disperazione che mai prima d’ora avevo sentito. Un artista immenso. Immenso. Eccellente, anche se molto più ordinario, Werba che nella regia di Herheim riprende alcuni aspetti più caricaturali o comici (ma sarebbe più corretto definirli surreali) di Beckmesser. Anonima la Gabler. Pessimo Saccà (duro, affaticato, incolore, nel quintetto ha pure rischiato la stecca). Una delizia per le orecchie la voce fresca di Zeppenfeld (per una volta si ascolta un Pogner che non è uno strazio!!) e comprimari ottimi. Orchestra e coro sublimi diretti da un Gatti che ha concertato l’opera dandone una lettura tersa, lineare, attenta ai rilievi timbrici, sebbene non sempre curata nel rapporto voci-orchestra (il finale del I atto e, ancor più, del II atto erano prossimi alla poltiglia sonora in cui ogni voce perdeva identità: in tutta onestà non penso fosse l'effetto voluto da Wagner). Gatti non è (ancora) il direttore che mi porterei sull’isola deserta. Però potrebbe diventarlo.
Un caro saluto,
DM
P.S.: anche il Divino ha visto questi Maestri Cantori

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