Con colpevole ritardo, rispondo all'amico Rodrigo e alle sue considerazioni sui dischi "operistici" di Schipa.
Trovo tutte brillanti e condivisibili le tue considerazioni.
Siamo di fronte a uno smisurato talento espressivo (tanto da sconvolgere alcuni dettami della tecnica per assecondarlo) unito a un grande intuito teatrale e psicologico.
Non sempre vi ritrovo una vocazione all'originalità dell'approccio, tanto che sono arrivato a credere che Schipa fosse più "espressivo" che "profondo".
Rodrigo ha scritto:L'approccio di Schipa con Don Ottavio e Almaviva mi pare, in un certo senso, vicino all'ottica con cui affrontava le arie antiche. Il canto è quindi corretto, fascinoso fin che si vuole, ma difetta la lettura del personaggio. Don Ottavio stenta ad uscire da uno stereotipo azzimato, Almaviva viene completamente travisato. Non si tratta di malcanto, beninteso, ma di un errato incasellamento del personaggio (peraltro usuale all'epoca e, per diverso tempo, anche dopo): il grande di Spagna cui Rossini (la partitura genuina non lascia dubbi in proposito) affida il ruolo di protagonista, si stempera in un amoroso "borghese" molto prossimo alla drammaturgia di Nemorino.
Parole santissime (e splendidamente scritte)
Per riallacciarmi a un discorso che facevamo altrove, questi sono i personaggi che Schipa non sente (in fondo è normale: Mozart e Rossini erano all'epoca raffinate anticaglie, sganciate dalla sensibilità dei tempi) e che traduce con ampio uso del piedistallo.
Li pone lassù, affetta pose ed espressioni "consoni" alla serietà classica della musica, e il personaggio non viene fuori.
visto che citi Nemorino, voglio anche insistere e affondare ancora di più il dito nella piaga.
Elisir e Don Pasquale sono altre incisioni di Schipa che non sento il bisogno di ascoltare. Gli effetti stupendi di colorismo, come l'immacolata linea di fraseggio, non mi emozionano, anzi mi suonano ugualmente falsi e "posati", come se lo stesso Schipa non nutrisse particolare speranze sulla psicologia di questi ruoli.
La verità che si cela dietro i preziosismi non emerge (e forse nè lui, nè il pubblico di allora ne sentivano troppo la mancanza).
Analogamente mi pare non congruente il suo approccio con Edgardo.
E anche qui le nostre tendono un poco a divergere!
Ho il sospetto che il mezzo vocale di Schipa, e più ancora le sue scelte coloristiche e musicali, rendesse al meglio quando si trattava di affrontare il registro dell'elegia e del languore piuttosto che lo stile alto o tragico di tanto melodramma romantico (campo in cui all'epoca gli esegeti più attendibili erano Pertile e - più ancora - Lauri Volpi).
In termini vocali hai ragione. Se ci poniamo a fronte al "quid" Duprez (fortissimamente avvertibile in Edgardo) non c'è dubbio che Schipa ne sia molto distante.
E tuttavia (tanto per smentirmi
) in questo caso per me la diversità (vocale, tecnica, stilistica) di Schipa non impedisce la percezione di un grande personaggio, almeno dai pochi brani che ci sono rimasti.
Lo struggimento grandioso di "Verranno a te sull'aure" a me dà la misura di un personaggio di pienezza sconvolgente, emozione che non traggo assolutamente da Pertile (che pure era - come tu dici - tecnicamente e stilisticamente predisposto al ruolo).
E' vero che l'unica corda che Schipa può far vibrare è quella dell'elegia, ma se - pur con quella sola corda - il personaggio si esalta, allora tanto meglio.
Lauri Volpi al contrario non mi pare minimamente persuasivo sulle ragioni del suo personaggio, e questo nonostante il fatto che - come giustamente affermi - non c'era all'epoca interprete Duprez più centrato (come sonorità e personalità) di lui.
Come dire.... il "quid" è una bellissima arma, ma poi bisogna anche combattere!
Altrimenti le armi a che servono?
Stesso discorso per Elvino, ruolo Rubini.
Ci si può chiedere fino a che punto Schipa (che non oltrepassava il SI) è veramente Elvino, tenendo conto che Rubini cantava su ben altra tessitura ed è stato il creatore di Arturo, ruolo "araldico" per eccellenza che Schipa non avrebbe mai potuto affrontare per inappellabili limiti di estensione e - credo- anche di cavata.
Esatto. L'Elvino di Schipa si rende vivo nonostante una vocalità poco spettacolare in acuto. E tuttavia secondo me (acuti a parte) qualcosa del "quid rubiniano" l'aveva colta. Che l'altezza è prima metafisica che vocale... L'altezza rubiniana è in quel che tu chiami "tono", ossia capacità di sublimarsi, spingere la linea oltre gli orizzonti delle umane cose. In questo senso Schipa era rubiniano, per lo meno in Sonnambula.
Di Verdi sono indovinatissimi, secondo me, Alfredo e il Duca.
E qui siamo totalmente, ma proprio totalmente d'accordo.
Nel Duca e in Alfredo Schipa scende dal suo "distintissimo" piedistallo e lavora sui colori e sui ritmi per costruire personaggi che palpitano e comunicano con una modernità che lascia senza fiato.
Il suo "Parigi o cara" e la sua "Donna è mobile" restano a mio parere in cima alla discografia, e comunicano ancora oggi una verità, una autenticità che nessun altro tenore ha più raggiunto.
Evidentemente Schipa "sentiva" l'anti-eroismo di queste parti nel profondo della sua anima e sapeva tradurlo con distacco, ironia, fragilità, impotenza.
Sarà per questo che anche di Werther (violando per l'ennesima volta il "quid" di cui si parlava) ha offerto un ritratto anti-eroico di potenza grandiosa.
Sapienza, raffinatezza e sorriso amaro della sconfitta.
Questo lo strano mèlange di uno dei più suggestivi e complessi artisti che l'Italia abbia prodotto. Britten avrebbe potuto scrivere per lui, con qualche decennio di anticipo, la sua Morte a Venezia.
In questa luce, l'idea di uno Schipa nel Ballo in Maschera è sensazionale.
Finalmente avremmo spazzato via quei maledetti Riccardi "simpatici" e "rubacuori", saltellanti e scemi, che vanno tanto per la maggiore.
Finalmente un Riccardo che assiste, con eleganza e malinconia, allo scolorarsi del cielo, durante il proprio tramonto.
Un salutone e complimenti,
Matteo