Un saluto a tutti voi.
Mi sono iscritto da poco in questo splendido forum e quindi ho una qualche difficoltà a districarmi nel mare magnum di messaggi; mi perdonerete se scriverò di argomenti forse abbandonati da tempo.
Prendendo spunto da quanto ho velocemente letto a proposito di tenori e di Pavarotti, volevo fare qualche mia considerazione. Non conosco tutti i nomi di tenori che avete citato e qualcuno di essi l'ho sentito troppo raramente per dare un giudizio sensato.
Dico subito che José Bros e Juan Diego Flórez mi piacciono assai: il primo l'ho ascoltato in opere dal vivo su DVD e mi pare abbia un bel timbro e sia un buon interprete, sia pure con qualche limite nella dizione e nel passaggio di registro. Il secondo è certamente un fenomeno di tecnica, con una facilità "irritante" nel salire e poi è simpatico: forse ha una voce troppo chiara per certi ruoli lirici che pure ha cantato, ma insomma nel panorama odierno si può dire che è un gran cantante. Non mi piace affatto, invece, Villazon: è forsennato sempre, qualunque cosa canti, con gusto spesso dubbio in certe accentazioni e con un effetto "gola" troppo spesso mal camuffato. Su José Cura mi trovo in difficoltà: gran bel timbro, grande potenza, ma mi pare con qualche imbarazzo di troppo in alto (l'ho ascoltato nei Pagliacci e ha fatto una cosa stranissima: nel salire verso la "e" di "o meretrice abbiEtta", un istante prima della "e" ha tirato fuori una sorta di vocale di appoggio, tra la "a" e la "e": non avevo mai sentito una cosa del genere).
Vorrei citare qualche altro tenore che ho avuto modo di ascoltare a teatro: il primo è Antonino Siragusa, allievo di Matteuzzi (che a me piace moltissimo), che ha un timbro da tenore leggero e gradevolissimo e che, a mio avviso, è un ottimo interprete. L'ho ascoltato in un notevole Don Pasquale all'Opera di Roma e mi ha molto emozionato il suo "Sogno soave e casto". Poi Juan Francisco Gatell, ascoltato nella parte di Don Ottavio: timbro simile a Siragusa (ovviamente), ma forse più brillante, ha incantato ne "Il mio tesoro intanto", con dei "legato" strepitosi. Fraccaro, invece, l'ho ascoltato in una Tosca, sempre a Roma: mi è parso sinceramente in difficoltà nel ruolo piuttosto complesso di Cavaradossi, anche se il timbro non è niente male. In ogni caso, non ha lasciato un segno indelebile. Vittorio Grigolo, ascoltato in un Elisir, appartiene a quella schiera di tenori che probabilmente devono trovare la loro strada: piuttosto piatto nel canto, soprattutto nel Donizetti dell'Elisir, dove occorre dare senso alle parole che si cantano, altrimenti rimane poco. Infine vorrei citare Salvatore Licitra, che ho ascoltato nel 2001 a Roma nel Ballo in maschera: davvero bravo. Ma che fine ha fatto?
Infine Pavarotti: devo subito dire che ne ho un'ammirazione sconfinata e che lo ritengo il più grande degli ultimi tempi, almeno fino a che è rimasto un tenore. Sinceramente ammetto che non sapevo che avesse difficoltà a leggere le note o addirittura a capire la loro durata: ma come non rimanere estasiati al suono della sua voce? Come non passare sopra a certe sue interpretazioni (Otello, Don carlo) o a certi suoi vezzi o a questi presunti limiti tecnico-musicali, quando poi lo senti cantare, che so, "Ma se m'è forza perderti", o "Prendi, l'anel ti dono", o "De' miei bollenti spiriti" e cabaletta seguente? Credo che di lui si possa dire tutto e, in particolare, criticare la sua fase "mediatica"; credo anche che un certo qual gusto paranoico e malevolo nel trovare difetti e limiti sia, ahimé, più sentito per i grandi: ma al di là di legittime critiche (quando però non offuscate dalla sensazione di compiacimento nell'esprimerle), di lui mi resta, nella mente e nell'anima, la sua voce argentina e inconfondibile, il suo calore, la sua capacità di non far perdere spessore alla voce nei passaggi di registro, la sua dizione perfetta, il saper accentare sempre con giustezza ogni parola (come ha giustamente osservato Elvio Giudici, nel Rigoletto sa dare ad ognuno dei tre verbi consecutivi "inebria, conquide, distrugge" un accento diverso, evitando di banalizzare l'enfatizzazione linguistica data proprio dal susseguirsi di tre verbi).
Per me, al di là di tutto, un grandissimo.