Simon Boccanegra Bignamini Parma

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Simon Boccanegra Bignamini Parma

Messaggioda vivelaboheme » mer 09 ott 2013, 19:18

Per ragioni d’anagrafe e di ambiente, sono fra coloro – credo parecchi – che vissero il Simon Boccanegra firmato Claudio Abbado-Giorgio Strehler come l’allestimento della vita, o quanto meno una favolosa congiunzione di talenti. Il titolo e la messa in scena sono entrati nel cuore di coloro che ebbero la fortuna di vivere quell’allestimento. All’epoca, studente, davo una mano ad un banchino di vendita-libri nel ridotto palchi della Scala e vidi praticamente tutte le repliche di quel leggendario Simone.
Lo dico perché, data la premessa, è umano che ogni ritorno in scena dell’opera sia accolto da un lato con la gioia del riascolto di un titolo amato, dall’altro con un inevitabile – umano, appunto, anche se sbagliato – senso di “confronto” e ricordo (rinnovato, peraltro, dalla più recente direzione di Abbado del Simone, a Firenze, con allestimento e cast molto meno felici, ma con quel finale “a spegnimento” forse addirittura più intenso rispetto alla famosa edizione scaligera).
La premessa mi serve solo per dire quanto grande sia stato l’autentico godimento d’ascolto della direzione di Jader Bignamini nel Simon Boccanegra allestito a Parma per il Festival Verdi. Una lettura molto lontana, nell’impostazione, da quella di Abbado, ma di profonda suggestione, nel suono in se stesso, nella cura delle voci e in quella delle dinamiche, cioé dei pesi sonori.
Bignamini aveva dichiarato d’aver cercato, nello studio del Simone, il “suono del mare”. E lo ha trovato, in quel suono-luce che è tutto suo (ormai lo conosciamo) e nel fraseggio. Quando, nel tema d’apertura, Bignamini con un impercettibile rubato, fa ondeggiare il tema degli archi, è già il suono del mare, come un movimento d’onde azzurro-argentee che s’increspano. Formidabile inizio, e primo indizio chiaro dell’eccellente lavoro svolto dal giovane direttore con la Filarmonica Toscanini. Il Simone di Bignamini (ma prima, di Verdi) si svolge come da quest’inizio, tutto avvolto nel “profumo” (ovviamente, “sonoro”) della salsedine e nel movimento del mare. Dentro la Città del mare – Genova – si muovono i personaggi, si svelano gli odii, gli affetti, gli amori, si dipana la matassa intricata del passato, del presente, delle parentele, dei riconoscimenti, della guerra e della pace. E tutto è avvolto nel mare, cioé nel suono e nella “tinta” che Bignamini ha meravigliosamente trovato, andando così, diritto, al “nocciolo” tematico di Simon Boccanegra. Logico che, su questa base, il Simone di Bignamini sia fondamentalmente scorrevole e mosso nella scelta dei tempi, e più struggente che fosco nell’espressione. C’è molta luce, in questo mare, nonostante il dramma degli odii e il tragico destino del protagonista.
Su questa base, si esprime in buca e sulla scena l’aspetto tecnico che fa del Bignamini uno sbalorditivo, giovane (di carriera iniziata con calma, dopo attività di strumentista, prima ancora che nei suoi 37 anni) direttore: la proporzione dei pesi sonori e delle frasi e – assieme – il pieno agio da parte di chi, sulla scena, dà vita all’opera: cioé i cantanti e il coro. In Simone l’esatto peso dei cori fuori scena ha importanza fondamentale: e qui hanno un equilibrio miracoloso e una ricchezza di “lontananze-vicinanze” e di sfumature che dicono d’un magnifico lavoro di concertazione, peraltro già evidente in orchestra, nella trasparenza e in una miriade di particolari evocati (per dirne uno, il disegnino del fagotto nella chiusa del duetto “del riconoscimento” Simone-Amelia, atto1). Non si pensi, per tutto questo, ad un Simone esangue: no, là dove c’è da dar fuoco alle polveri, Bignamini le accende (scena del Gran Consiglio e finale atto 2) ma sempre con un’eleganza di fondo e con quel profumo di mare che rende tutto trasparente, fino alla morte di Simone (per dar l’idea, molto diversa, meno lancinante e più “scorrevole”, nei tempi e nelle frasi, rispetto al lunghissimo, spegnimento nel nulla che caratterizzava la lattura di Abbado). Che qui si spegne, avvolto dall’affetto dei suoi, dall’ultimo urlo lontano del popolo (“No, Boccanegra”, sulla richiesta di fiesco di onore ad Adorno), e dal mare, con i rintocchi di campana (cadenzati da Bignamini dolcissimi ma ben udibili). Un Simone che si spegne quasi scorrendo e fondendosi, nel flusso del mare che “impregna” più che baganre, la città. Bellissimo.
Nella proporzione dei pesi, dei respiri e delle frasi così come Bignamini le dipana, i cantanti sembrano non faticare, tutto avviene con naturalezza (segno chiaro della bontà del “manico”). Anche se, va detto, la compagnia ha qualche disparità stilistica, da individuo a individuo, da voce a voce, da personalità a personalità. Giganteggia – è davvero il termine! – il Fiesco di Giacomo Prestia, nel quale potenza dello strumento e nobiltà della figura e del canto si uniscono, dando vita ad un Fiesco-Fiesco, di totale aderenza fisica e vocale (la scansione e il respiro di Bignamini “con” Prestia nel “Lacerato Spirito", è uno dei momenti migliori). Grande cantante, fra i massimi viventi, nel registro, forse non ancora valorizzato secondo merito dai maggiori teatri. Roberto Frontali è un Simone a corrente un poco alterna: stranamente inerte (ma qui, il regista non si vede) nel duetto dell’atto 1 con Amelia (peraltro concluso con un perfetto “Figlia” scoccato con esattezza da direttore e baritono), ma splendido nella scena-madre del Gran Consiglio: il “vo gridando pace” è cantato con una bellissima, disperata dolcezza, senza forzare l’espressione e la dinamica. Poi sempre corretto, anche là dove permanga l’impressione d’una voce “approdata” nel tempo a Verdi più che originalmente verdiana. Carmela Remigio-Amelia sopperisce ad una certa leggerezza dello strumento con l’espressione e la nota abilità d’attrice (alla replica cui ho assistito, curiose due ravvicinate, probabili amnesie, a parole cambiate, nei due racconti dell’ atto 1: “grave d’anni quella pia era solo a me sostegno” e “mi cingon tre sgherri”: l’azione non ne ha avuto alcun danno, il lessico sì, ma sono esseri umani…). Non direi che Amelia-Maria sia il suo ruolo d’elezione (meglio l’ardente, insolita Desdemona di Venezia) ma la Remigio brilla sempre di sensibilità ed intelligenza del personaggio, del dramma, della musica. Diego Torre-Adorno ha una presenza fisica non semplicissima da gestire ma centra il personaggio, canta con espressione e tornitura delle frasi ricche di personalità. Notevole la coppia Paolo e Pietro, Marco Caria e Seung Pil Choi. Duttilissima l’orchestra, valido il coro (ottime le voci femminili nel “Gran Consiglio”: il “sia maledetto” è sibilato in maniera memorabile).
E veniamo a Hugo De Ana. Che è qui, come sempre, “allestitore” di suprema eleganza, suggestione: nel lusso dei costumi e dei colori il suo Simone è, “come sempre”, una serie di quadri talora memorabili (l’apertura di sipario sulla scena del Gran Consiglio è una di quelle straordinarie “tele viventi” cui De Ana , negli anni, ci ha abituato). Il problema, forse, è proprio il “come sempre”. All’accuratezza delle scene (le suggestive, gigantesche, quinte mobili, i fregi scolpiti, i velluti, gli abiti ricchissimi che talora creano qualche impaccio a cantanti oggi costretti e forse più abituati, da una diversa cultura di regia, ad indossare cappotti, impermeabili e divise militari da kapò) non fa riscontro l’incisività della regia (abbiamo citato l’inerzia scenica del duetto Doge-Amelia atto 1): ogni cantante fa “il suo”, come sa e come può (in questo, emerge, anche in costume d’epoca, la personale modernità di recitazione della Remigio). E quest’aspetto, unito ad una scelta di fondo di tinte sontuose ma corrusche, non rende direzione e regia unitarie. Vedasi proprio il finale: là dove Bignamini, orchestra e voci esprimono trasparenza, la ridondanza dei costumi di corte esprime “sostanza”, opulenza. Qui, e nella commovente invocazione al mare di Simone atto 3 (quella della leggendaria barca nella luce, di Strehler…), il mare di Bignamini è trasparenza, quello di De Ana densità.
Ma restano considerazione “interne” ad una produzione comunque di livello, che la direzione di Jader Bignamini fa volare molto alta. Il Simone di Parma, dopo le ormai numertose prove milanesi, conferma in questo direttore un nome cui, assolutamente, i maggiori teatri dovranno far riferimento. Non ho mai nascosto la mia distanza da prese di posizione di certi siti o sugli eccessi (d’odio o d’entusiasmo, secondo i casi,) di un certo critico. Ma, sul conto di Bignamini sono assolutamente consenziente a chi ne sta riconoscendo il talento, e sarebbe stupido non riconoscerlo per una sorta di opposizione, o per gioco di parti in cui in Italia siamo maestri. Un Verdi di questo stile, e proporzione, e bellezza di suono, non è consueto. E che sia un ancor giovane direttore italiano a proporcelo è motivo di essere, tutti quanti, orgogliosi. Credo che Jader Bignamini (fra l’altro, persona posatissima, per nulla “montata” e con i piedi ben piantati a terra nella gradualità dei passi) possa proseguire, negli anni, una tradizione di grandi direttori italiani nel mondo. Ma, prima, sarebbe bene se n’accorgessero – e agissero di conseguenza – i nostri maggiori teatri. Credo meriti proposte ed allestimenti ad hoc (diversamente dalle corse allo sbaraglio allestite per i vari Battistoni, o perfino Dudamel).

marco vizzardelli
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Re: Simon Boccanegra Bignamini Parma

Messaggioda vivelaboheme » gio 10 ott 2013, 2:27

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