il rapporto fra spartito e interpretazione

problemi estetici, storici, tecnici sull'opera

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Re: Arie d'Opera

Messaggioda Triboulet » mer 03 mar 2010, 16:56

Saba ha scritto:perchè penso che eseguendo la partitura alla lettera si può dare un interpretazione ottimale


Sicuramente bisogna tenere conto delle indicazioni dell'autore, ma non credo che la pedissequa riproduzione letterale sia sufficiente a fare grande una interpretazione, anzi storicamente è spesso stata considerata un limite.
Cito un aneddoto: Jorge Bolet, famoso pianista scomparso a metà degli anni 80, tenne una serie di masterclass televisivi sul II e III concerto per pianoforte di Rachmaninov. Alcuni brani credo siano reperibili su youtube (Classica anni fa li mandò sottotitolati). Ebbene Bolet conobbe Rachmaninov e lo ascoltò più volte dal vivo, oltre che nei dischi. Spesso durante le sue lezioni lo si ascolta dire "Rachmaninov in questo punto usava fare così". In una occasione un allievo presente nel pubblico, credendo di fare il saputello :D, apostrofò il maestro: "qui non c'è un diminuendo sulla partitura" (ora non ricordo se fosse un diminuendo, un allargando o cosa), e Bolet gli fece un bel discorso sull'interpretazione che se lo ritrovo lo posto perchè estremamente interessante. In tutta sostanza sosteneva che la musica scritta è materia morta priva di significato finchè non le si dà vita attraverso l'interpretazione. Questo mettere in essere la musica come "sostanza reale" passa attraverso non solo la sensibilità dell'interprete (che quindi è lecito si prenda piccole libertà sull'agogica o sulla dinamica per esprimere il suo punto di vista da un lato e l'intento dell'autore dall'altro) ma si scontra anche con la resa reale di ciò che è scritto che spesso, a detta di Bolet, "non funziona". Il pianista si fece quindi testimone delle modifiche che lo stesso Rachmaninov utilizzava quando suonava la sua musica, e utilizzava con costanza, rendendo quindi non episodica quella variazione ma, sostanzialmente, di riferimento. Bolet sottolineava come gli stessi compositori, accorgendosi che quello che essi stessi avevano scritto funzionava meno bene di quel che immaginavano, fossero pronti a "ritrattare" il testo per renderlo più aderente all'idea complessiva che con quella musica volevano comunicare.

Altro aneddoto sempre da quei masterclass: Liszt a casa si Chopin una sera, in una di quelle serate salottiere che erano tanto in voga nell'800. Ad un certo punto Liszt comincia a suonare uno studio di Chopin e, laddove il maestro polacco aveva scritto un crescendo, Listz ci mette un bel diminuendo. Fa in pratica esattamente il contrario. Chopin ascoltando quel nuovo modo di suonare la sua musica si complimentò vivamente col collega affermando che mai la sua musica fu suonata meglio. In poche parole erano gli stessi compositori che ammettevano, da parte di interpreti intelligenti, varianti che comunque esprimessero il senso della loro musica.

Bernstein ricordava spesso come Mahler dicesse che l'essenza della musica è tutto ciò che non è scritto. Nell'interpretazione beethoveniana si rifaceva alla scuola tedesca di Furtwangler (con un piglio decisamente più esuberante) che prevedeva allargando e stringendo qua e la alla maniera dei romantici. C'è anche su questo un vecchio master televisivo dove "spiega" l'incipit della V sinfonia. Bernstein era uno che si prendeva molte libertà, ma non si può certo dire che sia meno geniale di Norringhton solo perchè quando suonava Beethoven non rispettava i tempi metronomici scritti o le indicazioni agogiche. Toglieremmo al mondo il piacere di godere di due punti di vista così lontani e, a loro modo, così convincenti di due grandi interpreti. E stiamo ancora parlando di musica strumentale, dove storicamente c'è sempre stata una attenzione maggiore al testo scritto.

Quanto all'opera, gli stessi compositori assistevano in vita a variazioni e rimaneggiamenti delle loro composizioni, varianti che talvolta deprecavano, ma di cui talaltre erano entusiasti. Senza andare all'800, la storia ci ha consegnato grandissime interpretazioni assai poco filologiche, eppure da alcune di esse traspare maggiormente l'intento globale del compositore rispetto a traduzioni letterali del testo che, molto spesso, non contiene neanche tutte le informazioni necessarie per la realizzazione. Il mio, beninteso, non è un elogio dell'anarchia, ma piuttosto un'analisi di come normalmente, da che esiste la musica, viene affrontata la questione dell'interpretazione, almeno da parte della maggior parte degli interpreti.

Saba ha scritto:basta vedere la Callas, puoi ascoltarla con lo spartito sotto e vedrai che non lascia nulla al caso


E invece, caro Saba, la Callas era una che ne combinava di cotte e di crude, almeno dal punto di vista filologico. Questo non vuol dire che non fosse attenta al testo, tutt'altro, ma ammetteva che nella resa complessiva di un personaggio DOVESSERO rientrare delle modifiche allo spartito. Nel repertorio belcantistico, che poi era il suo forte, difendeva la pratica dei tagli (che oggi fa tanto inorridire), operava spesso variazioni "di tradizione", semplificava e modificava all'occorrenza fraseggi, forcelle, corone e spesso anche le note stesse (il finale del suo Casta Diva ha due varianti, e nessuna di queste è quella scritta da Bellini con il trillo). Non era una mera questione "dei tempi", lei credeva fermamente in quel tipo di approccio, che continuò ad insegnare anche nei suoi master del 72 quando ormai i tempi erano cambiati. Se c'è una cosa che la generazione successiva le riproverò (e qualche detrattore le rimprovera ancora) fu proprio quella di essere stata scarsamente filologica, specie nel repertorio romantico, del quale dava una sua personalissima interpretazione alla luce di una nuova visione estetica che in quel periodo la fece da padrona (vedi anche intervista alla Gencer). Del resto puoi confrontare tutte le sue incisioni di Lucia e notare che alcuni passaggi suonano assai diversi da una registrazione all'altra. Mi viene in testa un piccolo frammento di transizione nel primo atto "egli è luce ai giorni miei, è conforto ecc.", sostanzialmente il ponte tra cavatina e cabaletta, ebbene se ascolti questo passaggio, tutto sommato secondario, nel 53 e nel 59 sentirai tante piccole differenze non solo nel timbro (ovviamente) ma nell'impostazione della frase.
Come mi viene in testa il passaggio "oh vergogna!" dal sonnambulismo del Macbeth che esegue talvolta in "piano" con voce coperta, talvolta in "forte" in apertissimo registro di petto, e potrei fare altri mille esempi.
E' verissimo, la Callas non lasciava nulla al caso, perchè ogni minima variazione dell'intesità, del fraseggio o dell'accetto era studiatissima, ma questo non voleva necessariamente dire che seguisse passo passo tutto quel che c'era scritto sullo spartito. Quel che faceva la Callas, e quello che secondo me fa il grande artista, era partire dall'analisi di ciò che era scritto (quel che chiamava "la camicia di forza") per arrivare ad una visione globale del PERSONAGGIO e della sua psicologia attraverso la quale trovare non solo il gesto scenico ma pure la variante interpretativa che esaltasse l'idea che lei aveva in mente.
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Re: Arie d'Opera

Messaggioda Saba » mer 03 mar 2010, 19:03

Ti butto lì una piccola provocazione: la storia dell'interpretazione ha avuto le sue sterzate spesso decisive quando gli interpreti si sono discostati dalla volontà dell'autore, o dalle consuetudini esecutive maturate intorno a quello che a lungo si è ritenuta la volontà esecutiva dell'autore.


Ti rigiro la provocazione eheh
Non ho mai sentito un cantante mediocre fare celeste Aida com è scritta, anzi nemmeno molto grandi tenori, solo uno nella storia del disco la fa come si deve

la mezzavoce di Caruso nel finale della romanza del fiore è, tautologicamente solo la mezzavoce seocndo Caruso

Caruso fa ciò che è scritto nel finale infatti, anche se qualcosa manca vi posto lo spartito
Per quanto riguarda il resto, la mia intenzione è estrapolare solo l'aria, l'ho detto sin dall'apertura del post, altrumenti per fare un alvoro del genere su tutta un' opera ci vorrebbe troppo tempo..Tornando a kraus mai sentiti suoi allievi quindi potete immaginare che bel maestro
Penso che si possa ugualmente dare il proprio apporto interpretativo seguendo la partitura, lì si vede la differenza tra un buon esecutore ed un grande, Gedda non è il mio tenore di riferimento, ma nell'aria della carmen è davvero fenomenale, piega la voce con precisione...nel finale dell'aria, l'orchestra ha 3 p, quindi chi canta ovviamente dovrebbe fare la stessa cosa
Anche Kaufmann segue alla lettere ciò che è scritto in quest'aria, ma la resa sonora non è un gran chè, i motivi penso siano udibili da tutti...il piano sul si bemolle è in falsetto ed all'attacco della nota prende un si naturale che poi corregge, Gedda fa un piano perfetto, vibrante e pulito
le tre frasi che scendono ogni volta di tonalità e cioè
Car tu n’avais eu qu’à paraître,
Qu’a jeter un regard sur moin
Pour t’emperer de tout mon être
le fa tutte uguali, idem Corelli anche se cambia l'accento

Del monaco inascoltabile nella registrazione Decca,
Corelli ha poca dinamica, non fa le messe di voce scritte, anche se secondo me ha il timbo di don josè,
in Tosca la callas fa tutto ciò che è scritto, idem in traviata
Infatti il grande artista si muove all'interno dello spartito, ma di fondo cè sempre il testo ed il buon gusto
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Re: il rapporto fra spartito e interpretazione

Messaggioda Triboulet » sab 07 ago 2010, 19:38

Tagli sì tagli no... ma siamo sicuri che è davvero questo il problema?
Non discuto la prassi balorda di sopprimere interi numeri musicali dalle opere, nel senso che sono daccordo con voi sul fatto che oggi come oggi (ma anche ieri forse) non trova molta giustificazione, ma parliamo pure dei "microtagli" di cui sovente erano costellate le partiture negli anni 50 e 60.
A cosa servivano? servivano al processo di interpretazione, a scolpire l'opera d'arte secondo un punto di vista preciso. Una manomissione esagerata? Far interpretare i Puritani alla Callas è già una manomissione esagerata (anche se l'avesse fatta senza tagli), il Verdi di Karajan è già una manomissione esagerata, perchè quindi di queste cose non ci scandalizziamo e di un finale accorciato sì? perchè mancano le note?
Si è citato giustamente la Callas e la Gencer come esempi supremi dell'interpretazione belliniana e donizettiana. Ebbene alla Callas e alla Gencer i tagli piacevano, o meglio a loro servivano! In un masterclass la Maria rimprovera aspramente una sua allieva che si permette di fiorire troppo la ripresa della cabaletta di Lucia, per lei era sufficiente, anzi era NECESSARIO, fare poche fioriture, poche variazioni, e tagliare quasi tutte le cadenze intermedie sulle corone, faceva parte del suo messaggio artistico, di quell'atto creativo di cui parlava Mat negli interventi precedenti. Magari per alcuni è un intervento illegittimo, ma è sicuramente coerente. La Callas e la Gencer cercavano la verità del messaggio originario così, erano filologhe a modo loro, se vogliamo :D
Se rifiutiamo le loro semplificazioni rifiutiamo la loro visione, e faremmo meglio a rivolgerci altrove (ha poco senso fantasticare su una Lucia callasiana integrale, lei stessa l'avrebbe ritenuta ridondante).

Beverly Sills incide invece le opere dalla prima all'ultima nota, perchè tutti quei ritornelli e tutte quelle cadenze sono funzionali al suo messaggio. Anzi lei va oltre, fiorendo anche laddove il testo in realtà non lo prescrive. Una matta? no, solo un'arma dell'interpretazione, magari un po' "ardita".
A me personalmente l'intepretazione ardita, se è coerente e centra il bersaglio, piace, mi affascina, più dell'interpretazione filologica. Ma non sono contrario all'interpretazione filologica nel momento in cui si fa ardita, ovvero se contiene delle idee forti, non solo il tentativo di riproduzione della prassi esecutiva originale. L'idea secondo me è il punto, non tanto la maniera di arrivarci.
Forse l'ho già fatto questo esempio, non ricordo, ma si dice che quando Listz suonava Chopin in presenza dell'autore, quest'ultimo andava in estasi nonostante le pesanti manomissioni che l'amico operava suonando la sua musica. E quindi magari se Verdi avesse udito una interpretazione sconvolgente, avrebbe accettato anche gli sconvogimenti di un interprete geniale (il guaio è che spesso le modifiche erano apportate per questioni pratiche, e penso che fosse questo che faceva imbestialire i compositori). Per me quindi la verità sta nell'interpretazione, e non nel testo.
E due intepretazioni distanti possono essere parimenti "vere", anche se apparentemente antitetiche. Perchè privarcene?

Apprezzo comunque chi un certo integralismo lo utilizza come base per carpire nuove suggestioni, perchè (questo è vero) se una tradizione è invadente rischia di mettere totalmente in ombra alcuni elementi del messaggio originario, e di solito schiaccia tutte le altre possibili letture. Ho accennato altrove al Beethoven di Furtwangler, assolutamente affascinante non c'è che dire, ma ovviamente per esaltare certe atmosfere proto-wagneriane (così sembra leggerlo) il maestro tedesco sacrifica il ritmo, o meglio lo piega a piacimento per assecondare la sua visione; peggio ancora il Beethoven di Klemperer, che sembra quasi Bruckner per quanto è lento. Lo stesso Karajan, dai tempi più serrati, mette come suo solito al primo posto la cura del suono, cercando costantemente di abbellire e nobilitare anche i passaggi che invece richiederebbero un tipo di approccio meno estetizzante. Eppure ormai Beethoven lo ascoltiamo così. E ci piace pure, anzi per molti è ancora il Beethoven di riferimento. Ebbene questo non equivale a un taglio virtuale? Cos'è più grave spezzare un dito ad una statua di Michelangelo o tingerla completamente di rosso rutilante?
A quel punto la cosa davvero interessante è vedere come Gardiner o Norrington si pongano aldilà della tradizione, ma il loro non è tanto un esercizio modaiolo di restauro, quanto il pretesto per esprimere un punto di vista antitetico. Quel Beethoven suonerebbe sostanzialmente uguale anche con strumenti non originali. E suona valido, a mio avviso, non perchè sia filologico, ma perchè cerca, attraverso la filologia, un'altra verità.
Ci sono filologi mediocri e non filologi che lo sono altrettanto. Ognuno insegue la sua visione con gli strumenti più consoni ad inseguirla.
Lo so, è una ovvietà, ma è l'ovvietà che mi fa passare in secondo piano la questione "aderenza al testo".

Vi propongo la visione di questo breve documentario con Norrington che prova Beethoven, è in inglese con sottotitoli in francese (se conoscete anche poco una delle due lingue è sufficientemente compresibile), ma la cosa simpatica sono gli ascolti comparati... ascoltati così accostati questi frammenti sembrano appartenere a partiture diverse.
Dopo aver praticamente quasi deriso decenni di tradizione esecutiva Norrington a sorpresa dichiara a sorpresa: "Furtwangler era un grande direttore, perchè era 'imaginative' (traducetelo voi), e ci sono molti modi per esserlo". Il fatto che, in definitiva, si riduca tutto ad una questione di scelta dell'ascoltatore (ovvero di gusto) è un'altra banalità che, secondo me, rende tutto questo mondo così affascinante.



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Re: il rapporto fra spartito e interpretazione

Messaggioda Riccardo » dom 08 ago 2010, 12:02

Triboulet ha scritto:Tagli sì tagli no... ma siamo sicuri che è davvero questo il problema?
Non discuto la prassi balorda di sopprimere interi numeri musicali dalle opere, nel senso che sono daccordo con voi sul fatto che oggi come oggi (ma anche ieri forse) non trova molta giustificazione, ma parliamo pure dei "microtagli" di cui sovente erano costellate le partiture negli anni 50 e 60.
A cosa servivano? servivano al processo di interpretazione, a scolpire l'opera d'arte secondo un punto di vista preciso. Una manomissione esagerata? Far interpretare i Puritani alla Callas è già una manomissione esagerata (anche se l'avesse fatta senza tagli), il Verdi di Karajan è già una manomissione esagerata, perchè quindi di queste cose non ci scandalizziamo e di un finale accorciato sì? perchè mancano le note?

(Perché Puritani sarebbe una manomissione per la Callas?)

Il punto, certo, non è "tagli sì" o "tagli no"...è discutere queste scelte alla luce delle interpretazioni. Il vero problema di Bellini, Donizetti e Rossini degli anni '50 è che con quei microtagli, con le cosiddette "forbici di Serafin", come le chiama Gossett, si andava a ritoccare un genere operistico alla luce di dogmi ideologici posteriori.
E quindi è evidente che gli svolazzi rossiniani, gli indugi fiorettati di Donizetti, le cabalette ripetute di Bellini fossero ritenuti semplici concessioni a convenzioni del passato che ancora contaminavano i primordi della "vera" musica d'opera, quella che invece esprime le "vere emozioni" senza fronzoli...etc etc... Si tagliavano Rossini e Donizetti per farli assomigliare di più a Verdi...

Oggi vediamo questi autori alla luce delle riscoperte sull'opera a loro precedente e possiamo ritenerli anche un punto di arrivo oltreché uno di partenza per Verdi. Anzi, io personalmente sento il Devereux molto più come culmine della stagione Rossini Bellini Donizetti che non come opera preverdiana.

Il punto che si dibatteva con Matteo è se, alla luce della sensibilità odierna, appunto quella che ha ridato una dignità e un senso agli svolazzi di Rossini etc etc, l'ascolto dell'Armida della Callas o anche della sua Lucia possano ancora essere appaganti sul piano della fruizione. O se non preferiamo, e abbiamo visceralmente bisogno, di sentire Joyce DiDonato la Dessay o altre grandi che danno voce al nostro tempo.

Insomma, ascoltare la Lucia della Callas è per me un bellissimo momento di studio, comprensione e ricerca sul passato. Se però voglio sentirmi la Lucia, affinché parli al MIO presente, ne sceglierò un'altra, più confacente alle MIE aspettative di oggi da questo ammasso di note (e una Sills anni '70 o una Gruberova anni '90 le sento più vicine al mio sentire odierno di giovane del 2010).

Vedo insomma una scissione tra il momento ricerca e studio dell'interpretazione (che rispondono a determinate regole e ci impongono di metterci nei panni degli ascoltatori del passato, di capirne le aspettative e i gusti) e il ruolo di fruitore nel presente (con la propria sensibilità individuale calata nell'oggi).

Salutoni
Riccardo

P.S. Grazie Triboulet per il bel documentario...Molto interessante Norrington!
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Re: il rapporto fra spartito e interpretazione

Messaggioda Triboulet » dom 08 ago 2010, 20:59

Riccardo ha scritto:(Perché Puritani sarebbe una manomissione per la Callas?)


Beh Elvira è un ruolo Grisi, tutto sommato un lirico d'agilità, qualcosa che si avvicina di più alla Moffo, la prima Zeani, la prima Gencer... La Callas ne fa un ruolo da coloratura drammatica, se senti Ah vieni al tempio è spintissima. La Callas del 1949 cantava Walkiria un po' all'italiana e Puritani un po' alla tedesca, in realtà non era nè declamatrice nè belcantista pura, era la Callas. E credo che Serafin cavalcò un po' questa occasione per creare una sorta di sintesi tra mondo tedesco e mondo italico. Azzardo, ma secondo me si modificavano (perchè non si tratta solo di tagli) Bellini, Donizetti e pure Verdi per farli assomigliare a Wagner! E si italianizzava Wagner per farlo assomigliare al tardo Verdi. E tutto partì proprio dalla Callas (la stessa Gencer era figlia dell'estetica callasiana per sua stessa ammissione).
La sua Lucia viaggia sulla stessa linea, e Lucia era originariamente un ruolo ancora più leggero (appunto da Sills, Gruby e co.). Sono dei clamorosi falsi storici che lei spacciava all'epoca per "recupero storico".

Riccardo ha scritto:Il punto che si dibatteva con Matteo è se, alla luce della sensibilità odierna, appunto quella che ha ridato una dignità e un senso agli svolazzi di Rossini etc etc, l'ascolto dell'Armida della Callas o anche della sua Lucia possano ancora essere appaganti sul piano della fruizione. O se non preferiamo, e abbiamo visceralmente bisogno, di sentire Joyce DiDonato la Dessay o altre grandi che danno voce al nostro tempo.


Molte interpretazioni della Callas sono storicamente superate, altre (Traviata, Butterfly) attendono solo un'interprete che dica qualcosa di diverso con la stessa violenza artistica (e magari qualcuno le ha già trovate le alternative). La Fleming fa una Armida che concettualmente va molto oltre, la stessa Dessay propone una Lucia non meno rivoluzionaria, o la Gruby che trova il sistema di attualizzare il Devereux attraverso scelte nuove, ardite e molto discusse. E io sono il primo che vivo con entusiasmo il mio tempo, ma non riesco a capire perchè non debba ritenere appagante una certa visione diversa solo perchè questa è magari storicamente ormai sorpassata. Esempio, adoro molto il Beethoven filologico di oggi, però amo anche la visione tardoromantica/mahleriana di Bernstein, ma personalmente non fatico nell'identificarmi in un ipotetico ascoltatore di 40 anni fa, considero la sua visione un esperimento artistico del passato ancora valido nel presente. Penso sia molto soggettivo, dipende da quello che ti aspetti da un certo ascolto, o magari che non ti aspetti (il che è più divertente).
Quindi la mia risposta è sì: secondo me le intepretazioni "vecchie" possono ancora essere appaganti sul piano della fruizione, ma solo nel momento in cui rappresentano un passaggio UNICO. La Lucia nella "visione Callas" è solo della Callas, è un'opera d'arte particolare e unica, e personalmente non mi chiedo se parla al presente o al passato, semmai constato che seppur col linguaggio del passato nel presente ha ancora qualcosa da dire. Adesso mi potresti contestare che non ha più niente da dire :D ma io non lo credo. Se poi vogliamo discutere se è "alla moda" beh era già passata di moda nel 59 con l'avvento della Sutherland (superata pure lei, peraltro).
C'è gente che continua ad ascoltare con piacere il Beethoven di Furt, a me non entusiasma, ma per questione di scarso appeal sul mio gusto, non perchè necessariamente la ritenga una opzione non più valida solo perchè "antica" o meno filologica di quelle del presente. Credo di aver capito la questione che mettevate sul piatto, sono io che personalmente (nel mio quotidiano) la affronto in maniera diversa.

Che poi continuo a pensare, detto per inciso, che Dessay, DiDonato, Gruberova, Fleming e compagnia cantante propongano visioni altrettanto poco filologiche rispetto alle loro colleghe del passato, l'unica cosa che è stata recuperata è l'integralità dell'opera. La stessa Sills (che cantava tutti i ritornelli ed aveva una voce sulla carta più simile alla Lucia originaria) "sfigurava" (magnificamente) le sue creazioni al contrario, per ipertrofia e iperespressività (se mi permetti questo neologismo).
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Re: il rapporto fra spartito e interpretazione

Messaggioda Riccardo » lun 09 ago 2010, 12:43

Triboulet ha scritto:
Riccardo ha scritto:(Perché Puritani sarebbe una manomissione per la Callas?)

Beh Elvira è un ruolo Grisi, tutto sommato un lirico d'agilità, qualcosa che si avvicina di più alla Moffo, la prima Zeani, la prima Gencer... La Callas ne fa un ruolo da coloratura drammatica, se senti Ah vieni al tempio è spintissima. La Callas del 1949 cantava Walkiria un po' all'italiana e Puritani un po' alla tedesca, in realtà non era nè declamatrice nè belcantista pura, era la Callas.

Sinceramente non ascolto quei Puritani da molto tempo...certo non sarà come la sua Norma, ma addirittura ritenerla una manomissione mi sembra eccessivo!
La Callas non era una belcantista pura, è vero, ma in quei personaggi già un po' romanticamente sfumati era grandiosa. La Moffo non so quanto colga, oltre alle notine, di una parte del genere...

Azzardo, ma secondo me si modificavano (perchè non si tratta solo di tagli) Bellini, Donizetti e pure Verdi per farli assomigliare a Wagner!

Azzarda pure! E' proprio così...l'ideologia wagneriana è stata fortemente pervasiva nell'opera italiana e particolarmente assassina nei confronti di quel repertorio pre-verdiano.

La sua Lucia viaggia sulla stessa linea, e Lucia era originariamente un ruolo ancora più leggero (appunto da Sills, Gruby e co.). Sono dei clamorosi falsi storici che lei spacciava all'epoca per "recupero storico".

Ma quello della Callas in Lucia è stato un gigantesco recupero storico nella misura in cui il ruolo veniva sottratto ai sopranini di coloratura a cucù di fine Ottocento che con lo stile in voga ai tempi della Tacchinardi Persiani non dove c'entrare nulla, come vediamo dalla scrittura di Donizetti.
Ammesso che la creatrice di Lucia fosse così leggera come dici tu, non è comunque solo una questione di colore della voce...
La Sills e la Gruberova sono state storiche Lucie non tanto per le loro voci leggere e sovracute, ma per l'abilità nel coglierne le sfumature psicologiche. Lucia è una che va fuori di testa sul serio, mica come Elvira. La Sills ne faceva un personaggio dal canto barocco ed esasperato, ma inquietante, stralunato...si sentono i bagliori di un romanticismo nero. La Gruberova matura, pure, fa con Lucia le prove generali per il Devereux e secondo me funziona!

Che poi continuo a pensare, detto per inciso, che Dessay, DiDonato, Gruberova, Fleming e compagnia cantante propongano visioni altrettanto poco filologiche rispetto alle loro colleghe del passato, l'unica cosa che è stata recuperata è l'integralità dell'opera. La stessa Sills (che cantava tutti i ritornelli ed aveva una voce sulla carta più simile alla Lucia originaria) "sfigurava" (magnificamente) le sue creazioni al contrario, per ipertrofia e iperespressività (se mi permetti questo neologismo).

Ma su questo sono d'accordissimo... Il punto è che si usa comunemente l'aggettivo "filologico" un po' a sproposito... Perché lo studio accurato delle fonti, delle prime rappresentazioni, le edizioni critiche non hanno nulla a che vedere con un irrigidimento del testo a vantaggio di una presunta giusta esecuzione: la filologia è in realtà arricchimento delle conoscenze, scoperta di nuove possibilità, nuove chiavi di lettura, nuove occasioni di studio...Insomma dà strumenti ulteriori all'interprete, lo dovrebbe rendere più libero, non più costretto.
E penso ad esempio proprio ad un caso che ho visto abbastanza da vicino come i Puritani, dei quali la neonata edizione critica offre, oltre alla ricostruzione della versione per la Malibran e Duprez, nuovi tagli da riaprire, varianti vocali e d'orchestrazione...
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Re: il rapporto fra spartito e interpretazione

Messaggioda Triboulet » lun 09 ago 2010, 16:04

Riccardo ha scritto:Sinceramente non ascolto quei Puritani da molto tempo...certo non sarà come la sua Norma, ma addirittura ritenerla una manomissione mi sembra eccessivo!
La Callas non era una belcantista pura, è vero, ma in quei personaggi già un po' romanticamente sfumati era grandiosa. La Moffo non so quanto colga, oltre alle notine, di una parte del genere...


Eh già, sono daccordo che era grandiosa, e pure che coglieva molto di più lo spirito di Bellini di una Moffo... era lì che volevo arrivare, nel senso che la Moffo (vero lirico d'agilità) penso assomigli di più all'ideale vocale di Elvira (e cantava pure più note originali della Callas), ma cosa mai ce ne facciamo se canta solo le notine? (che poi non è vero, comunque non ne dà certo lettura memorabile). Norma è secondo me l'unico ruolo "naturalmente callasiano". Te lo dice un fan doc della Callas. Lì la Callas, senza sforzi apparenti, era artisticamente (e vocalmente) se stessa e simultaneamente si avvicinava al modello originale in maniera impressionante (almeno, per quanto ci è dato immaginare), seppur con una allure wagneriana o comunque tardo-ottocentesca (non parlo di tecnica ma di influenza estetica). Già con Sonnambula sceglie (forse a torto) di assottigliare il suo timbro in maniera che fosse più consono alla contadinella svizzera, in qualche modo forza la sua natura (e questo forzare continuo che a lungo andare le costerà anche la voce) e probabilmente compie già una operazione anti-storica (non credo sia scritto che la Pasta cambiasse voce da un ruolo all'altro). Senza contare che utilizza ancora molte varianti alte "di tradizione", parlo della tradizione tra le due guerre. Si avvicina in qualche modo al modello corrente (voce piccola e fioriture alte) aggiungendovi solo (si fa per dire solo) spessore interpretativo maggiore.

In Puritani e Lucia succede invece che canta con la sua voce (più o meno) che stavolta è più lontana dai modelli originari (Grisi e Tacchinardi non erano la Pasta), utilizza con quella voce alcune varianti di tradizione pre-bellica (la cadenza di Lucia, o le già citate varianti alte di Ah vieni al tempio, dove arriva con potenza inaudita a cantare fino al re sopra il rigo), e le sfronda laddove le ritiene eccessivamente spettacolari. Insomma come se Isotta cantasse Puritani (che poi è quello che accadeva). Quel che vien fuori è una roba abbastanza strana, che sicuramente spazzò via la tradizione dei sopranini ma che, in definitiva, risultava parimenti distante dall'originale. Se senti invece tutte le sue interviste la sensazione è che lei si vanti di aver riportato il Belcanto alle sue radici originarie, sono daccordo sul fatto che gli abbia reinfuso dignità artistica, ma l'ha fatto comunque con le sue armi, molto molto personali. Per me questa è manomissione, nel senso di "prendersi certe libertà", che beninteso io reputo pure legittime se poi il risultato è una interpretazione di quello spessore. Anzi il punto è proprio questo. Bada bene che non ho parlato neanche di sfuggita dei tagli, che erano solo uno degli strumenti, ecco perchè dicevo che anche senza tagli certe letture callasiane erano comunque anti-belcantistiche. Eppure c'era più belcanto lì di quanto non ce ne fosse in successive e più aderenti Lucie (per non parlare delle precedenti). Non conta quindi di più l'essenza del messaggio piuttosto che la sua aderenza allo spartito?
Perdona le ampie digressioni su Maria, è uno dei (pochi) argomenti che conosco bene e che mi appassiona di più : Chessygrin :

Riccardo ha scritto:Ma quello della Callas in Lucia è stato un gigantesco recupero storico nella misura in cui il ruolo veniva sottratto ai sopranini di coloratura a cucù di fine Ottocento che con lo stile in voga ai tempi della Tacchinardi Persiani non dove c'entrare nulla, come vediamo dalla scrittura di Donizetti.


Giusto, quel che dicevo sopra, in estrema sintesi, è che la Callas recupera il senso del messaggio donizettiano, ma il suo stile è ugualmente diverso da quello della Tacchinardi, diverso come quello dei sopranini, solo "al contrario". Sono fermamente convinto che quello della Callas non sia Donizetti, non il Donizetti che ascoltava Donizetti. Più che recupero (che era quello che spacciava lei) parlerei di rivalutazione interpretativa. Tant'è che chi ha voglia di qualcosa di più fedele dalla Lucia della Callas si tiene lontano, e non solo per i tagli. L'Ofelia della Dessay è un altro esempio eclatante e contemporaneo (ascolta i tempi dilatatissimi della sua pazzia, per non parlare dei fraseggi personalissimi).

Riccardo ha scritto:La Sills e la Gruberova sono state storiche Lucie non tanto per le loro voci leggere e sovracute, ma per l'abilità nel coglierne le sfumature psicologiche. Lucia è una che va fuori di testa sul serio, mica come Elvira. La Sills ne faceva un personaggio dal canto barocco ed esasperato, ma inquietante, stralunato...si sentono i bagliori di un romanticismo nero. La Gruberova matura, pure, fa con Lucia le prove generali per il Devereux e secondo me funziona!


Mai pensato che la Sills e la Gruby sono state grandi in quel repertorio perchè con voci più leggere, semmai erano sulla carta più vicine al modello originale, ma solo in partenza però!
Perchè il canto pazzoide della Sills, tutto trillante, fiorito sino all'inverosimile (anche dove non è prescritto), con quegli accenti così calcati non era certo aderente allo spartito (la Gencer stessa la liquidava sprezzante "non è Donizetti"). Come non sono strettamente aderenti i giochi timbrici e dinamici della Gruby, che rispetto al testo musicale si prende più di una libertà. Allora, se il titolo della discussione è "il rapporto fra spartito e interpretazione" la mia personale conclusione è "quando l'interpretazione è notevole e convincente lo spartito non mi importa più", perchè il messaggio in esso scritto è arrivato comunque, magari modificato e tradotto in una lingua ancora più efficace. Poi possiamo discutere sull'efficacia della traduzione, e su quanto alcune traduzioni appaiano oggi "in lingua morta", ma a me pare che una interpretazione incisiva abbia necessariamente bisogno di un grado di libertà superiore, sia questo macroscopico sia microscopico. Norrington utilizza tutti i metronomi beethoveniani, ma esaspera timbri, volumi, dinamiche, si prende un diverso grado di libertà.
Solo così si può arrivare al paradosso che il Bach più autentico è il Bach di Gould! molti disapprovano, ma molti altri ne sono convinti (e non solo per questioni di mito). Non fraintendermi però, è sempre utilissimo (oltre che stimolante) cercare di ridisegnare il modello originario, ma non deve essere limitativa questa ricerca.

Beethoven disapprovava i metronomi, li mise controvoglia e quando era già sordo. Credeva fosse uno strumento superfluo. Moltissimi li ritengono inattendibili.
Norrington sceglie di adottarli, ma è più importante quel che accade di conseguenza, cioè che quel tempo così rapido gli suggerisce una lettura totalmente nuova. Non importa che quel metronomo sia di Beethoven, anche perchè probabilmente ce li ha messi lì senza pensarci tanto. Se rallenti un po' l'Appassionata probabilmente vedrai che non funziona. Ma se la rallenti MOLTISSIMO (come faceva Gould) troverai un senso nuovo, una verità nuova, un aspetto inedito che è messo in luce soltanto dopo quella manomissione del testo. Per me la musica non è quello che è, è quello che riesci a tirarci fuori, non so se sono riuscito a spiegarmi. Ora mi fermo perchè mi sto già ripetendo da un po' : Sig :
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Re: il rapporto fra spartito e interpretazione

Messaggioda Riccardo » lun 09 ago 2010, 21:28

Triboulet ha scritto:Allora, se il titolo della discussione è "il rapporto fra spartito e interpretazione" la mia personale conclusione è "quando l'interpretazione è notevole e convincente lo spartito non mi importa più", perchè il messaggio in esso scritto è arrivato comunque, magari modificato e tradotto in una lingua ancora più efficace. Poi possiamo discutere sull'efficacia della traduzione, e su quanto alcune traduzioni appaiano oggi "in lingua morta", ma a me pare che una interpretazione incisiva abbia necessariamente bisogno di un grado di libertà superiore, sia questo macroscopico sia microscopico. Norrington utilizza tutti i metronomi beethoveniani, ma esaspera timbri, volumi, dinamiche, si prende un diverso grado di libertà.
Solo così si può arrivare al paradosso che il Bach più autentico è il Bach di Gould! molti disapprovano, ma molti altri ne sono convinti (e non solo per questioni di mito). Non fraintendermi però, è sempre utilissimo (oltre che stimolante) cercare di ridisegnare il modello originario, ma non deve essere limitativa questa ricerca.

D'accordissimo. E l'esempio di Gould è perfetto. Pensa solo a quel che combinava suonando Mozart, altro che manomissioni! Eppure è stato un grandissimo. Rimproverarlo secondo i criteri di una filologia caricaturizzata sarebbe ridicolo e riduttivo...

Anche se bisogna pur considerare che il testo delle opere italiane del primo ottocento (ma in misura diversa anche di quelle successive fino almeno a metà Verdi) è flessibile, mobile per natura... Variazioni, puntature, trilli, cadenze, interventi del cantante sono ammessi anzi necessari, contemplati dallo stesso compositore...sono un po' dei canovacci rispetto a quello che diventa poi una partitura wagneriana. Quindi in un certo senso sono "testo" anche i margini di libertà che i cantanti si prendono lecitamente.

Ma insomma, la valutazione va sempre fatta sul piano storico e di risultato concreto...sono d'accordo con te che il testo è la partenza. Anche per Wagner! :D
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