Anni Ottanta

problemi estetici, storici, tecnici sull'opera

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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Rodrigo » gio 05 nov 2009, 21:26

Proseguo con il mio "controcanto" alla dotta tenzone in atto. :D
Trovo che una delle più grosse "deviazioni" estetiche è esprimere dei giudizi sulla base di criteri ideologici anziché strettamente artistici. Questa è indubbiamente una tendenza (viziosa) ricorrente, ma nel periodo "sessantottino" è stata presa per buona ed amplificata con effetti nefasti (e naturalmente ridicoli) non solo nella musica. Oggi paiono incredibili, ma appartengono a ieri le stroncature feroci di quegli intellettuali (orrenda parola!) non sufficientemente "militanti", delle creazioni tacciate come "consolatorie" ecc. ecc. Questo non è fare critica, è ottusità bella e buona! : Andry : : Andry : : Andry :

Un'altra caratteristica che ritengo propria dei periodi di "crisi" è il giocare un autore contro un altro o un'opera contro un'altra. Il trucco è vecchio: dopo Aida, con la crisi del modello verdiano, vi fu chi in Italia provò a giocare Wagner contro Verdi (qualcuno la beve ancora oggi...); trent'anni dopo, contro il dilagare del sinfonismo, altri giocarono Benedetto Marcello, Monteverdi, Palestrina contro Wagner (ce n'è più di un'eco nel Fuoco di D'Annunzio). In Germania tra le due guerre, nella crisi del wagnerismo, ecco che si gioca Verdi contro Wagner; rivelatore in questo senso il bellissimo romanzo di Werfel. E anche i nostri formidabili anni '70 non si sono sottratti al giochetto, magari perfezionato contrapponendo tra loro le opere di uno stesso autore (quelle più "militanti" contro quelle più "disimpegnate, decadenti, piccolo-borghesi, reazionarie, bla bla": Mascagni? Vuoi mettere Janacek o il Boris! Quel decadente di Puccini? Vuoi mettere la coscienza militante di Luigi Nono! La Traviata? Scherzi, meglio l'antiedonismo (?) del Simone o del Macbeth!(Dimostrando così di non avere capito nulla di Verdi, della Traviata e del Simone...)
Ci sarebbe poi tutto il capitolo della musica sacra, ma quella è tutta un'altra storia (e non delle meno interessanti)!
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Tucidide » gio 05 nov 2009, 23:00

Rodrigo ha scritto:Un'altra caratteristica che ritengo propria dei periodi di "crisi" è il giocare un autore contro un altro o un'opera contro un'altra.

Verissimo, concordo.
C'è però da dire che gli antagonismi sono a volte sintomo di straordinaria vitalità, purché non ci sia l'ideologia di mezzo.
Il periodo dei Coppi-Bartali è un momento d'oro per il ciclismo.
Il periodo delle Callas-Tebaldi è un momento d'oro per l'opera.
Però, in quei casi non c'era ideologia dietro, ma solo visceralità, forse ingenua, ma verace.
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda beckmesser » ven 06 nov 2009, 19:29

MatMarazzi ha scritto:Attendo con impazienza, in proposito, anche i punti di vista non solo di Beck e Rodrigo


Beh, di fronte all'impazienza non posso tirarmi indietro... :D

MatMarazzi ha scritto:Accettare la compresenza (virtualmente illimitata) di tante scuole tecniche, misurarne i pregi a contatto di un dato repertorio, non significa arrivare meccanicisticamente (come faceva Celletti) a celebrare i possessori di questa tecnica indipendentemente dai risultati artistici.


Sono d’accordo, e infatti io non ne facevo un discorso di valutazione dei risultati artistici, ma, come precisato, di metodo: ciò che mi lasciava perplesso era una ricostruzione di quegli anni volta a dipingere quella “scuola” come il malinconico orticello della provincia italiana, di cui all’estero non importava nulla a nessuno. Secondo me, è vero esattamente il contrario: il pubblico italiano arriva sempre un po’ (circa un ventennio) dopo. Negli anni ’60-70 in Italia si continuava ad insistere sugli epigoni di Di Stefano e Del Monaco, e Bergonzi veniva considerato con sufficienza. Mi ricordo una sua intervista in cui ricordava come tutti continuassero a dirgli di aprire i suoni, di forzare di più, di lasciar perdere le filature dei sibemolle, mentre lui continuava imperterrito sulla sua strada (non so se per scelta o necessità) soprattutto al Met e al Covent Garden, e solo in misura minore alla Scala. Con la Freni, non era molto diverso: finché stava su Adina o Mimì, tutto bene, ma se si azzardava a cantare Elisabetta alla Scala la si derideva (quel “bravina” che si sente alla fine del ‘Tu che le vanità’ scaligero…). Adesso, che la storia ha preso tutt’altra direzione, Bergonzi è ‘il-più-grande-tenore-verdiano-di-sempre” e la Freni una Elisabetta da rimpianto… Ma non credo si possa imputare a loro la stolidità di certo pubblico di questi giorni…

MatMarazzi ha scritto:Si applaudiva il linguaggio, perché - contenutisticamente - l'opera era uscita dalla relazione col presente, spinta via in malo modo dalla violenza eversiva (e sciocca) del '68.


Sottoscrivo completamente e con entusiasmo, ma mi viene da aggiungere: dove sta il problema? In verità, più che di periodo di crisi, parlerei di periodo tipicamente manierista (parola che, preciso, per me non ha nulla di negativo) e non credo che la causa fosse la rivoluzione sociale del ’68, quanto quella artistica degli anni precedenti. Dopo ogni grande rivoluzione artistica (e la prima metà del ‘900 fu certamente una rivoluzione in campo operistico), è abbastanza naturale che subentri un periodo in cui, in crisi di contenuti, ci si concentra sulla forma (e, per un cantante d’opera, la tecnica vocale è la forma). In particolare, si prende a riferimento un certo precedente e se ne enfatizza (in modo, appunto, manierista) una data caratteristica. Per questo non condivido chi considera Bergonzi un continuatore di Pertile. Pertile sta a Bergonzi come Notre-Dame sta a una cattedrale neogotica dell’800 o come il latino di Cicerone a quello di Dante e Petrarca. Bergonzi si poneva nei confronti della scuola vocale di inizio secolo come una sorta di archeologo che tenta di resuscitare un linguaggio ormai non più attuale, assolutizzandone alcuni aspetti (la copertura del suono, l’aulicità del fraseggio) con tale abilità da convincere una buona parte di pubblico che quello fosse il prototipo del vero canto ottocentesco (sono convinto che in confronto a Bergonzi e alla Sutherland gente come la Pasta o Fraschini apparirebbero oggi pericolosi declamatori…).

In questo mi sento di dissentire da uno degli elementi della valutazione che fai di quel periodo: Bergonzi (e cito lui in quanto paradigmatico, ma il discorso vale per buona parte degli artisti che hai menzionato) non mi sembra abbia imboccato il comodo sterrato di perpetuare stancamente una tradizione morente. Il comodo sterrato (ossia la tradizione morente) in quegli anni era semmai quello rappresentato dalla rivoluzione degli anni ’50. Lui non ci si è accodato e ha preferito piuttosto provare a reinventare una tradizione ormai morta e sepolta. Ad orecchie, o meglio: a spettatori odierni il suo Verdi risulta indiscutibilmente riduttivo, ma il tentativo a me affascina… Sarà che in generale le epoche manieriste mi incuriosiscono più di quelle rivoluzionarie…

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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Tucidide » ven 06 nov 2009, 20:46

beckmesser ha scritto:In questo mi sento di dissentire da uno degli elementi della valutazione che fai di quel periodo: Bergonzi (e cito lui in quanto paradigmatico, ma il discorso vale per buona parte degli artisti che hai menzionato) non mi sembra abbia imboccato il comodo sterrato di perpetuare stancamente una tradizione morente. Il comodo sterrato (ossia la tradizione morente) in quegli anni era semmai quello rappresentato dalla rivoluzione degli anni ’50. Lui non ci si è accodato e ha preferito piuttosto provare a reinventare una tradizione ormai morta e sepolta.

Giustissimo, e infatti ho parlato specificamente di "involuzione", senza però dare a questa parola un senso spregiativo che per me non ha.
Si tende troppo spesso, in ogni campo, a fare una facile equazione: "evoluzione = progresso = bene"; involuzione = regresso = male".
Non è così facile. Un'involuzione può portare certo ad una stasi di idee ed alla pigrizia, ma può anche rispondere ad una nuova esigenza "conservatrice", reazionaria, che in quanto esistente ha diritto ad essere rappresentata.
Per questo condivido l'ipotesi di Matteo che l'opera abbia risentito, a livello di pubblico e dunque anche di linguaggi espressivi, del Sessantotto e del dissidio giovani - vecchi.
Comunque, gli anni '50 furono una grande ubriacatura, Mat, altroché. :) Il Sessantotto molto meno, visto che fu fin da subito intellettualizzato ed ideologizzato. Dove arriva l'intellettuale, sparisce ogni ebbrezza, sostituita dall'ideologia e dalla supponenza (che non è sciocchezza, beninteso :wink: ). Mentre i giovani degli anni '70 procedevano per la loro strada, i "vecchi", che erano i giovani di venti anni prima, oramai trovavano stantio e risaputo quello che avevano applaudito entusiasti in gioventù, e cominciavano a guardare con simpatia ad un "archeologo" che riscopriva uno stile antico, che in certo qual modo li faceva sentire un po' più anziani, ma li rassicurava dopo anni di aperture distefanesche.
Non ho mai voluto far passare l'involuzione per evoluzione, anzi le tengo ben distinte. Semplicemente, non credo che il flusso della storia delle arti sia univoco, e non possa tornare indietro. Anche perché quasi sempre, chi si ispira ad un modello vecchio non riesce, pur provandoci, a copiarlo pari pari, e quindi a suo modo contribuisce a creare qualcosa di nuovo. Leopardi diceva che per rivoluzionare la poesia occorreva ispirarsi a quella greca, ma pur con questi propositi "reazionari", chi è stato più rivoluzionario di lui?
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda MatMarazzi » sab 07 nov 2009, 17:14

Carissimi,
tento una risposta cumulativa, complessa data la complessità degli sviluppi.

Rodrigo ha scritto:Trovo che una delle più grosse "deviazioni" estetiche è esprimere dei giudizi sulla base di criteri ideologici anziché strettamente artistici.


Questa, caro Rodrigo, è una premessa da incorniciare.
In passato (Maugham e Beckmesser lo ricordernno) ci si scontrò su una dura ri-valutazione dell'opera registica di Chéreau e in particolare su quel Ring a Bayreuth che fu (ed è tuttora) considerato da molti una di Big Bang del New Deal "sessantottino" dell'Opera.
In quell'occasione, allargando l'armgomento come stiamo facendo ora, io già censurai la tendenza a valutare l'oggetto artistico sulla base dei contenuti (più o meno affini al nostro credo). In quell'occasione, purtroppo, tu non eri ancora dei nostri, altrimenti mi avresti dato man forte.
Sono peraltro perfettamente d'accordo con te nell'osservare che molti dei nuovi prodotti interpretativi (anche operistici) emersi dalla contestazione sono stati approvati (più che censurati) per mere questioni ideologiche.
Esprimi questo? Allora sei arte (anche se la tua espressione è grottesca e rudimentale).
Esprimi altro? Allora non lo sei (anche se la tua espressione è quanto di più alto e "artistico" si possa desiderare).
Io rivendico, almeno nel nostro sito, la capacità di andare oltre gli schieramenti e concentrarci sul linguaggio, perché è dal linguaggio - e non dai contenuti - che si distingue l'opera d'arte.

Questa è indubbiamente una tendenza (viziosa) ricorrente, ma nel periodo "sessantottino" è stata presa per buona ed amplificata con effetti nefasti (e naturalmente ridicoli) non solo nella musica.


Verissimo! E sacrosanto.
Eppure... nel periodo sessantottino vi sono stati molti artisti che hanno anche cercato di costruire linguaggi nuovi ed estetica nuova, per meglio esprimere i loro concetti. Concetti che, peraltro, erano e talvolta sono in perfetta sintonia col nostro tempo.
Io ricordo che quando facevo sentire, vent'anni fa, ai miei compagni di liceo la Sutherland o la Tebaldi non suscitavo entusiasmi... (suona di vecchio, mi dicevano), mentre se mettevo la Kirby e la Von Otter con Gardiner e Hogwood rimanevano incantanti.
Cosa dovevo dedurne? Che la Sutherland e la Tebaldi valessero meno della Kirby e della Von Otter?
Sarebbe stata una sciocchezza.
O che i miei compagni liceali fossero idelogizzati al punto da rendersi conto che la Sutherland era l'Ancièn Regime mentre la Kirby la contestazione?? Ma andiamo!!! :)
No, l'unica e semplice verità era che la Kirby e la Von Otter (come Gardiner e Hogwood) erano più vicini al nostro tempo. E lo stesso dicasi del Posa di un Keenlyside rispetto a Bastianini, di una regia di Bondy rispetto a una di Visconti, della direzione di un Harnoncourti rispetto a quella di Krips.
Nessuno dei più giovani è "più bravo" dei vecchi, ma il loro linguaggio parla più facilmente al nostro tempo.
Questo significa che ...sforzi di "creazione" linguistica sono stati compiuti.
Da anti sessantottino, non posso non riconoscere che non ci si è limitati a salvare il tanto "brutto" (ideologicamente corretto) che in quegli anni si produceva, ma anche di inventarsi tanto "bello" (sempre ideologicamente corretto) forgiato su nuvoi linguaggi.

Un'altra caratteristica che ritengo propria dei periodi di "crisi" è il giocare un autore contro un altro o un'opera contro un'altra.

Su questo non sono d'accordo. La penso come Tucidide.
Anzi, la competizione, la dialettica serrata fra fautori dell'una o dell'altra tendenza è sempre segno di creatività.
Diciamo che nei momenti di crisi (dove solitamente si sviluppano tendenze egemoniche e aggressive anche in ambito artisto) la cosa risulta più odiosa.

Venendo a Beck

Beckmesser ha scritto:non ne facevo un discorso di valutazione dei risultati artistici, ma, come precisato, di metodo: ciò che mi lasciava perplesso era una ricostruzione di quegli anni volta a dipingere quella “scuola” come il malinconico orticello della provincia italiana, di cui all’estero non importava nulla a nessuno. Secondo me, è vero esattamente il contrario: il pubblico italiano arriva sempre un po’ (circa un ventennio) dopo. Negli anni ’60-70 in Italia si continuava ad insistere sugli epigoni di Di Stefano e Del Monaco, e Bergonzi veniva considerato con sufficienza.


Be' allora il tuo, permettimi la puntualizzazione, era proprio un discorso di "valutazione" e non di metodo. Ossia valutavi come erronea una tesi di Pietro: ossia che Bergonzi fosse, ai suoi anni, un prodotto del provincialismo italico, mentre all'estero...
Invece su questo punto sono d'accordo con te: la Storia ci dice cose ben diverse. Negli anni '60 e '70 Bergonzi godeva degli stessi successi in Italia e all'estero (e forse di più all'estero). Io però continuo a difendere il metodo perché in realtà ciò che forse Pietro non considera a sufficienza è che la "grande depressione" del ventennio 65-85 non è stata localizzata in Italia, ma un po' dappertutto... Che Bergonzi fosse idolatrato al Met o a Vienna mi conforta poco, dato che negli stessi teatri si inneggiava (in quegli anni) all'Isolde della Nilsson e alla Lucia della Sutherland.
Quindi fin qui ti do ragione (sulla valutazione, più che sul metodo).

Sono invece in assoluto disaccordo (ma può darsi che non abbia capito bene il tuo pensiero) nelle frasi successive.

In verità, più che di periodo di crisi, parlerei di periodo tipicamente manierista (parola che, preciso, per me non ha nulla di negativo)


E fin qui posso concordare, fermo restando che c'è manierismo e manierismo. Il manierismo può benissimo essere creativo e addirittura rivoluzionario, quando sfrutta il filtro del convenzionale insito in linguaggi vecchi per dire qualcosa di nuovo.
Non metterei sullo stesso piano il manierismo di una Magda Olivero o di una Elisabeth Schwarzkopf con quello di un Carlo Bergonzi.
Detto questo...

e non credo che la causa fosse la rivoluzione sociale del ’68, quanto quella artistica degli anni precedenti.

Qui proprio non ti seguo più.
Che il '68 sia stato un ciclone nel mondo dell'Opera è, credo, dimostrabile proprio dallo sviluppo delle tendenze posteriori alla crisi (tutte estiticamente afferenti all'estetica della contestazione). Ma ammetto che è una tesi originale da parte mia e che quindi ci sia lo spazio per approfondire il diabattito.
Quello che proprio non capisco è come si possa parlare di "crisi artistica" negli anni precedenti, ossia il ventennio seguito alla seconda guerra mondiale.
Io trovo che in tutta la plurisecolare storia dell'Opera siano stati rari i momenti più creativi, esplosivi, contraddittori, entusiasmanti.
Lì sì (mi riferisco a Rodrigo) che c'erano le battaglie! Basta ricordare i fischi al Wagner rivoluzionari di Wieland, al Verdi rivoluzionario di Karajan, le anche feroci opposizioni a casi come quello della Callas o persino della giovane Sutherland (che prima di divenire il monumento marmoreo e cotonatissimoo degli anni '70, sempre uguale a se stessa, era stata una ventata rivoluzionaria e non universalmente accettata negli ultimi anni 50, quando col suo canto originalissimo si era proposta al mondo).
Gli anni dal dopoguerra al 65 sono stati (insieme a quelli della Belle Epoque) i più vari e spettacolari per la storia dell'Opera.

In questo mi sento di dissentire da uno degli elementi della valutazione che fai di quel periodo: Bergonzi (e cito lui in quanto paradigmatico, ma il discorso vale per buona parte degli artisti che hai menzionato) non mi sembra abbia imboccato il comodo sterrato di perpetuare stancamente una tradizione morente. Il comodo sterrato (ossia la tradizione morente) in quegli anni era semmai quello rappresentato dalla rivoluzione degli anni ’50. Lui non ci si è accodato e ha preferito piuttosto provare a reinventare una tradizione ormai morta e sepolta. Ad orecchie, o meglio: a spettatori odierni il suo Verdi risulta indiscutibilmente riduttivo, ma il tentativo a me affascina… Sarà che in generale le epoche manieriste mi incuriosiscono più di quelle rivoluzionarie…


Veramente non ho detto proprio ciò che mi fai dire! :)
Lo so anche io che rispetto agli anni 50 (in cui pure Bergonzi era nato e di cui era stata una coerente espressione, poiché non tutti negli anni '50 declamavano) il Bergonzi successivo non fece una scelta facile e populista.
Nemmeno gli altri artisti che ho citato.
Ho detto che ...era l'atteggiamento del pubblico a essere cambiato.
Con la crisi (ossia gli anni '60) e la fuga dall'Opera delle nuove generazioni, il pubblico ha modificato la sua chiave di giudizio.
Ha cominciato a puntare al suono in quanto suono, al linguaggio in quanto linguaggio.
E questo ha permesso a Bergonzi di non essere più agli occhi del pubblico l'esponente di un certo modo di intendere Verdi (come era prima) che ha pieno diritto di asilo in un coaecervo di linguaggi, ma di diventare il "grado zero", il modo "giusto".
La stessa cosa che è successa con il Mozart di Boehm.
Se ci pensi, negli anni 50 e negli anni 60 il suo Così fan tutte non è cambiato di una virgola.
Ma negli anni 50 era una ventata di aria fresca (il pubblico lo viveva così), un anelito alla luce e alla smaterializzazione; negli anni 60 diventò invece per il pubblico l'emblema plumbeo e persino intimidatorio di un Mozart "giusto", di fronte al quale inchinarsi e tacere.
Ecco cos'è la crisi. Il diabattito, la crescita, la ricerca cedono il passo alle astrazioni estetiche; i suoni diventano "modelli" e il linguaggio non serve più la comunicazione, ma viene assunto come valore in se.
In questa temperie un Bergonzi (che negli anni 50 aveva il posto nello splendore generale) negli anni della crisi diventa il prototipo, ma non di un pensiero "manierista" (come affermi tu), bensì della pigrizia di un pubblico vecchio, demotivato, irritato, che ormai non cerca altro che la confortevolezza del già sentito.
Così almeno la vedo io.

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Re: Anni Ottanta

Messaggioda MatMarazzi » sab 07 nov 2009, 17:43

Tucidide ha scritto:Mentre i giovani degli anni '70 procedevano per la loro strada, i "vecchi", che erano i giovani di venti anni prima, oramai trovavano stantio e risaputo quello che avevano applaudito entusiasti in gioventù, e cominciavano a guardare con simpatia ad un "archeologo" che riscopriva uno stile antico, che in certo qual modo li faceva sentire un po' più anziani, ma li rassicurava dopo anni di aperture distefanesche.


La tua valutazione è simpatica, intelligente e verrebbe voglia di crederci! :)
Ma non è così, storicamente.
Lo stesso pubblico che idolatrava Bergonzi, idolatrava anche gli eredi di Di Stefano e di Del Monaco, che continuarono a mietere successi per lunghissimo tempo. Non erano forse un Domingo e un Carreras, ancora negli anni 70 e 80, continuatori delle rivoluzioni tenorili degli anni '50?
E non godevano di tripudi uguali a quelli di Bergonzi?
Cosa avevano in comune Domingo e Carreras con Bergonzi e Kraus?
Nulla a parte il fatto che tutti e quattro non rappresentavano alcuna rivoluzione, ma in fondo cose già sentite e approvate.
Il fatto è che in epoca di crisi il pubblico non fa scelte "archeologiche", almeno per me, semplicemente non sceglie.
Vuole solo ciò che ha già sentito, e poiché ciò che ha già sentito perde via via in forza emozionale lo vuole pure "esasperato".
Si instaura un meccanismo perverso, per cui l'opera, più è contestata per i suoi vecchiumi, più li esaspera.

Questa era la situazione fino a metà degli anni '80 e fino ad oggi (o per lo meno l'altro ieri) da noi.
Tu non sai quanti, fra i soci del Wanderer Club, mi confessano candidamente che trent'anni fa si sarebbero fatti scannare piuttosto che andare all'opera.
Oggi mi seguono nei teatri di tutto il mondo e verranno in 80 a vedere la Volpe Astuta a Firenze Ozawa - Pelly.
Loro sono convinti di essere arrivati ad apprezzarla oggi perchè sono "maturati".
E invece è il contrario: è l'opera che, rispetto a trent'anni fa, è cambiata; è semplicemente riuscita a cavarsi fuori da una delle peggiori crisi della sua storia.

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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Tucidide » sab 07 nov 2009, 21:29

MatMarazzi ha scritto:Lo stesso pubblico che idolatrava Bergonzi, idolatrava anche gli eredi di Di Stefano e di Del Monaco, che continuarono a mietere successi per lunghissimo tempo. Non erano forse un Domingo e un Carreras, ancora negli anni 70 e 80, continuatori delle rivoluzioni tenorili degli anni '50?
E non godevano di tripudi uguali a quelli di Bergonzi?
Cosa avevano in comune Domingo e Carreras con Bergonzi e Kraus?
Nulla a parte il fatto che tutti e quattro non rappresentavano alcuna rivoluzione, ma in fondo cose già sentite e approvate.
Il fatto è che in epoca di crisi il pubblico non fa scelte "archeologiche", almeno per me, semplicemente non sceglie.
Vuole solo ciò che ha già sentito, e poiché ciò che ha già sentito perde via via in forza emozionale lo vuole pure "esasperato".
Si instaura un meccanismo perverso, per cui l'opera, più è contestata per i suoi vecchiumi, più li esaspera.

D'accordo: se è per questo, c'erano anche i fan di Pavarotti, altro cantante non certo originale.
Diciamo che i melomani anni '70, reduci tutti dai favolosi anni '50, potevano essere "pentiti", diciamo revisionisti, e crogiolarsi nello stile-Bergonzi, oppure impenitenti, oltranzisti, e ricercavano in Domingo e Carreras, ma anche per certi versi Pavarotti, le emozioni di Pippo e Mario.
Si tratta pur sempre di approssimazioni e generalizzazioni, ovviamente.
Piuttosto, in Italia ma anche negli Stati Uniti, fra Domingo e Pavarotti si instaurò una certa rivalità di tifoserie, che non giunse forse all'arma bianca come per la Callas e la Tebaldi, ma che fu comunque specchio di una vivacità melomaniaca. Forse non fu crisi nera, fino in fondo... : Sailor :

Sulla questione del rinnovamento opposto alla maniera, butto là una riflessione, abbozzata in due e due quattro.
Nell'opera ci sono carriere brevi e carriere lunghe, per una serie di motivi lunga e non sempre spiegabile.
Mi vien da pensare che i cantanti che hanno fatto carriere brevi, diciamo di meno di vent'anni, hanno avuto meno possibilità di "ripetersi", di fare i "monumenti di sé stessi", di essere sempre uguiali a sé stessi.
Una come la Freni ancora negli anni '90, a sessant'anni suonati, cantava Mimì come quando aveva trent'anni di meno, e ovviamente era monumento di sé stessa. :D
Ma pensiamo alla Callas: se avesse avuto la fortuna di vivere più a lungo e di avere longevità vocale maggiore, avrebbe potuto cantare fino agli anni '80! :shock:
Secondo voi, avrebbe stupito il mondo anche a sessant'anni, o non sarebbe stata sempre la Callas che rifaceva sé stessa (come d'altronde faceva negli anni '60 con Tosca e Norma)?
Eppure, sono convinto che i callasiani degli anni '80 l'averebbero ascoltata in estasi ripetere le note di Norma, di Medea e di Tosca come trent'anni prima.
In fondo Domingo, per rinnovarsi, canta Simon Boccanegra: se invece cantasse ancora Cavaradossi... sarebbe monumento di sé stesso.
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda MatMarazzi » dom 08 nov 2009, 1:09

Tucidide ha scritto:Piuttosto, in Italia ma anche negli Stati Uniti, fra Domingo e Pavarotti si instaurò una certa rivalità di tifoserie, che non giunse forse all'arma bianca come per la Callas e la Tebaldi

E poi c'era la rivalità fra la Mina e la Carrà...
No, Tuc, non è davvero la stessa cosa...

Una come la Freni ancora negli anni '90, a sessant'anni suonati, cantava Mimì come quando aveva trent'anni di meno, e ovviamente era monumento di sé stessa. :D Ma pensiamo alla Callas: se avesse avuto la fortuna di vivere più a lungo e di avere longevità vocale maggiore, avrebbe potuto cantare fino agli anni '80! :shock:


Caro Tuc,
le ipotesi per assurdo hanno una regola ben precisa: fondarsi quanto più rigorosamente possibile sui fatti, altrimenti sono... (com'era quell'espressione che ti piaceva tanto?).
i fatti sono che la Callas, nei dieci-dodici anni di carriera che ha avuto, è riuscita a cambiare ed evolvere in modo semplicemente spaventoso.
Ha cambiato la tecnica, la visione psicologica dei personaggi, lo stile... Confrontare la sua prima Lucia o la sua prima Turandot a quelle di cinque, sei anni dopo lascia allibiti. Per capire con quanta facilità si sarebbe calata nella nuova estetica "contestatrice", basta vedere con quale naturalezza nel 1969 si è cimentata con il Cinema, e non (intendiamoci) un cinema normale, ma quello spoglio, dilavato, secco come la pietra eppure antico di PierPaolo Pasolini.
Nemmeno un'attrice professionista (prendi la Mangano che con Pasolini fece l'Edipo) avrebbe potuto mostrare una simile capacità di evoluzione.
L'ipotesi Freni, come vedi, non sta proprio in piedi! :)

L'esempio lo potevi fare, semmai, con la De los Angeles e la Schwarzkopf che continuarono a cantare fino agli anni '80: l'una e l'altra, creative e rivoluzionarie negli anni '50 (di cui respiravano l'aria), divennero manieriste e ripetitive nell'epoca di crisi: evidentemnte perché tale epoca non ha dato loro alimento per ulteriori sviluppi.
Da notare che l'una e l'altra si sono, proprio in quegli anni, ritirate dalle scene, consacrandosi alla musica da concerto. Evidentemente sentivano la crisi con più chiarezza di noi.

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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Tucidide » dom 08 nov 2009, 12:23

MatMarazzi ha scritto:L'esempio lo potevi fare, semmai, con la De los Angeles e la Schwarzkopf che continuarono a cantare fino agli anni '80: l'una e l'altra, creative e rivoluzionarie negli anni '50 (di cui respiravano l'aria), divennero manieriste e ripetitive nell'epoca di crisi: evidentemnte perché tale epoca non ha dato loro alimento per ulteriori sviluppi.
Da notare che l'una e l'altra si sono, proprio in quegli anni, ritirate dalle scene, consacrandosi alla musica da concerto. Evidentemente sentivano la crisi con più chiarezza di noi.

Con questi esempi, caro Mat, mi dai ragione, e ti ringrazio per avermeli suggeriti! :)
Io però, interpreto la cosa in modo diverso.
Verissimo: tanto la De los Angeles quanto la Schwarzkopf, cantando a lungo, dimostrarono di aver esaurito le idee. Il perché è ovvio. Erano sempre loro, somme cantanti, che si ripetevano: proprio come la Freni con le sue Mimì senili. Come Kraus, con i suoi Ernesto ed Edgardo. Come fu la declinante Tebaldi con le sue Bohème e i suoi Chénier americani. Come sta facendo Nucci, che in più non era un genio rivoluzionario nemmeno a trentacinque anni. Come succede a Domingo adesso, quando si lancia in improbabili Maurizio di Sassonia abbassati di un'ottava: sempre Domingo è... :)
Non concordo con la tua visione, ossia che fosse un problema di ambiente, che non forniva alla Schwarzkopf e alla De los Angeles gli stimoli per proseguire nella ricerca espressiva. E' che proprio avevano finito di dire quel (moltissimo, s'intende) che avevano da dire, e si ripetevano. Con intelligenza, dici bene, si dedicarono alla sala da concerto, proprio per questo motivo.
Anche la Callas dimostra questo. OK, non lanciamoci in ipotesi per assurdo, e restiamo ai fatti. :) Rivoluzionaria fino al Poliuto scaligero, anche lei poi si fermò, e non credo che il motivo fosse solo l'insorgere di problemi vocali. Le Tosche degli anni '60 sono impietose, da questo punto di vista, così come le Norme, e non per la vocalità, bensì per il codice espressivo. La somma cantante greca, invece di esplorare nuovi repertori e nuovi personaggi, restava sui suoi cavalli di battaglia, nei quali non aveva più nulla da dire. Guarda caso, con l'inusitata Carmen le cose andarono decisamente bene. Però fu un caso isolato. L'appassionante storia del progetto discografico di Traviata raccontata da Maugham è emblematica: che ti fa la Callas, a fine anni '60? Invece che sperimentare un personaggio nuovo, magari consono alle sue condizioni vocali del periodo, ti accetta di incidere Violetta! Se devo dire la verità, non piango per l'interruzione del progetto...

In fondo, Mat, io la vedo così.
Noi moderni - o modernisti :D - abbiamo un bel dire che gli artisti debbano rinnovarsi e sperimentare nuove soluzioni espressive: siamo abituati alla fruizione in disco, in DVD, e ci teniamo aggiornati su tutte le novità, bramandone sempre di nuove, in ossequio alla legge del rinnovamento e dell'evoluzione.
Ma geneticamente, il melomane non è così: per esempio, chi era giovane negli anni '30 avrebbe pagato oro per sentire gli ultime briciole di De Muro. Celletti raccontava di aver sentito proprio il tenore sardo nella Lucrezia Borgia, vecchio smesso, vocalmente appesantito e monumento di sé stesso. In quegli anni c'erano altri tenori, e De Muro era il passato remoto. Però il melomane che non aveva potuto sentire De Muro negli anni '10, si accontentava dei suoi brandelli senili, infischiandosene bellamente del loro vecchiume.
Questo è il motivo per cui ancora negli anni '90 la gente andava a sentire la Freni come Mimì: per sentirsela cantare come nel disco DECCA di vent'anni prima. E così facevano i callasiani negli anni '60 per le ultime improbabili Norme della Divina.
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda pbagnoli » dom 08 nov 2009, 13:25

Tuc, sto seguendo la discussione un po' a spizzichi ( sono al lavoro anche di domenica...groan... :( ), ma credo di aver capito il discorso di Matteo, che dice:
i fatti sono che la Callas, nei dieci-dodici anni di carriera che ha avuto, è riuscita a cambiare ed evolvere in modo semplicemente spaventoso

La Freni, cantante brava, precisa, corretta, ottimo esponente di un modo di cantare che ci è molto caro perché ci parla al cuore ed esalta i nostri sentimenti, non ha cambiato né rivoluzionato un bel nulla. Guarda che non do a questo aspetto una valenza negativa: di Callas ne nasce una ogni 100 anni e non ci puoi costruire una routine teatrale su questo tipo di apax. Però il paragone proprio non si pone nemmeno in cartolina.
Matteo dice anche un'altra cosa molto importante:
la De los Angeles e la Schwarzkopfcontinuarono a cantare fino agli anni '80: l'una e l'altra, creative e rivoluzionarie negli anni '50 (di cui respiravano l'aria), divennero manieriste e ripetitive nell'epoca di crisi: evidentemente perché tale epoca non ha dato loro alimento per ulteriori sviluppi.
Da notare che l'una e l'altra si sono, proprio in quegli anni, ritirate dalle scene, consacrandosi alla musica da concerto. Evidentemente sentivano la crisi con più chiarezza di noi

E questo è un aspetto essenziale: è il periodo storico che influenza in modo importante la creatività di un Artista che - ovviamente - sia in grado di coglierne i fermenti. In quello stesso periodo, gli Anni Cinquanta- Sessanta, ci furono anche tanti cantanti che cantarono bene se non benissimo, ma che si assestarono su una comoda routine che poteva servire per far funzionare una recita a teatro o una registrazione, ma che non avevano il guizzo del fuoriclasse, quello cioè che approfitta del particolare momento storico per reinventare il percorso esecutivo. Ma siamo sempre lì: di questi cantanti ne nasce uno ogni tot, il resto è onesta o onestissima routine.
Un esempio? Pronti. Cercando su youtube un po' di esecuzioni di "Otello", mi sono imbattuto anche in personaggi come Gianfranco Cecchele, Nunzio Todisco, Franco Bonisolli, Carlo Cossutta. Gente onesta, se non onestissima: in tempi più recenti abbiamo avuto anche Nicola Martinucci e Bepi Giacomini. Ieri, mentre sbuffavo in palestra, mi sono ascoltato Stephen Gould, forse un po' meno onesto ma palatabile. E qualche mese fa a Roma Muti aveva proposto il solito catramone dal nome di Alexandrs Antonenko.
Gente onesta, lo ripeto: cantano bene o benissimo, ma il tanto vituperato Mario Del Monaco stava da un'altra parte. Decisamente. O Vickers, se è solo per quello. E persino lo sbeffeggiatissimo Domingo, e ci riflettevo proprio ieri in palestra mentre sentivo l'atto secondo proprio di Gould, terribilmente in difficoltà di fronte ad una parte in fondo nemmeno particolarmente acuta e complessivamente meno lunga di uno di quei Siegfried che si è macinato a Bayreuth.

Pare scontato dirlo? Certo che sì!
A me pare improponibile paragonare la parabola artistica di una Callas che, come diceva Matteo, con tutti i suoi difetti e con una voce che decisamente non è piaciuta proprio a tutti gli appassionati, in dieci anni risicatissimi ha cambiato il modo di interpretare l'Opera Lirica tout court, con quella di un'onestissimo soprano lirico che ha cantato spesso splendidamente i ruoli che le sono stati affidati, ma che non solo non ha cambiato il percorso di detti ruoli, ma nemmeno ha dato una generica indicazione stradale.
Tuc, io sono un melomane discretamente navigato da anni di ascolti e da frequentazioni teatrali assolutamente nella media (non sono di sicuro all'altezza di Matteo, quanto a questo specifico aspetto). E tuttavia - o forse proprio per questo - non avrei mai mosso un dito per cercare di ascoltare una Mimì senile della Freni: vidi solo molto obtorto collo quella della Bohème del Centenario rimanendone talmente irritato da ripromettermi di mai più rovinare il bel ricordo che avevo della sua Mimì di venticinque anni prima con boiate analoghe.
Ma non è sempre così, ovviamente.
Mi sono commosso nell'ascoltare ogni singola nota del Tristan di Domingo.
Effetto dello star system? Non credo: non ci casco con la Freni, non ci cascherei nemmeno con Domingo, tant'è vero che mi sono sempre rifiutato di accostarmi al suo Figaro e - credo - mi terrò alla larga anche dal suo Simon Boccanegra.
Desiderio di rivivere le emozioni che provavo nel 1986 davanti al suo Otello? Nemmeno: quello fu magico e irripetibile, almeno nei miei ricordi.
La strana consapevolezza di trovarmi di fronte al Più Grande Tenore Wagneriano del Secolo? Nemmeno. Le sue ultime performances come Parsifal mi avevano lasciato freddino.
E' evidente che quindi ci sono altre ragioni: la voglia di ascoltare un ruolo pensato da da almeno vent'anni ma mai affrontato prima; il desiderio di capire cosa significhi affrontare per Domingo un ruolo del genere in vecchiaia; il raffronto con la più importante Isolde dei nostri tempi, e cioè Nina Stemme; l'idea che affrontando questo ruolo abbia lasciato il suo testamento spirituale d'artista.
Nulla, quindi, a che vedere con l'idea di ripercorrere le emozioni di venti o trent'anni prima.
Il che, me ne rendo conto, vale per me, ma non necessariamente per tutti gli appassionati.
Buona domenica!
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Tucidide » dom 08 nov 2009, 15:20

pbagnoli ha scritto:credo di aver capito il discorso di Matteo, che dice:
i fatti sono che la Callas, nei dieci-dodici anni di carriera che ha avuto, è riuscita a cambiare ed evolvere in modo semplicemente spaventoso

La Freni, cantante brava, precisa, corretta, ottimo esponente di un modo di cantare che ci è molto caro perché ci parla al cuore ed esalta i nostri sentimenti, non ha cambiato né rivoluzionato un bel nulla. Guarda che non do a questo aspetto una valenza negativa: di Callas ne nasce una ogni 100 anni e non ci puoi costruire una routine teatrale su questo tipo di apax. Però il paragone proprio non si pone nemmeno in cartolina.
...
A me pare improponibile paragonare la parabola artistica di una Callas che, come diceva Matteo, con tutti i suoi difetti e con una voce che decisamente non è piaciuta proprio a tutti gli appassionati, in dieci anni risicatissimi ha cambiato il modo di interpretare l'Opera Lirica tout court, con quella di un'onestissimo soprano lirico che ha cantato spesso splendidamente i ruoli che le sono stati affidati, ma che non solo non ha cambiato il percorso di detti ruoli, ma nemmeno ha dato una generica indicazione stradale.

D'accordo fino a un certo punto, ma comunque ci può stare.
Il punto però non è questo. Io non nego che la Callas sia stata più rivoluzionaria della Freni. Voglio però dire che già nei primi anni '60 la geniale Callas era diventata prevedibile, almeno nei ruoli che frequentava da molti anni, come Norma, Tosca e per certi versi anche Medea.
Questo perché non è facile, anzi è pressoché impossibile rivoluzionare e rivoluzionarsi per decenni, e non è solo un fatto di "vena", di creatività inaridita. Nel teatro c'è la componente della "ripetizione", che non si tiene in debito conto.
Prendiamo la Violetta della Netrebko, diciamo quella dello spettacolo di Decker. Il mondo intero ha ammirato questa bella creazione, pur con tutti i distinguo dati dal gusto personale. Questo, grazie al DVD, o a Youtube. Di fatto, è come se centinaia di migliaia di persone nel mondo fossero state presenti a Salisburgo. Se fossimo a cinquant'anni fa, se ne sarebe parlato, ma ancora decine di migliaia di appassionati nel mondo attenderebbero di ammirarla, e la avvertirebbero come una novità.
Adesso, anno di grazia 2009, sono passati quattro anni da quella Traviata, e quasi quasi ci sembra vecchia, e se la vedessimo in teatro con la stessa Netrebko, cominceremmo a dire: "sì, però, è sempre lei... non si evolve, è sempre uguale..." facendo l'immancabile confronto con il DVD.
Cinquant'anni fa, quelle stesse persone avrebbero avvertito quell'allestimento e quell'interpretazione come rivoluzionarie, a cinque, dieci anni dalla sua creazione, quando l'avessero vista per la prima volta.

Mi sono commosso nell'ascoltare ogni singola nota del Tristan di Domingo.

Sì, anch'io tantissimo! :) Grandissimo!
Ma quello è un Domingo che si è rinnovato (seppure solo in disco). Caso raro, come sarebbe potuta essere una Lidoine della Freni. :)
Spesso manca negli artisti la voglia di mettersi in discussione e di sperimentare.
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda pbagnoli » dom 08 nov 2009, 16:01

Tucidide ha scritto:
Prendiamo la Violetta della Netrebko, diciamo quella dello spettacolo di Decker. Il mondo intero ha ammirato questa bella creazione, pur con tutti i distinguo dati dal gusto personale. Questo, grazie al DVD, o a Youtube

E grazie, Tuc!
E perché avrei aperto questo sito, allora?
E' proprio perché era ora che qualcuno desse il giusto peso anche ai sistemi di conservazione della memoria, non solo quindi allo spettacolo di Venegono Inferiore cui si assiste solo per poterlo sputtanare :evil:
A parte gli scherzi, hai centrato bene il problema: è proprio la conservazione della memoria che ha permesso di creare i presupposti per poter ragionare a pieno titolo su questi argomenti
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda Pruun » lun 09 nov 2009, 11:21

Tucidide ha scritto:Adesso, anno di grazia 2009, sono passati quattro anni da quella Traviata, e quasi quasi ci sembra vecchia, e se la vedessimo in teatro con la stessa Netrebko, cominceremmo a dire: "sì, però, è sempre lei... non si evolve, è sempre uguale..." facendo l'immancabile confronto con il DVD.


Avevo letto, mi pare su Classic Voice del mese scorso, che la bella Anna aveva appunto rinunciato a una ripresa di questo allestimento proprio, secondo le malelingue, per evitare i confronti con se stessa.
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda beckmesser » lun 09 nov 2009, 11:51

MatMarazzi ha scritto:Detto questo...

e non credo che la causa fosse la rivoluzione sociale del ’68, quanto quella artistica degli anni precedenti.
Qui proprio non ti seguo più.
Quello che proprio non capisco è come si possa parlare di "crisi artistica" negli anni precedenti, ossia il ventennio seguito alla seconda guerra mondiale.
Io trovo che in tutta la plurisecolare storia dell'Opera siano stati rari i momenti più creativi, esplosivi, contraddittori, entusiasmanti.
Lì sì (mi riferisco a Rodrigo) che c'erano le battaglie! Basta ricordare i fischi al Wagner rivoluzionari di Wieland, al Verdi rivoluzionario di Karajan, le anche feroci opposizioni a casi come quello della Callas o persino della giovane Sutherland (che prima di divenire il monumento marmoreo e cotonatissimoo degli anni '70, sempre uguale a se stessa, era stata una ventata rivoluzionaria e non universalmente accettata negli ultimi anni 50, quando col suo canto originalissimo si era proposta al mondo).
Gli anni dal dopoguerra al 65 sono stati (insieme a quelli della Belle Epoque) i più vari e spettacolari per la storia dell'Opera.


In effetti, forse mi sono spiegato male: nella mia frase che hai quotato io non parlo di “crisi” ma di “rivoluzione”, e quello che intendevo dire è grosso modo (credo) quello che poi dici tu: dalla fine della seconda guerra mondiale a tutti gli anni ’50 ci fu l’apice di un processo di completo rivoluzionamento ( vocale, registico, musicale) del fenomeno “opera” che durava ormai da qualche decennio. Gli anni ’60 furono quello che per me è il periodo di crisi (ovvio, si semplifica: è chiaro che tutto non cambia alla mezzanotte del 1960…): sembrava che non si potesse andare oltre quanto a contenuti e ci si rifugiò in un manieristico chiudersi nella forma. In tale periodo Bergonzi propose la sua soluzione, che per quegli anni a me (ma è ovviamente mia personale opinione) sembra molto originale. In questo, a mia volta, non condivido o non capisco quando scrivi che :

MatMarazzi ha scritto:agli anni 50 (in cui pure Bergonzi era nato e di cui era stata una coerente espressione, poiché non tutti negli anni '50 declamavano)


secondo me Bergonzi con gli anni ’50 non c’entra nulla: non aveva nulla a che spartire con la ricerca portata avanti in quegli anni. Poi sono d’accordo, il ’68 cambiò tutto (anche se, come credo tu stesso riconosca, gli effetti del ‘68 nel mondo dell’opera si fecero diversi anni dopo), e allora Bergonzi, artista eminentemente a-storico, negli anni ’70 aveva ormai poco da dire…

pbagnoli ha scritto:E questo è un aspetto essenziale: è il periodo storico che influenza in modo importante la creatività di un Artista che - ovviamente - sia in grado di coglierne i fermenti. In quello stesso periodo, gli Anni Cinquanta- Sessanta, ci furono anche tanti cantanti che cantarono bene se non benissimo, ma che si assestarono su una comoda routine che poteva servire per far funzionare una recita a teatro o una registrazione, ma che non avevano il guizzo del fuoriclasse, quello cioè che approfitta del particolare momento storico per reinventare il percorso esecutivo. Ma siamo sempre lì: di questi cantanti ne nasce uno ogni tot, il resto è onesta o onestissima routine.


Secondo me assolutizzi in modo un filo eccessivo :) : non credo ci sia UN rivoluzionario e tutto il resto è routine… Sarebbe come dire che per tutto il ‘600 in pittura non ci fu altro che routine, dato che nessuno raggiunse il grado di rivoluzione di Caravaggio: la storia di un’arte è fatta di punti di svolta (e concordo, ne nascono pochissimi), di grandi artisti che perfezionano un dato linguaggio (recependo o rifiutando le grandi rivoluzioni, poco importa) e da onesti professionisti che applicano quel dato linguaggio. Ancora una volta: concordo in pieno che la Freni non può essere messa nella categoria della Callas, ma nemmeno in quella di Nunzio Todisco…

Saluti,

Beck
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Re: Anni Ottanta

Messaggioda MatMarazzi » lun 09 nov 2009, 13:24

beckmesser ha scritto:dalla fine della seconda guerra mondiale a tutti gli anni ’50 ci fu l’apice di un processo di completo rivoluzionamento ( vocale, registico, musicale) del fenomeno “opera” che durava ormai da qualche decennio. Gli anni ’60 furono quello che per me è il periodo di crisi (ovvio, si semplifica: è chiaro che tutto non cambia alla mezzanotte del 1960…): sembrava che non si potesse andare oltre quanto a contenuti


Gli anni '50, di cui sono contento Beck che stiamo cominciando a parlare con una certa sistematicità, non sono univoci.
E' questa la loro grandezza. Sono complessi e contraddittori.
Ciò che li unisce (dal punto di vista "operistico") è la creatività, la sinergia col presente, la considerazione in cui l'Opera (come genere d'arte) era tenuta da tutte le generazioni: tradizionalisti e beat generation, giovani e vecchi.
Non c'erano dal 45 al 65 intellettuali o persone comuni che affermassero "l'Opéra c'est de la merde" come avveniva negli anni '70.
Magari c'era chi irrideva a Toscanini ed esaltava Karajan, o chi irrideva a Wieland Wagner ed esaltava le scenografie di Fiume. Chi adorava la Tebaldi e detestava la Callas, ecc... ecc...
Ma qualcuno che dicesse "l'Opéra (in senso lato) c'est de la merde" non c'era.
Negli anni 70 invece erano centinaia di migliaia le persone a crederlo e ad affermarlo.

Quando parliamo di "crisi" secondo me dovremmo definirie meglio cosa intendiamo.
Da una parte c'è la crisi "valoriale" degli ultimi anni 50, i cui germi avrebbero nutrito il successivo 68. Questa, più che una crisi, era un "messa in discussione", un'ampliarsi dei punti di vista, un dialogare critico da parti opposte.
Chiamiamola "crisi di tipo A" che non investe tanto l'Opera, nè l'arte in generale (semmai le arricchisce), quanto piuttosto la società e i suoi valori.

Dall'altra parte c'è una crisi materiale dell'opera (caduta un buon decennio dopo, alla fine degli anni 60), un suo tracollo proprio in quanto genere, collegata alla feroce presa di distanza della nuove generazioni, il suo decadere a forma d'arte di serie B. Questa è la crisi non contenutistica, ma pratica, tencica, enonomica, artistica, gestionale. Crisi di forma e crisi di pubblico.
Chiamiamola "crisi di tipo B" ed è quella di cui finora ho parlato io.

Per meglio sottolineare quanto le due "crisi" (benché alla lunga collegate) non siano in realtà la stessa cosa, farei l'esempio col cinema.
Film come "Gioventù bruciata" o come "La Dolce Vita" sono manifesti di quella "crisi" di cui parli tu... in quanto negazioni dei valori post-bellici.
Ma non rappresentano affatto la "crisi" del cinema.
Anzi, sono la prova di come in quegli anni il cinema fosse vitale artisticamente: capace di esprimere posizioni contrarie, di attrarre pubblici di tutte le estrazioni e le età, dire e contraddire allo stesso tempo.

A livello operistico è stata la stessa cosa: almeno fino al 68, l'opera non ha conosciuto "crisi" del tipo B, anzi la sua salute era talmente buona che ci potevi trovare dentro tutto, persino quei germi "beat" ed esistenzialistici tipici della "crisi" del tipo A (di cui parlavi tu): ne ho fatto larga menzione sul mio articolo delle Eline Makropulos, quando parlavo delle Eline Lulu.
La crisi di valori (o per lo meno l'esistenza anche di questa componente) non metteva in discussione l'opera in quanto tale, come forma di spettacolo all'avanguardia e relazionato al presente.
Dieci anni dopo era tutto cambiato. L'opera era una carcassa...
Quella è la crisi di cui parlo io.

Veniamo a Bergonzi

secondo me Bergonzi con gli anni ’50 non c’entra nulla: non aveva nulla a che spartire con la ricerca portata avanti in quegli anni.


Eppure Bergonzi si forgiò negli anni post-bellici.
La sua tecnica (il suo canto forbito, "virgolettato" come disse felicissimamente Maugham, tecnicamente antico e pago del proprio vocalismo) non nacque come scelta di rottura negli anni '60, come risposta alla tua "crisi".
Nacque ben prima: all'alba degli anni 50.
E fu negli anni 50 che conobbe la gloria, prima nazionale, poi internazionale e discografica.
Gloria che "continuò" (è vero) negli anni 60 e 70, ma non era certo figlia loro: a quel punto era diventata solo un'espressione passata che stancamente veniva replicata.
Il pubblico "sopravvissuto" degli anni 70 amava Bergonzi e Kraus proprio in quanto replicanti.
Bergonzi e Kraus si trovarono bene in questa veste, reucci cinquantenni di un pubblico in crisi, mentre, come ho già detto, artiste più problematiche e culturalmente ricche (come la De los Angeles o la Schwarzkopf) negli stessi anni scelsero di ritirarsi alla carriera concertistica, comprendendo la gravità della caduta del genere.

Il nostro errore, se così posso esprimermi, è di prendere degli anni 50 solo le cose più appariscenti, quelle più "futuribili" e pensare che la rivoluzione di quel periodo d'oro sia consistita in questo.
Ma gli anni 50 erano un coacervo di tenendenze opposte: vi era spazio, come si è detto, persino per la critica, per la provocazione.
Anche in Italia c'era spazio per il neorealismo e per la negazione di esso.
E' in questa temperie che si fecero largo tanto Bergonzi, quanto Kraus.
E se anche, come abbiamo detto, essi divennero vent'anni dopo dei totem un po' sbilenchi per un pubblico demotivato e sfinito, negli anni 50 erano parte di uno dei grandi movimenti in atto.
Il recupero del vocalismo antico, volutamente altero e passatista applicato all'opera romantica italiana, se vuoi chiamalo pure "manierista" fu infatti un invenzione degli anni 50: rientrano in questa logica anche la Cerquetti, la giovane Gencer, anche certo Warren, il Corelli degli anni italiani (che veniva scritturato in Spontini, Bellini, Meyerbeer), ti dirò.... persino la giovane Callas e la giovane Tebaldi, o alla fine degli anni 50 l'esplodere clamoroso (dovuto a Serafin!) del caso Sutherland, persino il "lombardismo" da Piccolo Mondo Antico di Gavazzeni, persino (per paradossale che possa sembrare considerata la problematicità dell'uomo) l'estetica operistica di Visconti, fatta di grandi fondali, grandi filtri manieristici, recupero ottocentista e persino risorgimentale di una civiltà aristocratica di cui si sentiva il depositario.
Quel sogno di recupero, quel "manierismo" che tu attribuisci alla "crisi" era in realtà una tipica voce dei grandiosi anni 50, fresca e vivace (anche culturalmente) all'epoca.
Fu infatti in questo periodo d'oro che partirono la Bellini e Donizietti renaissance con recuperi che all'epoca avevano destato passioni indicibili, e che invece - già alla fine degli anni 70 - avevano esaurito la loro forza d'urto (diventando comodo terreno di caccia e di prevedibili successi per l'edonismo fiacco e melenso di primedonne che con la Callas, la prima Sutherland e la prima Gencer non avevano proprio nulla a che spartire).

Bergonzi negli anni 50 era l'esponente di una delle tante tendenze in atto, prova della vitalità dell'epoca.
Una tendenza che, nel pieno di un rigoglio di punti di vista opposti e interagenti, ci stava benissimo.
E' solo vent'anni dopo, nel clima plumbeo della crisi, che questo contributo perse in freschezza e divenne ripetitività, noia, stanchezza.
Così almeno pare a me.

Salutoni e grazie delle considerazioni sempre stimolanti,
Matteo
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