Rodrigo, complimenti come sempre.
I tuoi post affondano subito il dito nella piaga.
Affronti un bel po' di punti nodali a noi molto utili nella definizione della "crisi" di cui stiamo parlando (65-85), crisi che per me (lo ribadisco) è la peggiore che abbia conosciuto l'opera nel corso del '900.
Una crisi estetica anzitutto, indotta dall'avvento del '68, che però (come ogni crisi estetica) si è trasformata in crisi economica e gestionale.
Cali di vendite, cali di presenze, teatri disertati, prezzi ai minimi storici: basti dire che quello era il periodo in cui a Bayreuth si trovavano posti!
Ancora venticinque anni fa, e lo dico per esperienza diretta, trovare posto per una prima alla scala, spendendo pochissimo rispetto a oggi era facilissimo.
E' in quel periodo che i teatri hanno cominciato ad essere grandi macchine dello sperpero, a causa dei rossi spaventosi che accumulavano. E' quello il periodo in cui non ci si vergognava più di mettere dilettanti, parenti, politici in disarmo a capo di strutture che, tanto, erano considerate in perdita.
Gli illuminati direttori artistici del ventennio 45-65 sparirono. La Scala cominciò la sua lunga eclisse, dopo gli splendori di Ghiringhelli e Siciliani.
Naturalmente è stata anche una crisi artistica, la cui responsabilità (se così si può dire) è in buona parte degli artisti, come diceva anche Tucidide.
Ma come rimproverarli?
Nati e cresciuti in un'altra epoca (il dopoguerra), un'epoca splendente e all'insegna della rinascita (altro che ubriacatura, Tuc!), un'epoca carica di valori un po' troppo "borghesi" forse, ma giustificati dal bisogno di luce dopo la guerra, un'epoca che ha garantito quel benessere i cui frutti avrebbero per altro nutrito e ingrassato le illusioni e le ubriacature (quelle sì) del '68, gli artisti dell'opera si ritrovarono spiazzati.
E purtroppo il ricambio non fu immediato, come era stato col cinema e la musica pop.
Lì lo spartiacque del '68 spazzò via una generazione di artisti e la sostituì immediatamente con un'altra.
Nell'opera ci vollero dieci anni perché i primi frutti della generazione "contestatrice" cominciassero pallidamente a farsi vedere (il punto d'arrivo internazionale fu nel 1976 il Ring di Chéreau e Boulez).
Ma è solo dal 1985 circa che le nuove tendenze presero piede a livello internazionale (non in Italia ovviamente) e con risultati davvero grandiosi.
E' proprio ai sessantottini (finalmente approdati nei vertici dei teatri che contano, dove hanno dato prova di strepitose capacità) che è spettato il compito di salvare l'Opera dalla crisi che lo stesso '68 aveva generato.
E la cosa più curiosa... è che - a causa del ritardo di vent'anni - ciò è avvenuto proprio quando il '68 è entrato ideologicamente in crisi (dall'85 circa), ossia nel ventennio della grandiosa rivoluzione liberale che ha scosso tutto il mondo (dalla Russia, all'America, all'Europa, persino alla Cina) con forza ancora maggiore - anche se meno pubblicizzata - di quella che aveva scatenato il '68.
Se oggi l'opera è sana, salva, gode di ottima salute e rigurgita di fortissime personalità, dobbiamo ringraziare proprio i sopravvissuti del '68 e (mi si passi il termine) la loro organizzatissima lobby. Loro ci hanno messo le idee; la "rinascita economica" che la rivoluzione liberale ha portato ci ha messo i soldi.
Un'incongruenza?
Certo... una deliziosa incongruenza.
La stessa per cui questi post-sessantottini infarciscano le loro produzioni di cappottini sbiaditi quando loro hanno abiti firmatissimi, mettano ovunque la denuncia sociale e poi viaggiano con stipendi da nababbi, accusino la ricchezza dell'occidente e facciano pagare oro i biglietti degli spettacoli...
Certo... un'incongruenza di cui sorridere, che nasconde (ma questo è un pensiero mio) la debolezza ideologica di questi intellettuali.
Eppure grazie a questa incongruenza (forza estetica del sessantotto, forza economica degli anni '80) che l'opera si è aggiudicata vent'anni di ritrovato splendore, di spettacoli grandiosi, di generazioni di artisti strepitosi.
E qui rispondo brevemente a Tuc, che mi muove una (per me incomprensibile) obiezione.
"Ma tu non sei quello che disapprova il '68?"
E questo che c'entra?
Che influenza hanno le mie idee sulla storia?
Nessuna!
Quando leggo la Storia leggo fatti, non le mie idee.
E la Storia ci dice che il '68 è stato un ciclone, specie dal punto di vista estetico e artistico.
Ha nutrito generazioni sulla base di nuovi valori e ha cambiato il volto di quasi tutte le forme d'arte.
Se il '68 (e i suoi eredi) si fosse limitato a distruggere la tradizione operistica precedente, che effettivamente ha distrutto (benché fosse una tradizione meravigliosa, quella degli anni '50) allora me ne lamenterei.
Ma non è così: sia pure con vent'anni di ritardo, è stato proprio il '68 a risollevare l'opera dalla sua crisi spaventosa, a farvi penetrare la propria estetica, rivitalizzandone il linguaggio, ricucendo lo strappo con la contemporaneità, modificandone le prospettive, in pratica a riportarla in vita.
Ai sessantottini si deve l'esplosione della filologia esecutiva barocca e pre-barocca (che infatti fu uno dei primi passi della contestazione, in quanto negazione del costume "melodrammatico" tradizionale: i pionieri sono già dei primi anni '70, come dice Rodrigo, ma le conquiste vere e la piena adesione del pubblico sono dalla metà degli anni '80).
Sempre a loro si deve l'autonomia concessa al regista (anche in questo caso, i primi pallidi segnali sono stati negli anni '70, ma c'è voluto un altro quindicennio perchè gli abbozzi diventassero sostanza) che oggi eccitano e attirano il pubblico come le più grandi star del canto.
Ancora a loro si deve la diffusione del canto colorista, già esplorato negli anni '50 ma divenuto solo negli anni '80 espressione "critica" verso il canto tradizionalmente melodrammatico, vicinanza sempre più esplicita a quel "rock" che del '68 era stato il vessillo (ricordate la sparata di Mortier, nell'insediamento a Salisburgo? "Meglio Michael Jackson che Pavarotti")
Ma soprattutto ai sessantottini si deve un radicale ripensamento del repertorio, che ha sì il suo centro in Mozart e Wagner (e per concessione Verdi) ma che ruota attorna alla valorizzazione di un repertorio ben preciso (e sempre anti-melodrammatico in senso classico) i cui esponenti privilegiati sono Britten, Janacek, Prokof'ev, Shostakovic, ma anche Monteverdi, Handel, Cavalli, autori che - è vero - erano eseguiti anche prima, ma che dall'85 in poi hanno assunto una fisionomia, una frequenza di esecuzioni e una popolarità completamente diverse.
Tengo per ultimo il fenomeno della Rossini Renaissance e della Fondazione di Pesaro (i cui frutti sono a loro volta esplosi nella seconda metà degli anni '80). Anch'esso porta il marchio del '68 e una di queste volte vedremo il "perchè" Rossini risultò più vicino al '68 di Donizetti e Bellini (le cui "rinascite" invece conobbero una certa eclissi).
Insomma, a parte i generosi e strani tentativi di Tucidide di far passare l'involuzione per evoluzione, è certo e inconfutabile che i migliori "atout" di quella splendida stagione operistica che stiamo vivendo (1985-2005) si devono alla tardiva egemonia operistica dell'estetica sessantottina.
Anche un anti-sessantottino come me deve riconoscere con gratitudine che l'opera era morta (nel ventennio precedente) e loro l'hanno riportata in vita.
Poi, è ovvio, ogni epoca, ogni estetica, anche quella più vincente, ha le sue ombre.
E anche l'era dei postsessantottini ha le sue: ad esempio il malcelato disprezzo (culturale e sotto sotto ideologico) per tutto ciò che è l'800 pre-Wagneriano, in particolare l'opera-borghese e popolare italiana e francese. L'oblio verso un Meyerbeer, la sufficienza con cui Donizetti viene lasciato alle divastre o Massenet ai divastri, lo scarso interesse persino per Weber, Auber, Mayr, sono elementi gravissimi... così come il non curarsi per nulla delle specificità linguistiche di Verdi, Bizet, Cajkovsky... "nobilitati" (in realtà traditi e malmenati) da linguaggi adatti ad altra drammaturgia, che secondo loro sarebbe più intellettuale.
Non parliamo (anche perché ne abbiamo parlato già tante volte) dell'odiosa sufficienza con cui viene trattato l'operismo italiano e francese protonovecentesco (solo parlare di D'Annunzio dà l'orticaria a molti intellettuali di quelle leve).
Da tanti segnali si vede che la gloriosa epoca dei "post-sessantottini" (a cui ribadisco va tutta la mia gratitudine) sta volgendo al termine.
Il fallimento di Lissner alla Scala, quello di Mortier a Parigi sono già segnali rivelatori.
Gli slanci in avanti delle più avanzate frange di appassionati (che reclamano sempre più opera ottocentesca) o dei registi più amati di oggi (i Carsen, i Jones, ormai completamente al di fuori della logica sessantottarda) per non palrare dello strano fenomeno del "mito del tenore", osteggiato dai sessantottini e ora tornato prepotentemente alla ribalta, sono tutti segnali che qualcosa sta cambiando.
Ci avviamo a una nuova fase, a cui anche noi - semplici appassionati - possiamo contribuire.
Per esempio, come già dicevo, invitando i grandi vecchi (in senso culturale) come Lissner a lasciare il campo alle nuove generazioni. Ora è venuto il loro turno di esserre definiti "matusa". Purtroppo però sono più abbarbicati loro alle loro poltrone di quei "baroni" che alcuni decenni fa gambizzavano.
Spero di aver chiarito meglio il mio pensiero, e di aver fornito alcune possibili risposte alle considerazioni mosse da Rodrigo.
Salutoni,
Mat