Da “Il caso Wagner” di Nietzsche
„Ho assistito ieri – mi credereste? – per la ventesima volta alla rappresentazione del capolavoro di Bizet. Ancora una volta ho perseverato fino alla fine in un dolce raccoglimento; ancora una volta non sono fuggito. Questa vittoria sulla mia impazienza mi stupisce. Come vi rende perfetto un’opera siffatta! A sentirla si diventa un «capolavoro». E in verità ciascuna volta che ho sentito Carmen mi è sembrato d’essere più filosofo, miglior filosofo che nei tempi ordinari: divenivo così indulgente, così felice, così tranquillo… Restar seduto cinque ore: prima tappa verso la santità! E posso dire che l’orchestrazione di Bizet è quasi la sola ch’io tolleri ancora. Quell’altra orchestrazione, che tiene oggi il primato, – quella di Wagner – brutale, e nello stesso tempo artificiosa ed ingenua, la qual cosa le consente di parlare ai tre sensi dell’anima moderna – ah, quanto mi è nefasta! La paragono al vento di scirocco. Un sudore contrariante si spande sopra me: e addio buon umore del bel tempo. Cotesta musica di Bizet mi pare perfetta. Avanza con un incedere leggero, agile, composto. E’ amabile. Non mette in sudore: «Tutto quel che è buono è leggero, tutto quel ch’è divino corre su piedi lievi»: prima tesi della mia Estetica. E’ una musica perfida, raffinata, fatalista: resta tuttavia popolare, – la sua raffinatezza è quella d’una razza, non di un individuo. E’ ricca. E’ precisa. Costruisce, organizza, s’adempie: per ciò forma un contrasto col polipo nella musica, con la «melodia infinita». Si sentiron mai accenti più tragici, più dolorosi, sulla scena? E come sono ottenuti! Senza smorfia! Senza falsa caricatura! Senza la menzogna del grande stile. Cotesta musica, insomma, suppone l’auditore intelligente, anche se è musicista; ed anche in questo è l’antitesi di Wagner, che, quale che sia per il resto, era il genio più mal imparato del mondo. (Wagner ci prende per – -; dice una cosa fino a far disperare; fino a che ci si creda). E ancora: io mi sento diventar migliore quando questo Bizet mi parla. Ed anche miglior musicista, miglior autore. Sarebbe possibile ascoltar meglio? Il mio udito si profonda in quella musica; ne percepisco le origini. Mi par di assistere al suo nascere; tremo ai pericoli che accompagnano non importa quale audacia; sono incantato dai felici trovamenti dei quali Bizet è inconsapevole. E, cosa curiosa! In fondo io non ci penso, o meglio ignoro fino a qual punto io ci pensi. Giacché pensieri svariatissimi mi traversano il cervello in quel momento… Avete mai pensato che la musica rende lo spirito libero? Ch’essa dà le ali al pensiero? Che si diventa tanto più filosofo per quanto si è più musicista? Il cielo grigio dell’astrazione par solcato dal fulmine; la luce diventa intensa abbastanza per cogliere la «grana» delle cose; i grandi problemi si fanno abbastanza prossimi per esser colti; abbracciamo il mondo come se fossimo sull’altitudine di una montagna. In questo io ho appunto definito il phatos filosofico. E, senza ch’io me ne accorga, sorgono risposte nel mio spirito, (una piccola grandinata di ghiaccio e di saggezza) di problemi risoluti… Ove sono? Bizet mi rende fecondo. Tutto ciò che ha valore mi rende fecondo. Non ho altra gratitudine; non ho altra prova del valore d’una cosa. L’opera di Bizet, anch’essa, è redentrice. Wagner non è il solo «redentore». Con quell’opera ci si congeda dal nord umido, da tutte le brume dell’ideale wagneriano. Già l’azione ce ne sbarazza. Essa tiene anche di Mérimée la logica nella passione, la linea retta, la dura necessità. Possiede innanzi tutto quel ch’è proprio dei paesi caldi, la secchezza dell’aria, la sua limpidezza. Eccoci, in ogni senso, sott’altro clima. Un’altra sensualità, un’altra sensibilità, un’altra serenità vi si esprimono. Questa musica è gaia: ma non d’una gaiezza francese o tedesca. La sua gaiezza è africana; la fatalità fluttua sovr’essa; la sua gioia è breve, subitanea, senza scampo. Invidio Bizet poi ch’egli possiede il coraggio di cotesta sensibilità; una sensibilità che finora non avea trovato espressione nella musica dell’Europa incivilita; – voglio dire quella sensibilità meridionale, infocata, ardente… Che bene ci fanno gli occasi dorati della sua gioia! Il nostro sguardo va lontano: abbiamo mai visto il mare più unito? E come ci par riposante la danza moresca! Come la sua melanconia lasciva giunge a soddisfare i nostri desideri insoddisfatti sempre! E’ l’amore, infine, l’amore rimesso al posto suo nella natura! Non l’amore della «fanciulla ideale»! Nessuna traccia di «Senta-sentimentalità»! Ma l’amore in quanto in esso v’ha d’implacabile, di fatale, di cinico, di candido, di crudele, – ed è in questo ch’esso partecipa della natura! L’amore per il quale la guerra è mezzo, e l’odio mortale dei sessi è fondamento! Non conosco alcun caso ove lo spirito tragico che è l’essenza dell’amore s’esprima con un’asprezza simile, rivesta una tanto terribile forma come in quel grido di Don Josè che chiude l’opera:
Oui, c’est moi qui l’ai tutèe
Carmen, ma Carmen adorèe!
Una tal concezione dell’amore (la sola che sia degna del filosofo) è rara: distingue un’opera d’arte fra mille. Poiché in generale gli artisti hanno lo stesso torto di tutti gli altri: disconoscono l’amore. Anche Wagner l’ha disconosciuto. Credon d’essere generosi in amore perché vogliono il vantaggio di un altro essere spesso a spese del lor proprio interesse. Ma, in compenso, vogliono possedere quell’altro essere. Dio nemmeno fa eccezione in questo. E’ lungi dal pensare: «Se io t’amo, ciò non ti riguarda». Egli diventa terribile quando non è contraccambiato. L’amore – con questa parola si vince la propria causa presso Dio e gli uomini – è di tutti i sentimenti il più egoistico e, per conseguenza, quando è ferito, il meno generoso. (B. Constant)”
Ieri sera ho guardato (per poco a dire la verità, ma l´ho videoregistrata in attesa di tempi migliori, o semplicemente di più tempo), la Carmen nella regia di Tcherniakov, da Aix-en-Provence. Non l´ho guardata tutta, e quindi non me ne sono fatto un´idea completa. Però vedendo il primo atto non ho potuto fare a meno di pensare al celebre brano di Nietzsche che ho riportato qui sopra. La regia di Tcherniakov non aveva nulla del passo “leggero, agile, composto” con cui Carmen (nella visione di Nietzsche) dovrebbe incedere. Nessuna “sensibilità meridionale, infocata, ardente”. Ora, forse può aver senso riflettere in termini di “Nietzsche contra Wagner”. Ha invece meno senso pensare ad un “Tcherniakov contra Nietzsche”. Anche perché la “mediterraneità” della Carmen di Nietzsche è forse più ideale (o ideologica) che reale. Però mi domando se, in fondo, alcuni approcci registici non siano in qualche modo più adatti ad alcune opere in particolare e non ad altre. Penso al Trovatore, sempre nella regia di Tcherniakov. Regia formidabile, ma forse più supremo esercizio di tecnica registica e drammaturgia applicata all´opera dall´esterno che regia nata a partire dall´opera stessa. Forse la tragica, bruciante, immediata linearità di Carmen o di altre opere del grande repertorio italiano non si presta (o si presta meno) ad una regia concettuale (come esposizione di un Konzept registico) rispetto, ad esempio, alle complessità psicologica di alcune opere del repertorio barocco, wagneriano, post-romantico o novecentesco.
DM