I miti di Celletti

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I miti di Celletti

Messaggioda stecca » mer 07 apr 2010, 9:38

Lella Cuberli & Martine Dupuy

I meno giovani come me ricorderanno certamente di quando il grande vate degli anni ottanta stabilì e decise che in mezzo ai tanti semi-dilettanti del canto resi famosi dalle famigerate multinazionali del disco, due sole (o quasi) voci femminili svettassero di gloria eterna, ed erano il soprano americano Lella Cuberli ed il mezzo-soprano marsigliese Martine Dupuy, entrambe “adottate” dal nostro in occasione di un concorso per voci rossiniane e mai più abbandonate.
Il vate, come sempre i meno giovani ricorderanno, faceva ai tempi parecchi proseliti tra i cd. cultori del canto corretto (quello che oggi trova usbergo sul corriere della Grisi) e pertanto in breve tempo il duo citato divenne una sorta di icona dei più fanatici rossiniani, quasi una sorta di manifesto della rivoluzione anti-Oscar contro lo strapotere delle major, al punto che ogni loro alternativa veniva fatta per ciò stesso bersaglio di contestazioni e di lazzi spesse volte pure preconcetti, Ricciarelli e Valentini-Terrani tra tutte ma non solo... in pratica solo l’inattaccabile magistero della storica coppia Sutherland/Horne ne andò immune, anche perché in quegli anni non cantava più o quasi quel repertorio.
Tutt’oggi le varie Ganassi, Barcellona, Bartoli et similia pagano lo scotto di osare dove loro fecero…capita vd, Callas in poi, coi “vedovi” di varia natura.
I miti del passato, anche di quello più recente, sono necessariamente destinati ogni venti o trent’anni ad una giusta rivisitazione, alle volte (ed è il caso di un Di Stefano o di un Cappuccilli o di un Pavarotti per esempio) per uscirne più valenti di prima, alle volte (ed è il caso di un Carreras o di una De Los Angeles) per uscirne un tantino ridimensionati rispetto al ricordo di allora, oppure, ed è quello che ci si augura, per confermarsi ancora saldamente miti (ed è il caso di gente come Callas, Sutherland o Kraus).
Le due signore in questione all’ascolto di oggi mostrano invece pregi e difetti che andando tanto di moda la vivisezione al microscopio delle voci sia odierne che dei tempi che furono proprio tra i loro più sfegatati fans, vale la pena di quivi riassumere per i meno giovani attraverso quello che le copiose registrazioni ci hanno lasciato.
Si trattava di due stiliste impeccabili e di due vocaliste eccelse e questo è fuori discussione e non a caso le prime edizioni ancora pionieristiche del festival di Pesaro le videro in prima fila in quel meritevole recupero della giusta rilettura del Rossini soprattutto quello serio che fu il principale evento operistico degli anni ottanta.
Personalmente mentre provai autentiche estasi uditive di fronte a quei veri e propri prodigi di agilità che sciorinava la Cuberli nel Viaggio a Reims o in uno dei suoi tanti Tancredi ove la sua compassata e come giustamente disse qualcuno canoviana celeberrima e mai più superata Amenaide surclassava quasi sempre il protagonista en travesti, fui sempre assai meno “travolto” dal parallelo fenomeno Dupuy.
Trovavo insopportabile quel timbro così arido e povero di armonici che mi faceva sempre rimpiangere in certi ruoli le screziature malinconiche di una Valentini (vd. Cenerentola o Donna del lago) ed in altri i funambolici scoppiettii multicolore di una Horne (Semiramide o Italiana in Algeri) e persino le plateali forzature tutto adrenalina di una Verrett (Assedio di Corinto), nè amavo troppo quel suo ostentato registro acuto che per mio conto volgeva spesse volte al grido.
Onestamente se oggi si prende la incisione della scaligera Donna del lago di Muti le pur valide intenzioni della stilista (celebre per le sue variazioni acute) non paiono sostenute da adeguato materiale vocale ed il suo Malcom risulta all’odierno ascolto davvero deludente per non dire brutto assai, ma anche, per restare nelle numerose registrazioni live degli anni d’oro, il suo celebrato duettone di Isabella esce oggi surclassato da quello che la strepitosa Horne incise per la Erato (io la vidi a Venezia nel 1984 con Ramey ed era una iradiddio).
Insomma quando si ascolta la Dupuy si ha sempre la impressione che ella ci mostri come si dovrebbe cantare ma che poi a farlo ci vorrebbe una…altra voce rispetto alla sua, per non parlare di quando si avventurava fuori Rossini dove davvero era poca cosa, visto che al suo Maffio Orsini bolognese io c’ero e dire che non mi colpì in un solo punto è benevolo (sentire Verrett on disco RCA pliis) e così pure metto tra i premi noia 1980 e seguenti il suo noiosissimo e reiterato Romeo dei Capuleti belliniani.
Diverso come dicevo il caso Cuberli che aveva voce neutra nel senso che non era né bella né brutta e che era soprattutto una grande signora e di grande classe con una straordinaria facilità nell' eseguire le terzine rossiniane che parevano essere state scritte per lei.
Però anche la Cuberli aveva qualche difettuccio che le impedì di passare alla storia come altre prima e dopo di lei, ed erano non tanto il volume assai ridotto della voce ma soprattutto quella clamorosa inerzia interpretativa e quella altrettanto clamorosa mancanza di differenziazione degli accenti.
I suoi recitativi (lo riconobbe anche il vate) erano “mortali”, ricordo un Lucio Silla in Scala eseguito da padreterno nei cantabili ma di noia micidiale nel resto, e come ho già detto in altra sede prendiamo la grande scena di Ermione del suo bellissimo recital Fonit Cetra. La intera scena dura, si sa, poco meno di 20 minuti dal “Essa corre al trionfo” al “se a me nemiche stelle” e onestamente i suoi primi 18 minuti richiedono una tonnellata di caffè nero forte per restare desti fino al brioso finale eseguito da padreterno, e così pure il cantabile malinconico del belliniano Bianca e Fernando “Sorgi o padre” è così monocorde che alla lunga (ed anche alla corta !) ti vien voglia di cambiare disco.
Insieme cantarono moltissimo, ma la loro Semiramide ha gli stessi difetti (e pregi) del Bianca e Falliero pesarese che fatto il giusto plauso alla correttezza di tutte le note emesse lasciò però meno soddisfatti del precedente dell’anno prima seppure meno esatto, e poi aggiungo che la Cuberli, proprio perché fu la migliore Amenaide di sempre, aveva voce del tutto inadatta (per volume, colore, accento etc.) alla regina assira che ella cantava appunto da gran signora scivolandoci sopra come se intrattenesse un salotto bene per un suo saggio di fine corso.
Anche la sua Fiorilla della edizione pesarese del Turco mostra che alla grande cantatrice si accompagnava una ben modesta interprete perché bisogna proprio non avere capito nulla del personaggio per cantare il secondo (ma anche il primo…) duetto con Ramey (pure lui serioso anziché no) come se fosse un andante austero di Handel…ma la Callas l’ha sentita la signora ? Mah…
Durarono di base un decennio, non molto per essere come diceva Celletti le migliori cantanti del mondo (il suo vituperato Domingo, a suo dire “finito” nel 1970, canta ancora….), però vanno loro riconosciuti alcuni momenti rossiniani di grande rilievo, poi la Scala scippò alla Cuberli la prevista inaugurazione del Guglielmo Tell a favore della Studer e bene avrebbe fatto a scippare anche alla Dupuy quella bruttissima Donna del lago che credo sia la sua unica incisione ufficiale che di certo non le rende giustizia, in ogni caso poco dopo sparirono abbastanza rapidamente dalla circolazione.
Brave e pure importanti ma non due cantanti storiche insomma, checchè ne abbiano detto e ne continuino a dire oggi i pochi figli e i tanti figliastri del compianto vate seppellendo di palate di non dico cosa tutte quelle che si azzardano incautamente ad eseguire Rossini dopo queste due.
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Re: I miti di Celletti: Cuberli e Dupuy

Messaggioda Milady » lun 12 apr 2010, 20:58

Carissimi amici, e carissimo Stecca,
ricordo bene le fegatose stroncature di Celletti come pure i suoi fiammeggianti inni in lode di Lella Cuberli e Martine Dupuy.
Naturalmente , dopo il bombardamento stile Dresda , effettuato dal vate su cantanti da me amatissimi, ero molto ansiosa di ascoltare dal vivo queste cantanti super super : e mi attendevo "mirabilia".
Le occasioni sono state solo due.Un po' poco ,direte giustamente , ma una idea me la sono fatta.
Ascoltai la Cuberli in un concerto alla fine del quale i suoi ammiratori americani lanciarono dal loggione molte corone d'alloro misto a fiori che caddero principalmente sulla testa degli sfortunati ascoltatori della platea.Esecuzione impeccabile, correttissima, levigata , ma distaccata , gelida:il suo canto non trasmise nessuna emozione non solo a me , ma anche a molti altri, che rimasero delusi e trovarono incongrui i lanci di cui sopra.
Ascoltata come Amenaide,in CD ,invece, lo riconosco, è stata magistrale e inarrivabile.
Ebbi modo di ascoltare la Dupuy nell'"Assedio di Corinto".
A parte il fatto che portava la spada con un palpabile disagio -onestamente come fosse una normale scopa- la voce suonava arida e le sue pur irreprensibili agilità non avevano il risalto dovuto , tanto è vero che non ricevettero molti applausi dagli spettatori.Molto probabilmente debbo essere incappata in una serata no.Anche in questo caso non fui la sola a restare delusa: ci furono degli scontenti , parzialmente, ma scontenti persino nella schiera dei cellettiani di ferro.
Mi è capitato in seguito di ascoltare queste due brave cantanti in CD o su Youtube : l'impressione è stata molto migliore. Sono state capaci di fare cose magnifiche, ma ho avuto l'impressione che vi fosse in ambedue una carenza di vera personalità sul piano dell'interpretazione.
Con simpatia
Milady
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I miti di Celletti (parte seconda): Raffanti e Morino

Messaggioda stecca » mar 13 apr 2010, 8:35

I miti di Celletti (parte seconda): Raffanti e Morino
I meno giovani come me ricorderanno certamente di quando il grande vate degli anni ottanta stabilì e decise che in mezzo ai tanti semi-dilettanti del canto resi famosi dalle famigerate multinazionali del disco, due sole (o quasi) voci femminili svettassero di gloria eterna, ed erano il soprano americano Lella Cuberli ed il mezzo-soprano marsigliese Martine Dupuy dei quali si è già avuta occasione di parlare nella precedente puntata http://www.operadisc.com/forum/viewtopic.php?f=2&t=1234
Allo stesso modo Egli sentenziò e dispose che anche in campo tenorile i vari ed amatissimi Di Stefano, Del Monaco, Domingo e Carreras fossero una sorta di gigantesca "sopravvalutazione" mediatico-commerciale irta di insanabili quanto inaccettabili difetti, e che solo due assai meno celebrate voci meritassero il plauso degli eletti e così nacquero i miti di Dano Raffanti prima e di Giuseppe Morino dopo.
Come nel caso delle due signore citate anche per loro fu per ovviamente il sacro e devoto agli Dei feudo incontaminato di Martina-Franca il trampolino da cui lanciare le due nuove leggende, e se per il primo fu il Barbiere rossiniano di cui venne seduta stante divulgata la incisione in disco prontamente evidenziata dal sommo in quel “Qual trionfo inaspettato” finale che divenne la nuova cartina tornasole per distinguere il bravo Lindoro dalle scialbe imitazioni, per il secondo venne messa in piedi una integrale quanto interminabile Semiramide che in breve tempo si trasformò nella nuova icona del riscoperto Idreno, e poco importò ai devoti che il restante cast in entrambi i casi sfoggiasse notevoli lacune (basti pensare al Figaro di Portella o alla stessa Semiramide della Aliberti…) perché fatto si è che da quel momento non passava giorno in cui non si citassero con malinconico rimpianto i due suddetti ad ogni altra apparizione tenorile, ed i suddetti vennero dunque in breve tempo ed a fuoror di cellettiano popolo lanciati in repertori assai più vasti.
Tra i due peraltro vi erano alcune notevoli differenze di partenza nel senso che mentre Raffanti sfoggiava un timbro vocale tra i più appaganti quanto a bellezza del colore, la natura invero "caprina" del suono "misto" emesso ad ogni quota dal secondo lasciava a primo ascolto alquanto interdetti, mentre di contro il secondo mostrava una propensione belcantistica unita ad una estensione acuta che il primo di certo non aveva.
Muti scelse Raffanti per la sua (noiosa) incisione dei Capuleti ed il festival di Pesaro invitò il Morino, del quale io stesso ebbi modo di ascoltare a Martina Franca un notevole Pescatori di Perle, a completare quella irripetibile terna tenorile che sbancò nell’Ermione del 1987, insomma sembrava che l’olimpo lirico avesse dischiuso il ciel a queste due nove stelle del firmamento, poi però accadde ed in breve tempo qualcosa, nel senso che entrambi i nuovi miti presero rapidamente la strada dell’oblio.
Raffanti infatti inanellò una serie di recite sfortunate (vd. anche l’assedio di Corinto in francese) e Morino ogni volta che faceva capolino fuori dal suo regno di appartenenza rischiava con quel modo di cantare e con quella voce la contestazione (celebre quella napoletana alla sua Lucia donizettiana).
Fa strano pensare che oggi, ovvero dopo quasi vent’anni che si son perse le tracce dei due suddetti il vituperato Placido Domingo dato finito dal sommo vate vent’anni prima che costoro principiassero, canti ancora…forse e a ben pensare che la “sopravvalutazione” non riguardasse tanto lui ???.
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Re: I miti di Celletti (parte seconda): Raffanti e Morino

Messaggioda teo.emme » mar 13 apr 2010, 13:16

...che noia....
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Re: I miti di Celletti (parte seconda): Raffanti e Morino

Messaggioda Tucidide » mar 13 apr 2010, 13:52

Il bello è che Stecca si dichiara estimatore di Celletti. Figuriamoci se fosse un detrattore... : Chessygrin :
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
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Re: I miti di Celletti (parte seconda): Raffanti e Morino

Messaggioda dottorcajus » mar 13 apr 2010, 15:57

Ho avuto modo di ascoltare Morino cantare sia prima che dopo la cura Celletti. Non mi piacque prima poco mi piacque dopo.
Mancava della dovuta personalità per affermarsi con quel particolare metodo di canto. Prima della cura Celletti ricordo un cantante non molto intonato, nè particolarmente dotato.
Diverso invece il caso Raffanti. Purtroppo era un cantante vittima della sua incredibili ed insanabili paure che ne condizionavano le esibizioni canori e che lo spinsero presto ad abbandonare le scene.
Ebbi modo di ascoltarlo in teatro anche quando riusciva a vincere le paure e ne conservo un ottimo ricordo. Purtroppo vi furono anche le altre serate.
Roberto
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Re: I miti di Celletti

Messaggioda Milady » dom 18 apr 2010, 18:51

Amici carissimi,
so bene di cantare fuori dal coro, almeno per uno dei due miti tenorili incensati e portati agli onori degli altari da Celletti.
Parlo di Morino , e, in questo caso, mi pare che sia evidente la diversa recezione del suono da parte dei diversi ascoltatori.
Non mi ha mai dato noia il vibrato stretto o chévrotant di Morino. Anzi ,rimasi assai favorevolmente impressionata dal suo Pirata come della sua prestazione napoletana come Edgardo in Lucia di Lammermoor.Ebbi l'impressione dell'affascinante - per me- ritorno di una voce antica ,proveniente da un altro secolo, e non ho difficoltà ad affermare che a me Morino piaceva.
Rimasi conquistata dalla voce magnifica di Raffanti quale risuonava nell'incisione del Barbiere.
Poi ho avuto modo di ascoltarlo quando il timor panico del palcoscenico aveva messo in grave difficoltà le sue esecuzioni, danneggiando il timbro ,in origine stupendo ,della sua voce.
A conclusione i 4 miti cellettiani sono durati, per varie ragioni, l'espace d'un matin : sarebbe interessante analizzare il perché di questa così breve durata
Con simpatia
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Re: I miti di Celletti

Messaggioda FRITZ KOBUS » dom 18 apr 2010, 22:25

A di là dei miti di Celletti (sicuramente è già stato fatto a iosa anche in questo sito, quindi perdonatemi se mi dilungo su questioni probabilmente già sviscerate) mi interessa più un discorso centrato sull'attività complessiva del noto recensore e critico musicale, storico della vocalità, polemista, insegnante di canto, direttore artistico, giornalista, saggista, consulente, scrittore che, nel bene e nel male, è un punto di riferimento imprescindibile per chi si occupa d'opera. Ho elencato una serie di attività che il Nostro è andato svolgere nel corso del tempo, senza lasciarne mai alcuna, sollecitato dal ricordo di quanto diceva un altro noto critico, mi astengo dal farne il nome, il quale sosteneva l'impossibilità di fare così tante cose insieme senza che questo gli procurasse "coflitti d'interesse". Sul punto sono molto d'accordo, ma Celletti avrebbe sicuramente portato un bene maggiore di quanto indubitabilmente ha portato alla conoscenza di cosa significa cantare, e molti minori strali verso quanto è andato a scrivere, se avesse smussato, infinitamente smussato, una sorta di livore cronico con cui si permetteva di strapazzare Tizio, Caio e Sempronia perché, com'è noto, non eseguivano un paio d'acciacature come, secondo lui, faceva Rubini (notoriamente l'aveva sentito) o come aveva scritto Bellini. Il carattere di quest'uomo doveva essere, almeno nel momento in cui si calava nei suoi diversi ruoli sopra rammentati, d'una osticità più unica che rara. A petto di una competenza, capacità d'analisi e di riflessione su tutte le questioni legate al canto ed all'interpretazione di una profondità eccezionale, aveva anche un modo di trarre conclusioni e, soprattutto, una forma per esprimerle, a cui non di rado, sarebbe venuta voglia di rispondere non a parole. Troppo spesso aveva al posto della penna una pistola caricata con le pallottole del dileggio e dell'offesa. Naturalmente posizioni di questo tipo non si possono dimenticare nel momento in cui certe sue creature canore non rendono come avrebbero dovuto o non stanno sul palcoscenico che il tempo d'un alito di vento. Il fatto è che Celletti era così pieno di contraddizioni per cui c'è bisogno di un lavoro esegetico sul suo operato complessivo. Ritengo infatti che la sua concezione di cosa sia cantare, anche con le punte di rigidità che la caratterizzano, sia sostanzialemente corretta, ma, non di meno, penso che l'approccio critico così esasperatamente analitico e soprattutto basato più sulla testimonianza audio (effettuata prevalentemente in studio, con ciò che di falsificatorio questo implica per definizione) che su una idea "di teatro", con tutto quel che essa comporta, sia per lo più indifendibile. Ho assorbito da lui l'idea che, in primo luogo, in un'opera lirica, deve essere considerato l'elemento acustico e successivamente l'elemento visivo; se così non è, purtroppo non si ha spettacolo d'opera. Certo è che non si può però pensare di cassare definitivamente dal teatro lirico gente come Domingo, o la Obraztsova sic et simpliciter, sostenedo al contempo che un cantante da prendere a modello nei secoli dei secoli sia Lauri-Volpi il quale, e lo dico con tutto il rispetto, stonava mica poco. D'altronde, quel carattere così furiosamente polemico e acido, incapace di filtrare con un minimo di flessibilità tutto quanto si opponeva ad una sua visione delle cose, ha scritto, in virtù di questo, anche cose così insensate da far dubitare della sua chiarezza mentale; eccone una: "L'edonismo era un sistema filosofico che identificava la virtù con il piacere. Una dottrina, alla luce del fallimento totale della filosofia, né più valida, né meno valida delle altre." (Storia del belcanto)
Saluti a tutti. Fritz Kobus.
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Re: I miti di Celletti

Messaggioda MatMarazzi » gio 22 apr 2010, 16:10

FRITZ KOBUS ha scritto:Sul punto sono molto d'accordo, ma Celletti avrebbe sicuramente portato un bene maggiore di quanto indubitabilmente ha portato alla conoscenza di cosa significa cantare, e molti minori strali verso quanto è andato a scrivere, se avesse smussato, infinitamente smussato, una sorta di livore cronico con cui si permetteva di strapazzare Tizio, Caio e Sempronia


Interessante la questione del "livore" di Celletti.
Secondo me, occorre considerare che forse non era tutto autentico quello stile "livoroso"... forse era anche una strategia.
Fino agli anni '60 Celletti era più cauto nell'esprimersi. Sapeva di sostenere tesi, all'epoca, piuttosto scomode e lo faceva con una qual certa cautela che, effettivamente, rendeva più piacevole la sua lettura.
Le sue idee erano già chiare: giuste e rivoluzionarie nella ridefinizione di uno stile e una tecnica idonei all'opera romantica italiana; inguenue e maldestre sulle altre tecniche storiche del canto classico, che Celletti non conosceva, come non conosceva (non ha mai conosciuto) il repertorio non italiano.
Va anche detto che all'epoca si guardava bene da scendere in campo ad esempio su Wagner e su Strauss... Da giovane aveva il buon gusto di lasciar parlare gli esperti, visto che lui esperto non era.

Tutto questo è cambiato negli anni 70, quando a lato della sua principale attività di storico e studioso, si è intensificata l'attività critica sulla stampa e alla radio. Ciò lo ha calato nel pieno del dibattito, lo ha confrontato direttamente ai suoi tanti nemici e lo ha spinto a reagire talvolta un'aggressività inizialmente istintiva. Da qui a rendersi conto che quest'aggressività, questa insolenza gli attiravano le simpatie di una marea di moltissimi lettori un po' passatisti e un po' frustrati da una critica che non li considerava, stanchi di sentirsi "emarginati" perché amavano il caro buon canto di una volta, perché non sapevano nulla di Wagner, perché non volevano sapere nulla di regia o di filologia, ecc... ecc... ecc... il passo fu breve.
Allora Celletti fece due più due e comprese che per vendere più libre e arrivare a contare davvero qualcosa in Italia la strada da seguire... era quella di farsi paladino di questi ascoltatori e insolentire tutti quelli che, per decenni, li avevano fatti sentire come "appassionati di serie B".

Detto questo, credo il "livore" di Celletti (sempre dagli anni '70 in poi) doveva avere anche un fondo di autenticità... non solo una posa per vendere, non solo un calcolo di marketing, insomma.
Poiché in Italia stava diventando una specie di totem, riverito e intoccabile, probabilmente si montò la testa. Pensava di contare davvero qualcosa... e sicuramente in Italia contava moltissimo.
Il punto è che contare in Italia non significava più (negli anni 70) contare nel mondo dell'Opera. L'Italia era già uscita completamente dal giro dei grandi teatri; era già la periferia del mondo. E nel resto del mondo Celletti era a mala pena nominato. Tutti i cantanti che lui maltrattava erano celebratissimi laddove era davvero importante esserlo, incidevano dischi, giravano per le piazze principali... Insomma, le sue profezie e le sue maledizioni, i suoi numerosissimi (allora) apostoli, i suoi scalcinatissimi allievi, ecc... contavano (grazie a lui) solo in un paese che però non contava più niente... :)
A un certo punto, al pieno della sua italica gloria, deve essersi davvero convinto di poter imprimere impulsi determinanti al mondo dell'Opera... e invece dovette arrendersi al fatto che il mondo dell'Opera se ne fregava di lui, proseguiva per la sua strada, evolveva proprio su quelle direttrici nuove che lui, dal suo piccolo pulpito italico, si affannava a dichiarare "sbagliate".
Ci credo che divenne "livoroso"... non c'è sconfitta più bruciante di chi si crede invincibile.
Fu così che, a quel punto, qualunque cosa venisse pubblicata da una grande casa discografica facesse schifo a prescindere, che qualsiasi cantante facesse l'errore di aver successo nel mondo facesse schifo a prescindere, che persino un direttore che - negli anni '60 - aveva esaltato oltre-modo (come Karajan) ora facesse schifo a prescindere.

Infine c'è la questione del conflitto di interesse... ma questa è un'altra storia, che - tuttavia - non considero la più grave. Su questo fronte si è visto ahimé tanto, tanto di peggio. Celletti aveva comunque, a modo suo, un istinto da vecchio signore per bene e di solidi principi.
Qualche conflittuccio ci sarà sicuramente stato (ad esempio esaltare - a prescindere - chiunque gli desse ragione), ma non credo si trattasse di cose veramente gravi.

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Re: I miti di Celletti

Messaggioda FRITZ KOBUS » gio 22 apr 2010, 17:11

Nel thread su Tino Pattiera, dove mi sono immodestamente divertito a buttar giù qualche osservazione su questo cantante, Bagnoli è intervenuto esprimendo qualche punto di vista riguardante Aureliano Pertile, sul quale mi ero attardato un po', che si allargava ad una visione esterofila, almeno a mio modo di vedere, dell'opera. Siccome devo sempre concludere il discorso su Pattiera (non interessa nessuno, ma siccome sono in convalescenza da lungo tempo lo concluderò, lo inserirò e poi me lo leggerò da solo), mi ero ripromesso di riprendere quello spunto di Bagnoli, appena pronto con le altre, poche, note da dedicare al tenore croato. Nella prospettiva di Mat scorgo lo stesso tipo di atteggiamento, anche se il percorso attraverso cui tale visione si è costruita appare, negli interventi effettuati (non me ne voglia Bagnoli ma, d'altra parte, è quota parte pisano!) con una ben più chiara e riconoscibile strutturazione e configurazione culturale e concettuale, su cui bisogna riflettere bene. Spero entro breve di essere in grado di buttar giù qualcosa che giustifichi la mia posizione, contraria a ritenere l'Italia un paria nel mondo del melodramma. So già di abbracciare una tesi che molti considerano "passatista" e avvizzita, ma se l'Italia conta qualcosa nella storia dell'umanità è anche per il SUO melodramma e per la SUA lingua e per il modo di cantare che vi si è sviluppato e che, con tutti i limiti di cui sopra ho già detto, Celletti sosteneva. Non mi interessa affatto tifare per l'Italia "a prescindere", ma sono convinto che le dinamiche di mercato e l'allargamento smisurato dei sistemi attraverso cui si possono mettere in scena le opere ed eseguire la partitura nella sua parte vocale, abbia trasformato il genere, in modo spesso irriconoscibile, rispetto ad una sua ideale forma di riferimento. Spero presto di essere meno vago e più puntuale. Saluti. FRITZ KOBUS
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Re: I miti di Celletti

Messaggioda MatMarazzi » gio 22 apr 2010, 18:19

FRITZ KOBUS ha scritto:Spero entro breve di essere in grado di buttar giù qualcosa che giustifichi la mia posizione, contraria a ritenere l'Italia un paria nel mondo del melodramma. So già di abbracciare una tesi che molti considerano "passatista" e avvizzita, ma se l'Italia conta qualcosa nella storia dell'umanità è anche per il SUO melodramma e per la SUA lingua e per il modo di cantare che vi si è sviluppato e che, con tutti i limiti di cui sopra ho già detto, Celletti sosteneva.


Caro Fritz Kobus,
attendo con impazienza le tue considerazioni in merito.
Vorrei solo precisare che io e certamente anche Bagnoli siamo in toto allineati con te nell'esaltare lo splendore del contributo dell'Italia all'Opera non solo nella fase originaria, ma nel corso dei secoli, sia come scrittura musicale, sia come genialità drammaturigca, sia per l'elaborazione di una tecnica di canto talmente miracolosa da varcare i secoli.
Ho spesso detto, ma sono felice di ripeterlo, che personalmente considero il "belcanto" una delle più grandi conquiste di tutta la civiltà occidentale.
L'unica cosa che ho contestato è la pretesa "unicità" (cellettiana) del belcanto e la negazione di ogni altra tradizione.

Quanto all'italia, se mai è divenuta "paria dell'Opera" (e io effettivamente penso che un poco sia così), ciò è accaduto solo in tempi molto recenti. Ancora negli anni '50 del secolo scorso l'Italia era per l'Opera un punto di riferimento planetario.
E' solo dagli anni '70 che io ravviso un declino gravissimo, da cui, temo, siamo ancora ben lontani dal risollevarci: declino che non ha assolutamente - a mio avviso - ragioni artistiche (quelle se mai sono conseguenze) bensì politiche.
Sono decenni che i nostri teatri d'opera sono ostaggio di consorterie partitiche e di conseguenza gestiti in modo disastroso e dilettantesco (con scarsissime eccezioni). Ma denunciare questa eventuale crisi, non significa - almeno per me - mettere in dubbio la bellezza e l'importanza del nostro passato e della sua eredità, dei quali - per inciso - non potrei fare a meno.

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Re: I miti di Celletti

Messaggioda FRITZ KOBUS » gio 22 apr 2010, 19:12

declino che non ha assolutamente - a mio avviso - ragioni artistiche (quelle se mai sono conseguenze) bensì politiche.
Sono decenni che i nostri teatri d'opera sono ostaggio di consorterie partitiche e di conseguenza gestiti in modo disastroso e dilettantesco (con scarsissime eccezioni). Ma denunciare questa eventuale crisi, non significa - almeno per me - mettere in dubbio la bellezza e l'importanza del nostro passato e della sua eredità, dei quali - per inciso - non potrei fare a meno.


Non sono stato sufficientemente chiaro. Non nego affatto, anzi sono d'accordissimo con quanto sostieni circa la situazione dei teatri in Italia. Mi è parso però che la posizione sostenuta da te e da Bagnoli (due precisazioni: vi accomuno per semplicità, forse estrema e ragiono sollecitato dalle impressioni suscitate dai vostri interventi nel forum, per loro natura tendenzialmente episodici anche se spesso molto ben circostanziati e, talvolta, veri saggi nemmeno tanto brevi) sia debitrice di una estetrofilia un po' ipostatizzata. Impressione naturalmente. Ma quando Bagnoli sostiene che Pertile, nel "suo" repertorio, gli sembra pompier e uin po' gallo cedrone, laddove altro universo sono Jadlovker, Wittrish e Roswaenge rimango francamente basito. Senza nulla togliere agli ultimi tre, cantanti che sono delizia e gioia di ogni melomane, perché "opporli" a Pertile? Pertile, come minimo è tanto quanto; non c'è opposizione. Il fatto che siano citati tre stranieri mi lascia poi pensare che il ragionamento di Bagnoli sia sostenuto proprio da una idea un filo preconcetta. Altro discorso, più complesso e difficile, non nego, circa le considearzioni da te poste. Infatti mi è sempre sembrato, leggendo in filigrana, che i tuoi interventi, di cui, tra l'altro, ti ringrazio perché spesso illuminanti, siano appoggiati sull'idea "di fondo" che l'Italia non abbia più nulla da dire nemmeno come portato storico. Il canto, ed io ritengo che il modo corretto di cantare sia quello descritto e sostenuto da Celletti (al di là delle sue riflessioni "pratiche" sulla messa in atto di tale metodo), è nato e si è diffuso nel mondo avendo come origine il nostro Paese; è un fatto, non un opinione. Dicendo che va bene l'evoluzione esecutiva del melodramma che ha scardinato i principi di questa prassi si sostiene qualcosa che, a mio modo di vedere, lede IL modo di fare opera. Naturalmente che sia fruibile, divertente e, a suo modo anche grande, cantare senza legato, con gli acuti che sembrano veramente l'urlo di un cappone sgozzato, prendendo i fiati a piacere, annullando crescendo, diminuendo, messa in voce, sfumature come le mezze voci e, se si hanno, le filature, a fini espressivi collimanti con il gusto contemporaneo si può accettare, basta che si dica prima: come si diceva ai tempi in cui "Il nome della rosa" lo compravano anche le palme del sahara, quella roba è elaborata sul palinsesto dell'opera lirica. Non penso naturalmente a te e Bagnoli sostenitori di una tesi per cui il canto di oggi è bello perché, rispetto a quello tradizionale, ha ribaltato tutti i valori, né che tutti oggi cantino così male, ci mancherebbe. Ma a mio modo di vedere la sola idea che il canto possa essere in secondo piano rispetto all'idea complessiva di uno spettacolo rimane inaccoglibile: lo so, sono un inattuale, ma come posso essere contento di vedere una regia geniale, una scenografia rivoluzionaria, uno sfavillare abbacinante di costumi e quant'altre magie da palcoscenico se, chi canta, non è almeno sopra la soglia minima della decenza? L'idea che a mio modo di vedere oggi passa è proprio questa: in fin dei conti non importa la qualità acustica di uno spettacolo (!!!!!), basta che si esca dal teatro soddisfatti. E come si può? Ciao.
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Re: I miti di Celletti

Messaggioda Teo » ven 23 apr 2010, 9:21

FRITZ KOBUS ha scritto:Ma a mio modo di vedere la sola idea che il canto possa essere in secondo piano rispetto all'idea complessiva di uno spettacolo rimane inaccoglibile: lo so, sono un inattuale, ma come posso essere contento di vedere una regia geniale, una scenografia rivoluzionaria, uno sfavillare abbacinante di costumi e quant'altre magie da palcoscenico se, chi canta, non è almeno sopra la soglia minima della decenza? L'idea che a mio modo di vedere oggi passa è proprio questa: in fin dei conti non importa la qualità acustica di uno spettacolo (!!!!!), basta che si esca dal teatro soddisfatti. E come si può? Ciao.


Carissimo FRITZ KOBUS, a mio avviso hai toccato il nocciolo della questione.
Da anni io e il caro amico Matt (ma anche con il Bagnolo :twisted: ) ci dibattiamo su questo tema.
Tempo fa ricordo che io e l'amico Matt discutevamo sullo "stile" di canto di José Cura (uno a caso... :lol: ); dopo una lunga discussione, a proposito dei suoni prodotti da Cura, Matt mi disse più o meno le seguenti parole: "quel modo di cantare è da considerarsi valido, perché la gente oggi ha accettato quei suoni, altrimenti non si spiegherebbe perché Cura è osannato in tutti i teatri d'Europa".
Non ne abbiamo a male gli estimatori del tenore argentino, cito lui perché io e Matt a tale proposito la vediamo proprio in maniera differente (ovviamente parlo del suo modi di concepire il canto) e sopratutto perché questo pensiero espresso da Matt, mi ha veramente colpito (ad oggi la questione rimane per me aperta).
L'argomento a mio avviso è molto interessante e pertanto mi riprometto di ritornare su questo argomento magari in altro topic.
Io comunque credo che nessuno di noi pensi al canto come un "fattore secondario" dell'opera, anzi, credo che tutti cerchiamo la valorizzazione di questo strumento dell'uomo. Tutto sta a capire quale valore intrinseco esso può avere, o quale valore gli si venga attribuito e se esista una specifica collocazione o se si debba avere più collocazioni in merito (e qui si apre il discorso sulla tecnica e sull'ortodossia dei suoni).

Salutissimi.

Teo
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Re: I miti di Celletti

Messaggioda MatMarazzi » ven 23 apr 2010, 19:43

Provo a fare alcune rapide considerazioni in risposta alle vostre.
Partiamo da Fritz Kobus.

FRITZ KOBUS ha scritto: quando Bagnoli sostiene che Pertile, nel "suo" repertorio, gli sembra pompier e uin po' gallo cedrone, laddove altro universo sono Jadlovker, Wittrish e Roswaenge rimango francamente basito. Senza nulla togliere agli ultimi tre, cantanti che sono delizia e gioia di ogni melomane, perché "opporli" a Pertile? Pertile, come minimo è tanto quanto; non c'è opposizione. Il fatto che siano citati tre stranieri mi lascia poi pensare che il ragionamento di Bagnoli sia sostenuto proprio da una idea un filo preconcetta.


Il fatto stesso che tu affermi che tra Pertrile e Wittrich vi sia "tanto quanto" dimostra che anche tu li hai messi a paragone traendone la tua personalissima e rispettabilissima conclusione che il loro livello sia uguale.
E' illogico affermare "non vi è opposizione", dal momento che tu stesso hai fondato il tuo giudizio su un confronto.
Non avresti detto la stessa cosa, immagino, se a Wittrich invece che Pertile avessi dovuto paragonare (che so) Martinucci...
Avresti detto (credo) che il primo è superiore al secondo. Con Pertile sei arrivato a un giudizio di uguaglianza rispetto a Wittrich e Company, proprio perché hai operato un confronto e formulato un giudizio, esattamente come Pietro.
Ma evidentemente tu puoi farlo e Pietro no! :)
O meglio, se lo fa Pietro (arrivando a un conclusione diversa dalla tua) allora è "esterofilia".

mi è sempre sembrato, leggendo in filigrana, che i tuoi interventi, di cui, tra l'altro, ti ringrazio perché spesso illuminanti, siano appoggiati sull'idea "di fondo" che l'Italia non abbia più nulla da dire nemmeno come portato storico.


Spero che tu mi permetta di dire come la penso...
"Leggere fra le righe" non è un buon esercizio, almeno per me.
Cercare le "intenzioni", coltivare le "impressioni" (tutti termini da te usati) e in definitiva pensare sempre che dietro le opinioni diverse dalle nostre ci sia sempre una ragione recondita è un modo un po' facile di evitare il confronto sui punti: se uno la pensa diversamente è perché ...è esterofilo.
E invece sarebbe più utile, invece che restare basiti, chiedersi perché altri ascoltatori si dilettano più ad ascoltare Roswaenge in Manrico che non Pertile.
E se non si è d'accordo, circostanziare la propria posizione.

Il canto, ed io ritengo che il modo corretto di cantare sia quello descritto e sostenuto da Celletti (al di là delle sue riflessioni "pratiche" sulla messa in atto di tale metodo), è nato e si è diffuso nel mondo avendo come origine il nostro Paese; è un fatto, non un opinione.


Che il belcanto sia nato in Italia è un fatto.
Che sia IL modo corretto di cantare è un'opinione. Non è per nulla un fatto.
Anzi è un'opinione che si potrebbe smontare molto facilmente, usando le armi della logica.

Dicendo che va bene l'evoluzione esecutiva del melodramma che ha scardinato i principi di questa prassi si sostiene qualcosa che, a mio modo di vedere, lede IL modo di fare opera.


Partiamo dal fatto che tu credi di difendere il modo di fare l'"Opera" dalle "lesioni" di chi ne accetta l'evoluzione, ma non credo sia veramente così.
In realtà tu ti limiti a difendere solo "un" modo di intendere l'opera: quello che tu hai conosciuto e che tu hai amato.
Quello che, per usare una tua espressione, viene "leso" non è l'OPERA, ma tutt'al più l'insieme dei tuoi gusti, delle tue esperienze, delle tue preferenze, delle tue abitudini d'ascolto. Non posso credere che tu seriamente ritenga che questo "tuo" mondo (tuo e di chi condivide i tuoi gusti) sia L'OPERA e che qualunque altro orizzonte d'attesa (e ce ne sono stati tanti in quattro secoli di storia, nei milioni di persone che l'hanno ascoltata e l'ascoltano, nei cinque continenti dove l'Opera si è diffusa) non lo sia.
Io non mi scandalizzo se uno mi dice: quel che amo è questo modo di intendere l'opera e il canto. Il resto non mi interessa.
Mi scandalizzo invece (anzi mi incavolo proprio) se qualcuno mi dice: quello che io intedo E' L'OPERA, E' IL CANTO. Tutto il resto no.


Naturalmente che sia fruibile, divertente e, a suo modo anche grande, cantare senza legato, con gli acuti che sembrano veramente l'urlo di un cappone sgozzato, prendendo i fiati a piacere, annullando crescendo, diminuendo, messa in voce, sfumature come le mezze voci e, se si hanno, le filature, a fini espressivi collimanti con il gusto contemporaneo si può accettare, basta che si dica prima: come si diceva ai tempi in cui "Il nome della rosa" lo compravano anche le palme del sahara, quella roba è elaborata sul palinsesto dell'opera lirica.


Bisogna vedere prima di tutto cosa sarebbe questa entità fissata e indiscutibile che tu chiami Opera.
Non certo l'Opera come la si faceva nel '600. Tu infatti non sai come si cantasse, come si recitasse, come si "declamasse" nel '600. Inoltre nel '600 il cosidetto Belcanto non era ancora stato nè elaborato, nè teorizzato, nè divulgato.
Non certo l'Opera come la si faceva nel '700, dal momento che nel 700 moltissimi suoni che tu ritieni giusti e conformi (perchè emessi dai cantanti che ami tu) erano considerati abominevoli (vere e proprie urla): a partire proprio dagli acuti tenorili "di petto" che tu ammetti senza problemi (come facenti parte di quel che tu chiami L'OPERA, da non confondersi col "palinsesto" che oggi si propone) ma che un certo Rossini chiamò proprio "urla di cappone sgozzato", per riprendere la tua citazione.
Dunque nemmeno Rossini è L'OPERA che tu affermi essere giusta.
In pratica, alla fin fine, ancora una volta, ciò che tu vorresti fermare nel tempo non è l'OPERA, bensì le tue abitudini d'ascolto, le tue preferenze...
Ok, padronissimo, come sono padrone io di affermare che le tue preferenze e le tue abitudini (pur rispettabilissime, come le mie) non rappresentino affatto l'OPERA, genere che al contrario è vissuto di una costante, inarrestabile, vorticosa evoluzione, che ancora non si è arrestata.
Dal mio punto di vista, anzi è questa la prova della sua vitalità: altro che "genere morto"; vive perchè si rigenera.

Ma a mio modo di vedere la sola idea che il canto possa essere in secondo piano rispetto all'idea complessiva di uno spettacolo rimane inaccoglibile.


Sono con te nell'affermare che il canto non è nell'opera un elemento secondario.
Mi distacco invece se qualcuno afferma che il canto è "prioritario" rispetto a Teatro e Musica.
No, mi spiace. L'opera è nata come genere di teatro e musica, e come tale è rimasta in vita per quattro secoli, non come scusa per sentir cantare.
Non è un festival di San Remo (è solo un esempio di ambito in cui il canto è davvero prioritario) e nemmeno una sala di liederabend.
Nell'Opera, il teatro e la musica non sono il "contorno" al canto. Essi sono l'Opera.
Il canto è lo strumento principale per fare musica e teatro: li serve e non viceversa.

Teo ha scritto:Tempo fa ricordo che io e l'amico Matt discutevamo sullo "stile" di canto di José Cura (uno a caso... ); dopo una lunga discussione, a proposito dei suoni prodotti da Cura, Matt mi disse più o meno le seguenti parole: "quel modo di cantare è da considerarsi valido, perché la gente oggi ha accettato quei suoni, altrimenti non si spiegherebbe perché Cura è osannato in tutti i teatri d'Europa".


Eppure continuo a non capire cosa ci sia di strano in questa frase.
E' il pubblico che, da svariati secoli in qua, seleziona i suoni operistici. E' il pubblico che ne valuta l'efficienza, il potenziale, il fascino.
Se il pubblico rifiuta un suono, esso non entrerà nel bagaglio dei suoni "consentiti" e non sarà ammesso nelle scuole.
Viceversa è il pubblico che autorizza i suoni nuovi e li fa "passare" come giusti.
Niente di più ovvio: a chi, se non al pubblico, è rivolto il canto? Chi dunque, se non il pubblico (anzi i pubblici della storia) è autorizzato a decidere la proprietà o meno dei suoni, la loro forza emozionale o evocativa?
Non è una domanda retorica: è una domanda seria, Teo.
Ammesso che ci siano delle regole, chi le ha fissate secondo te?
Dio? Il Logos? chi?
Chi se non la "consuetudine" derivata da una scelta originaria formulata dal pubblico?

Salutoni,
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Re: I miti di Celletti

Messaggioda Tucidide » ven 23 apr 2010, 21:41

MatMarazzi ha scritto:E' il pubblico che, da svariati secoli in qua, seleziona i suoni operistici. E' il pubblico che ne valuta l'efficienza, il potenziale, il fascino.
Se il pubblico rifiuta un suono, esso non entrerà nel bagaglio dei suoni "consentiti" e non sarà ammesso nelle scuole.
Viceversa è il pubblico che autorizza i suoni nuovi e li fa "passare" come giusti.
Niente di più ovvio: a chi, se non al pubblico, è rivolto il canto? Chi dunque, se non il pubblico (anzi i pubblici della storia) è autorizzato a decidere la proprietà o meno dei suoni, la loro forza emozionale o evocativa?
Non è una domanda retorica: è una domanda seria, Teo.
Ammesso che ci siano delle regole, chi le ha fissate secondo te?
Dio? Il Logos? chi?
Chi se non la "consuetudine" derivata da una scelta originaria formulata dal pubblico?

Mat, lo sai che sono d'accordissimo con te su questo punto, e che le stesse cose le sostengo - indegnamente - pure io.
La risposta dei molti che non sono concordi è più o meno la seguente: "il pubblico, in quanto incolto, diseducato, disabituato all'arte, scambia per buoni suoni che non lo sono, e seguendo i comunicati stampa delle agenzie e le pubblicità patinate si convince della bontà di questo o quel suono."
In assoluto, credo che la tua posizione sia la più giusta e storicamente fondata. Certo, però, alle volte lo storicismo è proprio difficile da professare. Quando senti un soprano strillare in modo inverecondo com'è capitato a me nell'Idomeneo a Bologna (la Gulin come Elettra, per la cronaca) e venire successivamente inondata di applausi, ehi... la voglia di dire: "ma che cosa avete nelle orecchie??!!" viene eccome! : Chessygrin :
D'altronde, mi pare di ricordare che tu stesso stigmatizzasti il pubblico parmigiano per aver tributato ovazioni ad Alvarez come Manrico ed aver demolito la Anderson come Norma. : Sailor :
Con tutto questo, resto nel complesso d'accordo. :D
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
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