Domenico Donzelli ha scritto:un cantante d'opera che canti Handel o che canti Mascagni deve sapere usare i ferri del mestieri. Come si usino i "ferri del mestiere" lo raccontano i trattati di canto i quali al di là del linguaggio e delle nozioni di anatomia datate ribadiscono tutti lo stesso verbo, e sopratutto lo dicono i cantanti d'opera.
Caro Donzelli,
ho letto con attenzione il tuo post e ti ringrazio.
E' complesso, corposo, articolato e credo ti abbia portato via un po' di tempo.
Ti sono grato ma un po' mi dispiace, perché - scusa se te lo dico apertamente - è stata una fatica un po' inane.
Il fatto è che tutto quello che hai scritto ci è già noto.
Abbiamo letto anche noi i libri di Celletti, li abbiamo letti da vent'anni (almeno).
Inoltre sono vent'anni che dialoghiamo con i Cellettiani (e tutti coloro che hanno accettato il fondamentale "verbo" della tecnica "unica" per cantare).
Sono vent'anni che la questione è posta e riproposta negli stessi termini.
Lo stesso Celletti ha finito - nel suo ultimo malinconico decennio di attività - per ripetere in ogni libro, in ogni articolo, in ogni trattato le stesse identiche cose, quasi con gli stessi termini...
Questo capita quando passa la voglia di interrogarsi, l'umiltà di voler "capire" prima di giudicare e ci si adagia nel proprio personale vangelo, facile, confortevole e irrimediabilmente falso, come è falso qualsiasi atteggiamento critico che cerca di imporsi alla mutevolezza della materia, invece che tentare di decifrarla.
Se questo è capitato a Celletti (che in fondo ai suoi anni era uno spirito libero, avversario del pensiero idealista imperante, nemico del gusto neorealista) figuriamo se non poteva capitare ai suoi esegeti, che negli anni '80 erano numerosi, colti, intelligenti (ne ho conosciuti a bizzeffe: c'è anche un forum operistico dove gli ultimi simpatici sopravvissuti si sono riuniti come in un'isola-fortezza a ripetersi fra loro gli stessi dogmi, come un congresso di vecchi e amareggiati massoni, alteri e incompresi).
Pertanto se c'è una cosa che non può risultarci nuova (nè interessante) è sentir ripetere ancora le consunte novene sulla respirazione costale e diafframmatica, sull'immascherazione, sulla vocale indistinta del passaggio, sul fatto che tutti (da Gigli alla Sutherland? e questi sarebbero tutti?) cantino secondo i dettami di Garcia, ecc... ecc... ecc....
Rodolfo Celletti è stato una grande personalità del panorama critico italiano.
Ha rivelato (con straordinario spirito storico) e reso comprensibili a tutti le basi tecniche di UN CERTO TIPO DI CANTO, che è quello di matrice barocco-italiana (impropriamente detto "belcantismo").
E lo ha fatto in anni in cui quel tipo di canto non solo era misconosciuto, ma addirittura disprezzato (dai critici di matrice idealista), non praticato da quasi nessun cantante (negli anni 50).
Quindi non solo l'opera di Celletti è stata meritoria, ma anche salutare: perché grazie a lui (soprattutto) ci si è rimessi a ragionare su una tecnica canora lontana e sulle sue interessantissime ragioni estetiche.
Il problema è che - per combattere i "vangeli parawagneriani" dei suoi avversari - si è inventato un "vangelo" lui.
Quello per cui QUEL TIPO DI TECNICA, QUEL TIPO DI EMISSIONE, QUEL TIPO DI RESPIRAZIONE fosse l'unica praticata e praticabile dall'alba al tramonto dei tempi.
E ciò è talmente assurdo e risibile che non ho mai capito come avesse potuto trovare tanti adepti.
Il cosidetto "belcanto" (come complesso di valori tecnici, fonico ed estecici) è nato in un'epoca ben precisa: il primo settecento.
Non è nato prima, non è nato dopo... perché - come ogni tipo di tecnica canora - è nato per rispondere ad esigenze ben precise: un repertorio specifico, con caratteristiche specifiche, che nulla hanno a che spartire con gli altri repertori.
Nell'estetica barocca la "parola" vocale era divenuta meno importante: l'opera italiana era diffusa in paesi dove si parlavano altre lingue, il recitativo (sull'impronta di Metastasio) era divenuto mero supporto della musica, le arie avevano perso la semplice natura di affettività per maturare - di pari passo col nascente gusto del virtuosismo strumentale - obbiettivi di spettacolarità "maravigliosa" (come amava ricordare Celletti), e divenire metafora del superamento "artistico" dell'umanità, proprio come gli stucchi dorati nelle chiese o l'abbacinante lessico della lirica barocca.
Il fine della voce - in questa temperie - non era più di sottolineare la parola e di gravarla di significati sempre più complessi (come nel vecchio "recitar cantando" di forgia classica di più di un secolo prima o nella contemporanea tragèdie lyrique di Versailles), ma di rincorrere ed emulare gli splendori virtuosistici degli strumenti musicali, che proprio in quegli anni (la prima metà del 700) stavano raggiungendo vertici tecnici sconvolgenti.
Il "fraseggio" (inteso come semplice costruzione ritmico-dinamica della frase) diveniva più importante delle stesse reagioni teatrali (mai tanto umiliate quanto nell'opera italiana settecentesca). Il "virtuosismo" (inteso come capacità di superare i limiti umani in termini di estensione, lunghezza di fiato, velocità di esecuzione) divenne più importante della parola e dei suoi contenuti.
Insomma, come nella pittura, nella scultura, nella letteratura, anche nel canto i barocchi misero a punto una tecnica giusta ...per QUELLE SPECIFICHE ESIGENZE!
Una tecnica che aveva anche dei limiti (voluti e non casauli): ad esempio i preziosissimi e insostituibili colori della voce umana sparirono dietro l'ossessione dell' "omogenietà" (proprio come se la voce fosse un violino o un oboe). L'evidenza della parola (ridotta a mero suono) si disperse fra le volute dei melismi. Le stesse ragioni dialettiche dell'eloquio drammatico finirono macinate sotto il peso di quell'ossessionante culto del "fraseggio", quella strumentalità a tutti i costi perseguita.
Tanto per fare un esempio, il grande segreto di questa tecnica (la cosidetta "copertura" o "immascherazione") permetteva sì i miracoli virtuosistici di cui sopra, ma con la conseguenza di uniformare le vocali, i loro inconfondibili suoni fino a condurre a quella particolare "incomprensibilità" che gli ascoltatori italiani spesso lamentano nei cantanti d'opera
(...non i neofiti tedeschi quando sentono un declamatore wagneriano, che infatti è comprensibilissimo perché canta con altra tecnica).
Ha ragione Celletti: si deve rimanere ammirati di fronte alla tecnica di canto "italiana" approntata nel barocco.
E' un miracolo di ingegneria e consente, alle voci, di produrre suoni che trascendono le possibilità umane.
Ma - e qui è il punto - questa tecnica andava bene negli anni e per QUEL TIPO DI MUSICA, di cui si è fatta risposta.
(lo stesso Celletti arrivò ad ammettere che già a parlare di "belcantismo" con la Semiramide di Rossini si rischia l'anacronismo).
E' pur vero che prolungò i suoi effetti anche sul protoromanticismo italiano (l'Italia è sempre stata conservatrice), ma non su quello tedesco, francese, russo.
E anche in Italia dovette subire scossoni non indifferenti.
Nel tipo di scrittura che Donizetti si inventò per le atroci dissociate "Ronzi de Begnis" quell'idealizzato "belcantismo" è solo un ricordo.
...Non parliamo di Verdi.
Ora, ammirare il vocalismo barocco è un conto.
Difenderlo dagli attacchi degli idealisti e dei vecchi "bidelli del Walhalla" è un conto.
Fermarsi a riflettere sui peculiari strumenti tecnici (recuperando trattati e antichi metodi di canto) e magari servirsene (per quanto è possibile e sensato) nell'affrontare oggi alcuni problemi di quel repertorio è un conto.
Ma pretendere che tutta la storia del canto possa essere circoscritta e ricondotta ad esso è semplicemente assurdo.
E qui cadde Celletti con tutti i filistei.
Nel suo semplicismo apodittico venne fuori la pretesa che si dovesse cantare (con quell'emissione, quella respirazione, quegli obbiettivi tecnici ed estetici) qualsiasi cosa.
Che quello fosse l'abc del canto.
E poiché la storia dimostra che questo tipo di tecnica non è stata praticata da milioni di cantanti (non solo i Wagneriani e i declamatori, non solo i falsettisti novecenteschi, non solo gli interpreti di britten, non solo i tanto diffamati "veristi", non solo la Dessay e la Bartoli, non solo Del Monaco, la Varnay, Hans Hotter, Emme Kirby, Ettore Bastianini, Julia Varady - che presero tutti le loro dosi di legnate isteriche dal povero Celletti, ormai senza controllo - ma aggiungerei anche tutti coloro che cantarono "prima" del Barocco, come i trovatori, i gregoriani, le dame di corte quattro-cinquecentesche, per non parlare di cantanti di Jazz, di Rock, di Rap...) allora - povero Celletti! - l'unica via d'uscita era affermare
che tutti loro non sapevano cantare.
Proprio come - delirio per delirio - dobbiamo farci insegnare da te (noi che a migliaia, per dire poco, amiamo il canto della Dessay) che in realtà stiamo vivendo un sogno collettivo: che in realtà lei non canta... sta facendo altro...
Proprio come, secondo Celletti, non cantava la Varnay, non cantava Langridge, non cantava la De los Angeles, non cantava Tito Gobbi, non cantava Nicolai Gedda, non cantava la Stratas, e persino Fischer-Dieskau cantava così così, ...tutta gente che ha avuto carriere vicine ai cinquant'anni e riconoscimenti di amore planetario che nè la simpatica Dupuy, nè la simpatica Serra, nè il simpatico Raffanti hanno mai avuto.
Ora... l'enormità, la ridicolaggine, la dannosità di una simile posizione critica dovrebbe essere evidente da sola, e invece - con mia grandissima sorpresa - così non è.
C'è ancora chi ripete, a tanti anni di distanza e dopo che - purtroppo - il grande Celletti ci ha lasciato, il suo malinconico verbo.
C'è ancora chi cerca di persuaderci che solo la Sutherland - con tutte le sue "uh" al posto di ogni vocale - rappresenti il modello tecnico assoluto e di riferimento.
Io amo la Sutherland, la difendo, la esalto (come si legge anche in questo forum) ma, se avesse cantato Clitennestra di Strauss, o se avesse cantato Winterreise di Schubert, se avesse cantato i madrigali, i canti trobadorici o le canzoni di Frank Sinatra sarebbe stata SEMPLICEMENTE IMPREPARATA TECNICAMENTE.
A parte... che per me era impreparata tecnicamente già affrontare Maria Stuarda, Traviata, Margherita del Faust... non parliamo di Suor Angelico o dell'Oracolo di Leoni.
Perché anche la tecnica della somma Sutherland (per vicina che fosse ai feticci "cellettiani") non è affatto onnipotente, non può realizzare qualsiasi suono, non può far fronte a qualsiasi musica e (vivaddio) non riassume per niente quell'immenso, stupefacente, vastissimo universo che è "il canto".
Mi dispiace per il povero Celletti (che con questo atteggiamento si è messo allo stesso livello degli "idealisti" che combatteva e che ha sperperato il grandissimo lavoro svolto in ambito storiografico), ma io rigetto tanto le sue teorie, quanto i suoi giudizi.
Del Monaco, caro il mio Celletti, "canta".
La Varnay, caro il mio Celletti, "canta".
Hans Hotter, caro il mio Celletti, "canta".
Emma Kirby, caro il mio Celletti, "canta".
E anche Louis Armstrong, caro il mio Celletti, "canta".
Così come hanno cantato (per diecimila anni di storia della cultura occidentale) anche tutti quelli che delle regole del barocco non ne hanno mai conosciuta o applicata una.
Sia detto una volta per tutte,
non esiste un modo per cantare (tranne il fatto che tutti usiamo le corde vocali, tutti - anche i wagneriani e i contro-tenori - utilizzano chi più chi meno le cavità di risonanza del corpo e che tutti respiriamo... ma queste cose si possono fare in modo diversissimi).
La nostra storia ha prodotto un'infinità di "tecniche di canto", ognuna con le sue prerogative (limiti e possibilità), ognuna con le sue basi di fonazione (di emissione e respirazione), ognuna con i suoi obbiettivi estetici ed espressivi (rispondendi alle esigenze di precisi repertori).
E ognuna
ha valore SOLO ED ESCLUSIVAMENTE in rapporto ai risultati che permette di ottenere all'artista sul piano emozionale, poetico, musicale:
non esiste una tecnica che sia giusta di per sè.
Con la sua tecnica (aperta e stridente) la Stratas esalta Kurt Weill, mentre con la sua tecnica (coperta, avanti, tranquillizzante) la Serra e la Devia hanno massacrato Anna Bolena. Quello che conta, una volta "capita" la tecnica di un cantante, non è giudicarla di per sè, ma valutarla in rapporto ai risultati conseguiti.
Ebbi la fortuna (tanti anni fa, quando ero un ragazzo circondato da Cellettiani che cercavano di convincerlo che una Borkh o una Stratas non sapessero cantare, mentre la Serra... lei sì...) di conoscere l'unica voce critica italiana che allora si levò contro Celletti.
Era Angelo Sguerzi, che volli conoscere dopo aver letto il suo "le stirpi canore".
Era un vecchietto, stanco e malato, ma la chiacchierata che facemmo mi ha onorato e arricchito.
Una frase che disse mi colpì particolarmente.
"In principio era il suono... "
Scusatemi per la lunghezza del post.
Prometto che in questo thread non interverrò più
Vi lascio campo libero perché, nei prossimi giorni, mi sforzerò di riprendere dibattiti su altre forme di canto e su altri repertori che ultimamente abbiamo un po' trascurato (e Operadisc non è solo belcanto).
Salutoni affettuosi e, a parte le insanabili divergenze, un grazie a tutti per l'affascinante scambio.
Matteo Marazzi