Venerdì, 19 Aprile 2024

Turandot

Aggiunto il 24 Marzo, 2014


Giacomo PUCCINI
TURANDOT

• Turandot FRANCESCA PATANÉ
• Il Principe Ignoto WOLFGANG SCHMIDT
• Liù FIAMMA IZZO D’AMICO
• Timur NICOLA GHIUSELEV
• Altoum WALDEMAR KMENTT
• Ping MARCO CAMASTRA
• Pong GIANLUCA SORRENTINO
• Pang ENRICO FACINI
• Il Mandarino ANDREA PAPI

Württemburgergische Philarmonie Reutlingen
Opera in Ahoy Chorus
ROBERTO PATERNOSTRO

Luogo e data di registrazione: Reutlingen-Rotterdam June-July 1995
Ed. discografica: United Classics 2 CD economici

Note tecniche sulla registrazione: buona, anche se alcune voci risultano lontane

Pregi: una singolare direzione e i personaggi minori

Difetti: Turandot e Liù, ma soprattutto Calaf

Valutazione finale: images/giudizi/mediocre-sufficiente.png


Ricordo che quando uscì la presente edizione discografica - ormai vecchia di 19 anni – fu molto reclamizzata da un noto giornale per la coincidenza della nazionalità italiana che presentava nelle due parti contrapposte (della principessa e della schiava) dell’universo femminile pucciniano che in quest’opera si sdoppia in ruoli così antinomici. All’epoca, anche io ero un po’ preso dalla curiosità ma, girando per i vari negozi di Firenze (vivevo lì in quegli anni), quest’edizione non si trovava e neppure nei ritorni nella mia capitale sortivano buoni effetti. L’ho trovata a distanza di 20 anni (o quasi) sabato scorso 8 febbraio, di ritorno da una conferenza che avevo fatto in una barocca chiesa romana: trattandosi della mia opera preferita e dato il prezzo (9 Euro) non me la sono lasciata scappare.
Ad un primo ascolto colpisce negativamente l’orchestra, a tratti, in primo piano tanto da coprire, a volte, i cantanti, ma c’è da dire anche che, per loro carenze, questi ultimi– almeno i tre principali – di volume non ne hanno tantissimo. Persino la Liù tende a risultare, a tratti, evanescente. La direzione di Paternostro è molto ordinata e precisa, ma manca di quella opulenza che altre bacchette ci hanno fatto udire in quest’opera che, nella produzione pucciniana, è quella che maggiormente si carica di tinte al kolossal-style. A tratti appare addirittura cameristica quasi a sfoggiare delle buone maniere forse più adatte all’inizio del II atto di Manon Lescaut col suo settecentismo di maniera. Quindi cosa accade nelle scene più fastose? Un sensibile rallentamento e dilatazione, ma soprattutto un velo di pessimismo generalizzato che non stona con l’atmosfera di amore e di morte (sacrificale nel caso di Liù) che qui aleggia. Sta di fatto che l’approccio non mi pare negativo in toto soprattutto perché sembra dire in certi punti qualcosa di inedito, nel senso che Turandot non è solo composta da sonorità apocalittiche. Qui non ci sono e anche il coro «Gira la cote» del I atto non possiede quella carica barbarica che riascolteremo, ad esempio, nei Carmina Burana di Orff (di cui Puccini sembra anticipare alcune movenze dell’«O Fortuna» iniziale) o in altri accordi strawinskijani. Questo smussare le linee più acute e sonore fa risaltare in modo enorme il Coro che si produce in un Inno alla luna molto bello, anche se si ode la non ottimale padronanza dell’italiano. Anche la triste processione del Principe di Persia accompagnato al patibolo che ne segue è molto bello: il coro qui canta con tono supplichevole, ma anche con quel sinistro presentimento che la richiesta alla principessa risulterà vana. Quando la gelida principessa appare per confermare la condanna il commento orchestrale è nitido, grandioso e scandito, ma sempre con una venatura di sbigottimento senza eccedere in enfasi che qui risulterebbe fuori posto.
Quindi una spinta verso il lirismo e la dilatazione dei tempi più che un nervosismo e una enfasi nei volumi e nell’accelerazione, sono i termini con i quali quest’edizione vuol sottolineare i momenti più fastosi. Abbiamo perciò un buon risalto di tutti i personaggi e, in particolare, delle tre maschere che, sin dal loro apparire («Fermo che fai t’arresta...»), mostrano il loro carattere in bilico tra la macchietta e la rassegnazione davanti ad un destino che fa solo … tagliar teste.
È chiaro che tutto il I quadro del II atto dedicato a queste singolari figure assume una connotazione intimistica dove i tre cantanti impegnati (Camastra, Facini e Sorrentino) oltre ad essere affiatati, cantano molto bene sostenuti anche da tempi distesi che evocano un atmosfera di pacifico dialogo e considerazioni amarognole sulla situazione della Cina. L’orchestra si mantiene sempre in sottofondo, ma senza essere inutilmente invasiva, né evanescente. Ma si tratta di un sottofondo molto curato sul piano strumentale. Molto interessante è anche l’interludio tra I e II scena del II atto, vero monumento alla musica novecentesca, nel quale però sono banditi in quest’edizione suoni metallici e strombazzamenti vari. Anche all’apparizione dell’Imperatore Altoum («Diecimila anni…») l’orchestra non degenera mai ed è sempre attenta ad alternare i ff ai suoni più sfumati.
Molto bello e suggestivo l’avvio del III atto in cui abbiamo l’evocazione della notte cinese e valido il gioco del coro che risponde in lontananza.
Insomma una interpretazione orchestrale che si muove in direzione opposta a quanto siamo soliti ascoltare, in teatro e in disco. Pensiamo alle visioni assai diverse di Mehta e di von Karajan (con i loro cast), ma anche a quella, piuttosto ricca di tinte solenni, di R. Abbado (con la Marton, Heppner e la Price).
Ma l’opera è fatta anche di voci e qui, spiace dirlo, il tanto plauso ed apprezzamento fatto dalla rivista per avere 2 artiste di “casa nostra” nel ruolo della “cattiva” e della “buona” non ci sembrano giustificati. Di tantissime Turandot che io ho visto in teatro e udito in CD posso dire di esser stato soddisfatto di solo 2 cantanti di casa nostra: G. Casolla e L. Mazzaria (quest’ultima vista in entrambe le parti): a queste sì va tutto il mio plauso! Il resto sono state tutte straniere: alcune disdicevoli, altre discrete, altre buone, qualcuna ottima.
La Patané era qui nella prima fase della carriera e Turandot era un ruolo che frequentava molto con risultati, per molte persone, apprezzabili. Io stesso, lo confesso, non ne restavo indifferente nell’ascoltarne le prove. Riudita oggi – a distanza di anni – se colpisce la grinta con la quale affronta uno dei personaggi più difficili che esistono sul piano vocale, non se possono tacere alcuni limiti: intanto la voce soffre a tratti di vibrato in zona centrale ed acuta (basterebbe ascoltarsi l’attacco di «Figlio del cielo non gettar tua figlia» per rendersene conto, ma ci sono decine di altri esempi), la dizione non è delle migliori anche perché la voce è proiettata come emessa da un tubo. Una strana emissione che produce suoni schiacciati e intubati. Inoltre le emissioni in zona grave non sono l’ideale in quanto si sente come un raschiare il fondo (cf. «… ed ogni notte nasce ed ogni giorno muore»), oppure dei fraseggi che non sono insensibili a richiami veristi vecchi come il cucco (cf. «Su straniero ti SBIANCA la paura …»). Ad una prima impressione ed ascolto questa Turandot può forse colpire, anche per il timbro che ha notevoli analogie con quello della Callas (ma non l’analoga capacità di illuminazione nei fraseggi), però la scarsa incisività e la scarsa perentorietà del personaggio (specie quando la voce sale nei momenti più drammatici) collocano questa interpretazione ad un livello non certo memorabile. Purtroppo i confronti si fanno e ognuno può tirare le somme: Callas, Nilsson, Sutherland (e altri nomi che sappiamo) sono lì nelle loro numerose testimonianze sonore….
Ignoro quanto è durata la carriera di W. Schmidt, ma è certo che un tenore che va bene, ad esempio, per Ferrando e per altri ruoli del ‘700, in Calaf è un pesce fuor d’acqua. La voce esile, educata, gentile, ma povera di corpo non può certo assolvere l’epicità dell’Ignoto vincitore del cimento pucciniano: più che evocare un giovane ma robusto e volitivo principe che si impegna in un gioco al massacro (tale è il prodotto delle esecuzioni di Pu Tin Pao), Schmidt ci conduce verso uno sbiadito soldatino da comparsa in un kolossal (quando di questo kolossal dovrebbe essere uno dei protagonisti). Nonostante scelga, ad esempio, la variante acuta di «Ti voglio tutta ardente d’amor», il risultato resta sempre quello di una prova piccina in un ruolo ormai entrato nell’immaginario come dichiaratamente epico, oltre che giovanile. Lasciando Corelli nel suo Paradiso vocal-eroico, il pensiero corre subito al Pavarotti dell’edizione Mehta, ma non è il solo: abbiamo avuto anche un signor Bjorling e lo stesso G. Di Stefano (pur con i suoi molti limiti e forzature, tanto alla Scala nel 1958 come a Vienna, nel 1961, con la Nilsson e L. Price) sapevano il fatto loro. Qui con Schmidt c’è un livello che da certa generica correttezza (ma anche freddezza e carenza di affettuosità) scade nella inadeguatezza quando la tessitura sale. Mai sentito un «Nessun dorma» così inespressivo ed anti-eroico (e, all’attacco, così soporifero), anche se l’orchestra si affanna a… gonfiare le note. Poi nel successivo incontro-scontro con i ministri che tentano di farsi rivelare il nome con tangenti di vario tipo, la domanda che Schimidt fa sorgere all’ascoltatore è la seguente: “Ma questo Calaf non si incavola mai?” E un’altra domanda ancora più grave: ma questo principe deve avere un timbro analogo alle maschere o sprizzare energie? Né le cose sembrano migliorare nel duetto finale «Principessa di morte» eseguito integralmente: c’è certa grinta ma questo principe … vola sempre basso. A ciò si aggiunge una dizione italiana a tratti fallosa: mai udito un Calaf così brutto!
La Izzo D’amico ha goduto un periodo di fama tanto da essere notata da Karajan con la quale ha cantato Elisabetta di Valois e Tosca. In questa edizione appare però una fiacca Liù. Intanto la voce sembra essere tenuta in secondo piano nella registrazione tanto è lontana. L’espressione potrebbe anche andare perché è dolce e commovente, ma se il ritratto di Calaf era quello di un soldatino, qui siamo al livello della decalcomania, tanto è evanescente il suono che sembra provenire da molto lontano. Ce ne accorgiamo tanto all’ingresso nel I atto quanto nella scena del ‘processo’ del III dove alcune frasi sono piuttosto accennate più che scandite. A ciò si aggiunga che alcuni suoni in zona medio-alta soffrono di lievi stridori. Il «Tu che di gel sei cinta» non è l’ideale in fatto di suono, anche se l’espressione potrebbe andare (creatura orientata verso la rassegnazione).
Ghiuselev è efficiente nel suo ruolo di re anziano e cieco e lo si potrebbe collocare accanto ai nomi più noti che hanno dato vita a questo personaggio. A mio avviso, un cantante di questo cast che potrebbe fregiarsi dell’aggettivo ‘storico’.
W. Kmentt ha il merito di non fare di Altoum il solito decrepito e rimbambito: la voce è provata (ricordiamo che canta dal 1961, quale Narraboth dell’edizione di Salome con la Nilsson diretta da Solti per la DECCA), ma la parte sostanzialmente declamata in zona centrale lo pone al riparo da ascese nei piani alti del pentagramma. Ne scaturisce un Imperatore a tratti vigoroso e tutt’altro che arrendevole ai capricci della gelida figlia. Il suo «Il cielo voglia che con l’aurora mio figliolo tu sia» è davvero solenne e di buona fattura vocale. Aggiungo che di Kmentt esiste in Youtube un’esecuzione di «Nessun dorma», non malvagia. Anche per lui ‘storico’ può andar bene tranquillamente.
Del trio delle maschere ho già detto qualcosa circa il loro quadro iniziale del II atto e aggiungo che, tutto sommato anche in altri loro interventi, sono efficienti.
Molto bene e solenne A. Papi quale Mandarino, senza accenti caricati nei suoi due interventi. Bene anche il coro.
Molto scadente invece la veste editoriale del cofanetto: oltre ad avere un fascicoletto interamente nero con scritte bianche, esso porta testi solo in inglese e sulla copertina si fregia anche di un vistoso errore di stampa: Ghiuselevt anziché Ghiuselev in riferimento al basso bulgaro.
In sostanza è una Turandot dove a reggerne le sorti sono i personaggi di contorno ma non il trio centrale. Come livello è sufficiente e nulla più: insomma puro documento.
Luca Di Girolamo

Categoria: Dischi

 

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