Giovedì, 18 Aprile 2024

Macbeth

Aggiunto il 11 Agosto, 2007


MACBETH



Macbeth Thomas Hampson
Lady Macbeth Paoletta Marrocu
Banco Roberto Scandiuzzi
Macduff Luis Lima
Malcolm Miroslav Christoff
Dama di Lady Macbeth Liuba Chuchrova
Il medico Peter Kalman

Coro della Zurich Opera House
Maestro del coro: Jurg Hammerli

Orchestra della Zurich Opera House
Direttore: Franz Welser-Most

Regia: David Pountney
Ripresa televisiva: RM Associates Production

Scenografie: Stefanos Lazaridis
Costumi: Marie-Jeanne Lecca
Luci: Jurgen Hoffmann
Coreografia: Vivienne Newport

Ed. discografica: TDK, 2 DVD


Registrato nel 2001, presso l’Opera House di Zurigo

Note tecniche di registrazione: ottimo livello di riprese visive e foniche.

Pregi: l’inventiva in generale della regia di Pountney, gli interpreti tutti, la direzione di Welser-Most.

Difetti: I costumi di Marie-Jeanne Lecca; solo alcuni tratti della regia di Pountney; la vocalità talvolta un po’ arida di Hampson.

Valutazione finale: images/giudizi/buono.png




La versione scaligera di Graham Vick del Macbeth diretto da Muti era diventata celebre all’epoca semplicemente per aver incentrato il suo spirito e le sue energie su un grande cubo ‘modernista’ atto a dominare la scena e i cantanti. Di quella edizione personalmente salvo in buona parte la direzione di Muti, il talento di Bruson (che a dire il vero emerge maggiormente nella versione in dvd per Berlino diretta da Sinopoli grazie anche all’impronta di Ronconi), e in parte (ma solo in parte) la Lady della Guleghina; come pure salvo il piglio eroico e le qualità canore di Alagna e certe capacità di Colombara come Banco. Mentre invece boccio in toto una regia così arida e così priva di spessore (e i costumi, ripugnanti, di Maria Bjornson). L’idea del cubo viene ripresa a distanza di qualche anno dal grande regista David Pountney, ma in questo allestimento per Zurigo si vola a quote ben più alte.
La scenografia ruota intorno a poche idee essenziali: oltre al cubo menzionato (più piccolo rispetto a quello adoperato da Vick, ma utilizzato seguendo criteri simili, e arricchito spesso nel suo interno da specchi), si scorge in alto un cielo visto prospetticamente (e quindi in qualche modo movimentato, dinamizzato) con un grande squarcio al centro. E un’immensa parete sul lato sinistro che si restringe man mano dando così un forte senso di profondità alla scena. A questi elementi, si aggiungono un telo trasparente che di tanto in tanto viene calato sulla scena, che rappresenta il quadrante di un grande orologio (tra l’altro visto rivoltato) e un fulmine rosso sangue che attraversa la scena in obliquo.
Il ritmo narrativo che Pountney (dal punto di vista scenico) e Welser-Most (dal punto di vista musicale) imprimono alla vicenda non trova molti termini di paragone. Siamo di fronte indubbiamente ad una grande realizzazione. Ho avuto la fortuna, tra l’altro, di assistere ad una ripresa di questo spettacolo sempre a Zurigo, nel 2005. Il direttore era Paolo Carignani; Banco era interpretato da Matti Salminen, e Macduff era Piotr Beczala. Per il resto il cast era pressoché immutato rispetto a quello della registrazione effettuata a Zurigo nel 2001. Probabilmente l’unica miglioria in generale era data dal grande talento di Beczala, che ricordo fece vibrare ed entusiasmò anche tutto il pubblico zurighese soprattutto con la sua aria del Quarto Atto. Ma non esito a riconoscere a Luis Lima ottime doti sia attoriali che musicali.
Voglio indicare subito i momenti di maggiore ispirazione della regia di Pountney. E’ difficile rinvenire un pensiero unitario, una concezione di fondo in questa interpretazione registica. Le idee assumono il valore di intuizioni (spesso geniali) frammentarie, che conferiscono a quel preciso istante in cui si attuano un particolare effetto. Nella regia della Cavani, come pure in quella più remota di Ronconi, si può scorgere al contrario un’idea centrale, contornata da tutta una serie di invenzioni funzionali a dare risalto a quell’idea portante. E’ quindi difficile nell’allestimento di Pountney cogliere una sorta di ‘gerarchia’ tra queste intuizioni. La gerarchia la offre eventualmente la struttura musicale e drammaturgica dell’opera, sulla quale si plasmano tali idee registiche.
Parto proprio dalla Scena ed aria di Macduff “O figli…Oh, la paterna mano” appena menzionata. E’ proprio il cubo (le cui funzioni variano da momento a momento della vicenda, un po’ come succedeva nella regia di Vick) a servire a Pountney per ottenere qui un effetto di grande impatto emotivo. Quando infatti il coro non ha ancora concluso il suo “Patria oppressa”, il cubo mostra a Macduff, contornati da una luce al neon azzurrina (molto surreale e fredda come la morte), i figli e la moglie uccisi ma ricomposti in un ‘quadretto’ totalmente immobile e muto, la cui dolcezza commuove e ispira il cuore di Macduff, ma anche quello dello spettatore. I figli e la moglie ora osservano Macduff da quella posizione nobile, senza poter interagire con lui e senza che lui possa interagire con loro. Macduff inizia a cantare dando loro le spalle, e durante l’aria la parete del cubo lentamente si chiude.
Un altro momento memorabile (un dettaglio, ma pur sempre incisivo) è la stretta di mano di congedo tra Macbeth (un Thomas Hampson efficace, Macbeth selvaggio e brutale) e Banco dopo che le streghe hanno espresso i loro vaticini: non un’amichevole stretta di mano come inizialmente pensa Banco (l’espressivo Scandiuzzi), ma un turbato sguardo pensieroso di Macbeth sul volto perplesso di Banco, che non sa perché Macbeth lo stia fissando in quel modo, e per di più, per un periodo così irrealisticamente lungo. In certo qual modo, il destino di Banco è già segnato.
Un altro momento impossibile da dimenticare è quello in cui il cadavere di Duncano (esile, non molto alto, quasi il corpo di una donna, con un’impressionante maschera dorata sul volto) viene fatto scivolare sul coro durante il Concertato che chiude il Primo Atto. A teatro, questa idea registica acquistava una risonanza di altissimo valore. Il sentimento di morte e di ‘odore’ di morte trova spesso nell’immagine della maschera una potente amplificazione. Banco ignaro mette in braccio a Macbeth quel cadavere; il volto del generale si sfiora con quella maschera ‘perturbante’ in un clima di lancinante disperazione. Macbeth e Lady Macbeth (Paoletta Marrocu) serbano dentro il proprio segreto, ma è proprio la necessità di tacere che li porta alla disperazione. Alla fine, durante le ultime battute del Concertato, il coro, in modo quasi onirico, punta il dito contro Lady Macbeth, quasi che il feroce rimorso la portasse già ad un’allucinazione psicotica (specularmente a quelle che saranno le visioni di Banco da parte di Macbeth nella Scena del banchetto).
L’immagine di Duncano ritorna (e anche qui l’idea concepita da Pountney è di grande efficacia) sul finire della Cabaletta “La patria tradita”; il re entra in scena in modo poco appariscente, si fa largo tra la folla con in mano la spada che Macduff afferra una volta terminato il suo acuto (e, questa è la cosa notevole, senza minimamente accorgersi di chi gliela stia porgendo). Pountney si fa dunque abilissimo concertatore dell’umano e del sovrannaturale, con un sovrannaturale che gioca e si intrufola nel mondo degli umani (Shakespeare docet).
Memorabile è pure l’idea registica, nella Scena del banchetto, del lungo tavolo (percorre l’intera scena) che, inizialmente coperto da una tovaglia bianca, nel momento delle apparizioni di Banco si trasforma in un lungo tronco d’albero visto in sezione e riempito di terra (il sepolcro terribile di Banco).
Di fortissimo impatto è poi la scena della ‘foresta che avanza’. Analogamente a quanto era avvenuto con i figli e la moglie di Macduff, ora è Macbeth che dopo aver intonato col coro di soldati le parole “La morte o la vittoria” scorge nell’interno del cubo il corpo in piedi di Lady Macbeth, che, una volta da lui baciata, cade a terra. Mi commuove il fatto che nel momento di massima enfasi guerresca Macbeth rivolga un ultimo pensiero d’amore verso la propria carnefice. Se nell’edizione del 1972 incisa in dvd il regista bulgaro Hadjimischev, come pure la Cavani nel suo allestimento per Parma, fanno avanzare i soldati nascosti ciascuno da un ramo (seguendo alla lettera le intenzioni di Shakespeare poi riprese da Verdi), Pountney opta per una soluzione originalissima: non appena Lady cade, una folla di bambini bendati (quasi simbolo dell’innocenza e della purezza che sconfigge il male) percuotono le pareti del cubo con i rami, creando per Macbeth un rumore assordante, che è in definitiva il rumore della sconfitta e della morte. L’impatto con la foresta dunque all’inizio non è visivo, ma uditivo e quasi tattile (Macbeth ode anche le vibrazioni di quelle percosse): invenzione, come dicevo, di straordinario effetto. Poi quegli stessi bambini bendati entrano nel cubo e passano in modo disordinato attorno a Macbeth (oramai del tutto impotente), quasi avvolgendolo di fronde. E l’uccisione di Macbeth Macduff la provoca trafiggendo una parete del cubo più e più volte (ottima la scelta di stilizzare quel momento di violenza: non pochi registi optano addirittura per non rappresentare in scena l’uccisione di Macbeth).
Macbeth e Lady Macbeth sono visti come due giovani scapestrati ed indemoniati, attirati dal brivido che si può provare ad impugnare lo scettro del potere. Una lettura distante anni luce, per esempio, da quelle di Ronconi e della Cavani, che sembrano al contrario voler indugiare più sul personaggio maschile. Nella interpretazione di Pountney, Macbeth e Lady Macbeth sono come uniti in un unico fuoco, malati della stessa malattia, forgiati dalla stessa pietra, acquistano forza solo se sono vicini l’uno accanto all’altra. Non è solo Lady Macbeth che alimenta il fuoco del marito, ma è un reciproco scambio di energia, di febbrile esaltazione. Se non suonasse paradossale, è proprio nella Scena del Sonnambulismo che Lady Macbeth pare trovare se stessa, e intravedere quella strada che le farebbe trovare per la prima volta la maturità e la consapevolezza. Il senso di ebbrezza giovanile dei due protagonisti Pountney ce lo comunica magnificamente nella Scena del banchetto, laddove Lady Macbeth si diverte a versare infantilmente il vino sulla tavola e sui commensali, quasi una citazione teatrale del “carnevalesco” teorizzato dal grande pensatore e critico letterario russo Bachtin. Macbeth la guarda e cela a fatica le risate, osservando al tempo stesso le reazioni dei commensali. E non è forse questo un esempio di grande realismo psicologico? L’assassino mostra il suo temperamento fragile, infantile, che si diverte per sciocchezze, e che punta a scalare delle vette in realtà che non gli appartengono, per il puro gusto di sfidare il mondo e di oltrepassare i limiti, perché questo è il brivido che cerca.
Ho lasciato appositamente per ultime le streghe, forse l’unico elemento (sofisticato ma sterile) nella regia di Pountney che cerca l’’effetto’ senza soddisfare e alimentare però più di tanto la componente emotiva dello spettatore. Le streghe, indossando degli orrendi vestiti fuxia o rossi - tra parentesi, anche la pelliccia verdina di Macbeth nella Scena del banchetto è di pessimo gusto e mediocri sono le tute da operai dei sicari; concediamo pure a Lady Macbeth di tenere un abitino sado-maso nel Primo atto, che ci permette di intravedere il seno procace della Marrocu, compresso dalle fibbie - sono compatte nello spirito che le anima (sono concepite come donne da manicomio, stigmatizzate nei loro movimenti meccanici e ripetitivi) ma differenziate da questi stessi movimenti e dagli oggetti che portano in mano (ognuna è caratterizzata da un oggetto diverso che funge quasi da ‘copertina di Linus’: una radio portatile, un cerchio da hula-hoop, una macchina da scrivere, un bicchiere, un foglio da ritagliare, etc.). Ma, appunto, una rappresentazione delle streghe che lascia abbastanza freddi, anche a teatro. Nella pluralità caotica delle azioni e nella unificazione sostanziale dei caratteri di queste donne ‘moderne’ si può forse cogliere l’alienazione e la follia dei tempi moderni?
Oltre alle streghe, l’elemento sovrannaturale è rappresentato anche da delle comparse rivestite da capo a piedi da fogli di giornale, dalle movenze e dal passo lenti e innaturali, suscitando nell’animo dell’ascoltatore un clima da film horror. All’inizio del Terzo atto, due di questi personaggi emergeranno di colpo a mezzo busto dalla terra della tavola-tronco d’albero (ancora presente in scena) suscitando lo spavento delle streghe (per cui è probabile che tali esseri rappresentino una forza sovrannaturale gerarchicamente superiore alle streghe stesse).
Oltre ad un Thomas Hampson di grande rilievo vocale e scenico (anche se la sua voce è sempre un po’ ‘arida’ e non ricchissima di armonici, e certe sue ‘gridate’ sapientemente attoriali tendono però a urtare contro le orecchie dello spettatore) e alla Lady della Marrocu (arcigna e grifagna al punto giusto, con una buona sensibilità scenica e con una vocalità senza dubbio preziosa) segnalo il Banco di Roberto Scandiuzzi, ottimo vocalmente, espressivo, nobile nel portamento, sofferto e meditabondo nell’espressione. Luis Lima, come già accennato, è un grande Macduff, dalla bella voce e scenicamente molto incisivo. Grandissima e vibrante la direzione di Welser-Most, che sa cogliere con sapienza tutta la bellezza della partitura di questo capolavoro di Verdi.


Luca Mantovanelli

Categoria: Dischi

 

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