Venerdì, 19 Aprile 2024

Tristan und Isolde

Aggiunto il 25 Giugno, 2006


Richard Wagner
TRISTAN UND ISOLDE

Personaggi e interpreti:
• Tristan THOMAS MOSER
• König Marke ROBERT HOLL
• Isolde DEBORAH VOIGT
• Kurwenal PETER WEBER
• Melot MARKUS NIEMINEN
• Brangäne PETRA LANG
• Ein Hirt MICHAEL ROIDER
• Ein Steuermann IN-SUNG SIM
• Ein junger Seemann JOHN DICKIE


Chor un Orchestre der Wiener Staatsoper
(Chorus Master: Ernst Dunshin)

CHRISTIAN THIELEMANN

5/2003, Wien
Registrazione dal vivo

Edizione discografica: DGG
3 CD a prezzo pieno

Note tecniche: registrazione molto ben equilibrata, con corretto rapporto voci-orchestra; prsenza del pubblico avvertibile, ma non fastidiosa; qualche rumore di scena, accettabile
Pro: ottimo lavoro di squadra
Contro: scarso numero di tracks
Valutazione complessiva: images/giudizi/buono-ottimo.png

La presente pubblicazione segnalò, dopo un certo periodo di tempo, la ricomparsa della gloriosa etichetta gialla fra le incisioni discografiche d’opera, per la gioia dei melomani che erano e sono affezionati a questo marchio inconfondibile. Recenti, alterne vicende avevano visto la DGG rappresentata solo dalla prestigiosa collana Archiv (che, come sappiamo, pubblica il repertorio musicale antico), e da diversi dischi singoli, non sempre – per il vero – di ottima qualità. In un’ottica francamente non sempre condivisibile che vede la Deutsche Grammophon investire risorse in riproposte – specie tenendo conto del fatto che hanno in catalogo due must assoluti per lo stesso titolo, vale a dire l’incisione di Bohm con la Nilsson e Windgassen, e quella ormai celeberrima di Carlos Kleiber con Dame Margeret Price e René Kollo – ecco un Tristan live che ripropone lo spettacolo dell’anno scorso dello Staatsoper.

La discografia di quest’opera è sconfinata, e ce n’è veramente per tutti i gusti. Oltre a tutto, per il perfect wagnerite è veramente difficile rinunciare a qualcuna di esse, di studio o live che esse siano. Se dovessimo sceglierne una da portarmi nella fatidica isola deserta, saremmo seriamente in imbarazzo. È vero che quella di Furtwängler è giunta piuttosto tardi per la protagonista, ma chi mai se la sentirebbe di rinunciare a cuor sereno alla performance di Kirsten Flagstad, peraltro documentata anche in alcuni live (Beecham e Leinsdorf su tutti)? Se pensiamo a Karajan, il già citato perfect wagnerite dovrebbe rispondere a colpo sicuro: 1952! Il live che documenta con splendido suono l’inizio ufficioso dell’era della Neue Bayreuth presenta un cast veramente inquietante con Martha Mödl (da brivido, e non aveva nemmeno tutte le note che la terribile parte le richiedeva), Ramon Vinay, Hans Hotter, Ira Malaniuk e Ludwig Weber (per tacere di Rudolf Shock come Pastore!), ma l’incisione di studio realizzata per la Emi negli Anni Settanta ci offre la presenza carismatica di Jon Vickers, il più incredibile Tristan della storia dell’opera, al culmine delle proprie immense possibilità che, con l’accompagnamento del Vecchio Satrapo, rende indispensabile l’ascolto attento e commosso del Terzo Atto, una delle trappole più sadiche mai inventate da un musicista per la voce di tenore, e che necessita veramente di un fuoriclasse per evitare seri danni alla pazienza dell’ascoltatore, già messe a dura prova dal non meno “sublime” monologo di Re Marke del Secondo Atto.
Entrambi i Kleiber, padre e figlio, hanno lasciato un segno indelebile nella direzione di quest’opera; ma la palma del più famoso – grazie anche ad una registrazione proprio della Deutsche Grammophon – va sicuramente a Carlos, che ha assemblato un cast sulla carta molto debole nei protagonisti che invece, alla resa dei conti, sono entrati nella Storia dell’interpretazione. E se uno è proprio allergico alla furia affascinante ma molto british della Price e ai tormentoni strazianti ma molto sforzati di Kollo, può comunque rivolgersi con profitto al live del 1978, in cui compare la più blasonata Isolde degli anni Settanta-Ottanta, cioè quella Catarina Ligendza che ha interpretato il ruolo ovunque fuorché in disco
Certo, si potrebbe rinunciare a Bernstein, catartico come la poesie di Oreglio (ma assai meno divertente) e alle prese con un cast che più squinternato non si potrebbe: una Behrens con isolati sprazzi di genialità nel fraseggio, ma la voce ai minimi termini; e un Hofmann che, esauriti gli atouts mutuati col celebre Parsifal di Karajan, non ha nemmeno quei barlumi che animavano l’interpretazione della partner. Però sarebbe un peccato: chi rinuncerebbe a una sola delle poche interpretazioni operistiche (nonché l’unica wagneriana) di Bernstein, per balorda che sia?
Si potrebbe rinunciare a Bohm? Nossignori. Anzi, sarebbe il momento di rivalutare le splendide interpretazioni wagneriane di Bohm. La direzione è leggera, vibratile, nervosa come si addice al grande Artista che fu. Vi compaiono, poi, Birgit Nilsson e Wolfgang Windgassen, in uno di quei connubi baciati da quel respiro di comunione d’intenti che solo le grandi intese cementate da anni ed anni di recite vissute insieme sapevano realizzare.
Ne tralasciamo un bel po’, i no wagnerites ci prendano in parola, ma più per mancanza di spazio che non per mancanza di rispetto. E non potrebbe essere altrimenti, giacché siamo veramente di fronte ad un’operona se mai se n’è vista (ed ascoltata) una, che richiede polmoni d’acciaio, sentimenti al cubo e cuore oltre l’ostacolo. In questo parterre veramente regale, che annovera sostanzialmente tutte le Grandi Glorie del canto di ogni tempo e qualche rimpianto per chi non vi è mai comparso (per un po’ di tempo si favoleggiò dell’eventualità che vi si cimentassero – insieme – Montserrat Caballé e Plàcido Domingo; l’hanno fatto indipendentemente l’uno dall’altra, e con risultati decisamente differenti, disastroso la Caballé, stratosferico Domingo), ecco arrivare anche questa ripresa di uno spettacolo come quello viennese che annoverava sostanzialmente il miglior cast possibile dei nostri tempi.
Ha quindi una sua ragione di essere? La risposta, da questo punto di vista, cioè di documentazione di un’epoca interpretativa, non può che essere sì, se poi, come nella fattispecie, si scoprono anche motivi d’interesse che vadano al di là della mera documentazione, allora l’edizione in questione può scalare rapidamente le classifiche ed entrare in quelli che, ai tempi in cui eravamo rockettari, avremmo definito i “dischi caldi”.
La prima sorpresa arriva da Thielemann, che ci aspettavamo turgido e peccaminoso come un Barenboim in sedicesimo, e da cui ci immaginavamo un Tristan versione a metà strada fra Cime tempestose e I peccati di Peyton Place, e che invece sembra assecondare un istinto febbrile che oggi va poco di moda. Il suo Tristan (che, non a caso, sta in 3 CD come qualche live di buona rinomanza e nessuna incisione in studio), parafrasando Bruckner, è una bella scopetta che va dritto allo scopo senza fronzoli di sorta, ma senza perdere mai nemmeno per un attimo il filo della narrazione. Si perde solo – come ahimè tutti quanti, ma qui il problema non è mai nel direttore – nel tragico, insopportabile, lagnosissimo monologo di Re Marke, 12 minuti e 50 secondi di tremende geremiadi che non si riscattano nemmeno con un basso fuoriclasse (e l’unico che ci si avvicina in tutte le registrazioni dal vivo o in studio è Ludwig Weber con il primo Karajan; il resto, una strage). L’altro grande banco di prova per temperare la sopportazione dell’ascoltatore è il temibile Terzo Atto, prova mostruosamente difficile non solo per il tenore, che qui scorre con invidiabile serenità e leggerezza, tanto da indurre alla tentazione di un rapido riascolto. E il merito, in questo caso, va diviso con il sorprendente Thomas Moser che, partito anni fa come tenore lirico della più bell’acqua, negli ultimi anni ha interpretato la propria personalissima rivoluzione copernicana dedicandosi pressoché esclusivamente al repertorio wagneriano e straussiano. La voce ha perso di smalto e di freschezza, di conserva anche con l’avanzare dell’età; ma l’interprete dimostra di essere vario ed articolato, e gli si perdona con facilità qualche nota non propriamente cristallina. Dobbiamo dire che i primi due atti di Moser sono piuttosto altalenanti. Il primo atto rivela un personaggio dolorosamente stupito e quasi incapace di sostenere il peso della rivelazione dell’amore, ed è una traccia nella quale l’interprete si cala con molta proprietà e credibilità. Nel secondo atto, invece, il celeberrimo duetto lo mette terribilmente alla frusta, tanto da indurre nell’ascoltatore sofferenze di peso non banale. Il terzo atto, peraltro, è semplicemente indimenticabile, e non è molto lontano come potenza visionaria ed evocativa, da quel capolavoro confezionato da Vickers con Karajan. E quindi, alla fine, il personaggio c’è.
Ma – per bravo che sia Moser, e lo è davvero – il vero asso di questa registrazione è la cantante che arriva col ruolo di Isolde alla propria piena maturità d’artista, e che si chiama Deborah Voigt.
Voce raccolta e ben proiettata in scatti di furore che dipingono una protagonista imbronciata e ben poco incline a tenerezze estenuate, ma Principessa nel profondo dell’animo, facilmente credibile nella propria furia vendicativa. Certo, invano si cercheranno nel canto della Voigt l’allure della Flagstad, la violenza belluina della Mödl o la suprema ironia della Nilsson; la cantante americana ci propone però un cocktail ridotto, concentrato ma efficace di tutte queste visioni che, peraltro, è ben amalgamato da un’emissione vocale in grado di reggere sino alla fine un ruolo come questo, non proprio di tutto riposo. E lo fa con la sua voce, senza gonfiare petto e guance à la Schnaut o à la Eaglen, creando un personaggio di impatto notevolissimo (la sua chiusa del duetto con Brangäne all’inizio del secondo atto, il “Frau Minne will, es werde nacht” mette veramente i brividi, anche se ricordo almeno due-tre interpreti che sostenevano meglio di lei questo passaggio), ricco di violenza espressiva e di febbrile eccitazione. Privo di estenuazione liberty anche il celeberrimo Liebestod, che sembra invece persino sorridente, quasi una constatazione: davvero eccitante!
Molto brava Petra Lang, Brangäne di voce quasi da Falcon, ma ben emessa e proiettata.
Peter Weber ha voce chiara che si pone modelli stilistici che richiamano Fischer-Dieskau. I risultati sono complessivamente buoni, anche se non brillano per particolare originalità. Oltre a tutto, nel terzo atto Moser sembra sicuramente più scuro di lui, generando qualche confusione nell’ascoltatore…
Robert Holl si disimpegna con la consueta professionalità, ma non riscatta il suo lugubre personaggio dalla noia in cui affonda ad ogni passo.
Una menzione particolare per il pastore di Michael Roider, di voce piena e squillante.
Disco quindi fortemente raccomandabile, non solo per coloro che vogliono una testimonianza di un’epoca interpretativa come la nostra, di cui quest’incisione fornisce uno spaccato affidabile e veritiero.
Un ultimo appunto per la Deutsche Grammophon, che ritorna felicemente sul mercato discografico operistico: la suddivisione in track dei dischi è di una povertà desolante. Possiamo rassegnarci alla mancanza di una sinossi italiana, ma è anche da dettagli come questo che un utente può apprezzare la cura con cui viene confezionato un prodotto. Non è proprio possibile fare uno sforzo in più nell’assemblaggio?...

Categoria: Dischi

 

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