Venerdì, 19 Aprile 2024

Madama Butterfly

Aggiunto il 13 Giugno, 2006


A leggere sul database del Metropolitan c’è da rimanere a bocca aperta: nel 1962, nel corso delle produzione del Met, si alternavano come Ciociosan nientemeno che Dorothy Kirsten, Leontyne Price, Lucine Amara e, appunto, Gabriella Tucci, qui testimoniata in una prova di buona – pur se non eccezionale – qualità.
Perché non eccezionale?
È difficile da dirsi, in realtà. Soprano di bella e robusta voce, poco incline – per il vero – a quelle modulazioni ed introflessioni che in un personaggio così ambiguo e pieno di contraddizioni anche psicotiche appaiono francamente indispensabili, le manca – a nostro personalissimo giudizio – quel quid di personalità che rende un cantante immediatamente riconoscibile e trasforma una prestazione da ottima in memorabile. E così, la sua Butterfly si ascolta globalmente con piacere, anche se il primo atto è poco credibile visto che la Nostra canta benissimo ma fa spesso la voce grossa, scambiando probabilmente la piccola musmé per una versione nipponica di una di quelle eroine verdiane di cui è stata una grande specialista. A tal proposito, mi sembra, il gran duetto del primo atto naufraga clamorosamente, e non solo – va detto – per colpa del soprano; quello che le fa difetto è il senso del mistero, della scoperta attonita e gioiosa del mistero dei sensi, che è un momento assolutamente magico, fra quelli più alti inventati da Piccini. Va anche detto, per inciso, che è eccezionalmente difficile da rendere per qualsiasi interprete, viste le difficoltà vocali di cui tutta la partitura è disseminata. Tutto sommato, il meglio di questa performance va decisamente ricercato nel secondo atto, in cui si ascolta un ottimo Un bel dì vedremo, ricco di senso di sospensione e anche di quel pratico buon senso che rende, per certi versi, ancora più straziante l’attesa di Butterfly; e tutta la scena di Yamadori e il Che tua madre, in cui le espansioni vocali trovano nella Tucci un’interprete di voce ben più che generosa: un autentico soprano drammatico che, se riesce a rendere correttamente le ragioni vocali del personaggio, ne è invece assai distante da un punto di vista interpretativo. Complessivamente continuiamo a preferirla in personaggi di respiro più aulico come Leonora del Trovatore, ma non le negheremo per questo la palma di migliore in campo, ex aequo col direttore. Che, nella fattispecie, è un Fausto Cleva spigliato, ricco di buon senso e anche – diremo – notevolmente ispirato nel rendere con una certa patina di crudeltà le tristi vicende della povera giapponesina innamorata e delusa. La spigliatezza della direzione è particolarmente apprezzabile in momenti tradizionalmente languorosi e stucchevoli come il coro muto o il francamente inutile intermezzo. Nel complesso, sicuramente una direzione da ricordare, come la maggior parte di quelle testimoniate di questo bravo Maestro, troppo spesso sottovalutato (ma questo è un discorso che meriterebbe un maggiore approfondimento, e che riguarda oltre Cleva anche altri direttori come Votto, Molinari-Pradelli, Adler e altri ancora).
In questo interessante contesto, sicuramente figlio del suo tempo, proprio Bergonzi non ci sta, nemmeno con tutte le attenuanti del caso da tributare all’altissimo magistero di cui Egli fu un insigne esponente. Il suo Pinkerton è proprio un disastro, da qualunque parte lo si rigiri.
Anche a voler sorvolare sui suoi difetti di pronuncia (che tutto sommato, essendo egli madrelingua, avrebbe anche potuto fare uno sforzo in più per correggere), ciò che colpisce maggiormente è il datatissimo abuso di portamenti ascendenti che sarebbero sembrati démodées anche in bocca non dico di Beniamino Gigli, ma persino di Fernando De Lucia. Il buon Bergonzi, con la sua pronuncia bella pasciuta, i suoi coccolezzi che sembrano rivolti ad una bambina cerebrolesa, sembra assai più infantile cche non questa Butterfly, la cui caratura vocale orienta più dalle parti di Abigaille che non da quelle di Tytania la Blonde. Se questa è una visione interpretativa ben precisa, la sensazione è che il Sommo Verdiano si aggiusti sulle ampie spalle un vestito da maturo tombeur di fanciulle in fiore, da catturare con quattro chiacchiere piuttosto che con i ben più prosaici dollari americani. E, quanto alla pura cifra vocale (che, teoricamente, è sempre stata la massima espressione della civiltà bergonziana), siamo ai minimi storici: siamo d’accordo che la parte, pur breve che sia, è spigolosa nella sua tenorilità estesa, ma raramente lo abbiamo sentito cantare così male: acuti presi per il collo (infatti suonano alquanto strozzati), tentativi di mezzevoci risolte col rantolo, ed è un rantolo ben poco estatico. Insomma, un autentico disastro.
Nel giudizio negativo, a nostro modesto parere, sono da accomunare anche la a noi sinora sconosciuta interprete di Suzuki, il censurabilissimo Sharpless di Harvuot, il disdicevole coro e la folta orda (ci si perdoni il termine, che ci sembrava quanto mai appropriato) di comprimari, con l’eccezione di Andrea Velis, interessante interprete di quel personaggio nient’affatto banale che è Goro.
Ottimo, come sempre, il riversamento proposto dalla Myto.

Note: ottima masterizzazione, suono ben spaziato con ottimo rapporto voci-orchestra

Pregi: tipica produzione Met Anni 60, con cast bilanciato

Difetti: Bergonzi, purtroppo

Categoria: Dischi

 

Chi siamo

Questo sito si propone l'ambizioso e difficile compito di catalogare le registrazioni operistiche ufficiali integrali disponibili sul mercato, di studio o dal vivo, cercando di analizzarle e di fornirne un giudizio critico utile ad una comprensione non sempre agevole.