Mercoledì, 24 Aprile 2024

Aggiunto il 07 Novembre, 2006

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Marilyn Horne



Note biografiche



Figlia di un tenore dilettante, è nata a Bradford, in Pennsylvania, il 16 gennaio 1934 (o, secondo altre fonti, 1929). Trasferitasi con la famiglia in California, inizia giovanissima lo studio del canto, prima con Hazel Bittenbender e Edna Luce, poi con William Vennard alla University of Southern California. Il debutto operistico ha luogo a Los Angeles nel 1954 con la Guild Opera Company diretta da Carl Ebert; in quell’occasione la Horne interpreta dapprima i ruoli di Hansel in “Hansel e Gretel” di Humperdinck e di Hata nella “Sposa venduta” di Smetana, poi quello della protagonista della rossiniana “Cenerentola”. Nello stesso periodo è chiamata a doppiare per i brani cantati l’attrice Dorothy Dandridge nel film di Otto Preminger “Carmen Jones”, rifacimento in chiave di musical della “Carmen” di Bizet. Particolare importanza, in questa prima fase della sua carriera, la Horne ha sempre attribuito al periodo di studio con Lotte Lehmann, a Santa Barbara: “Lehmann opened up the whole world of what imagination can do for a singer”. Al 1956 risale la sua prima esibizione in Italia, un concerto con musiche di Monteverdi e Schütz nella basilica di San Marco a Venezia, sotto la direzione di Robert Craft.
Nell’autunno del ’56 si trasfersce in Europa, prima a Vienna dove studia repertorio per un anno, poi nella città tedesca di Gelsenkirchen, un centro industriale della Ruhr, dove entra a far parte della compagnia del locale teatro d’opera. Affronta così moltissimi titoli del grande repertorio, soprattutto nel registro di soprano: Mimì, Minnie, Tatiana, Amelia in “Simon Boccanegra”, Marie in “Wozzeck”. Negli Stati Uniti canta “Carmen” e “La fille du régiment”, in Italia è Giocasta in “Oedipus Rex” per la RAI e Gerhilde in “Die Walküre” al San Carlo di Napoli. Il 21 febbraio 1961, una rappresentazione in forma di concerto di “Beatrice di Tenda” all’American Opera Society segna il suo debutto a New York e l’incontro con Joan Sutherland. Inizia così una collaborazione continuativa a fianco della coppia Sutherland-Bonynge, che porta la Horne ad affrontare in maniera sempre più approfondita il repertorio belcantistico stabilizzandosi nel registro vocale del mezzosoprano di agilità. In questa direzione, gli anni Sessanta sono segnati da una serie di debutti nel nome di Rossini: Arsace (1964, alla Carnegie Hall), Isabella (1968, Roma, RAI), Rosina (1968, Maggio Musicale Fiorentino), ancora Arsace ma in forma scenica (1969, Londra, Drury Lane, con Joan Sutherland e Richard Bonynge) fino allo storico Neocle nell’”Assedio di Corinto” alla Scala nell’aprile 1969, diretta da Thomas Schippers. A questo punto della carriera ha già al suo attivo anche un’intensa attività discografica e, oltre a numerosi recital, ha partecipato alla realizzazione di straordinarie registrazioni di “Norma” e “Semiramide” a fianco di Joan Sutherland. Nel 1969 incide, diretta da Georg Solti, “Orfeo ed Euridice” di Gluck. Nel marzo 1970 debutta al Metropolitan come Adalgisa in “Norma”, ancora a fianco di Joan Sutherland e di Carlo Bergonzi. Nello stesso anno canta “Les Troyens” e “Le Prophète” alla RAI e a Roma, assieme a Renata Scotto, Luciano Pavarotti e Nicolai Ghiaurov, il Requiem di Verdi diretta da Claudio Abbado. L’esplorazione di un repertorio per l’epoca del tutto desueto continua con due tappe fondamentali: nel 1974 “Tancredi” (portato nel ’77 all’Opera di Roma) e nel 1978 “Orlando Furioso” di Vivaldi, messo in scena al Teatro Filarmonico di Verona. A questi, si aggiungono nuovi ruoli nel repertorio più tradizionale: Eboli a New York, Amneris a New York e Salisburgo. Nell’estate 1979 è ancora una volta Arsace in “Semiramide” ad Aix-en-Provence, in un fortunatissimo allestimento di Pier Luigi Pizzi che segna il debutto nel ruolo del titolo di Montserrat Caballè e la rivelazione di Samuel Ramey. Gli anni Ottanta vedono la nascita di uno speciale rapporto col Teatro la Fenice di Venezia: dopo il debutto con “Tancredi” vi tornerà come Isabella, Orlando e Rinaldo nelle eponime opere di Handel e con numerosi concerti. Al Rossini Opera Festival di Pesaro dona altri due debutti, Cassandra in “Ermione” e Falliero in “Bianca e Falliero”, oltre a un trionfale concerto all’aperto e a uno Stabat Mater di Rossini sotto la direzione di Giuseppe Sinopoli. Nel 1984 è protagonista di un avvenimento storico: il “Rinaldo” che la vede ancora una volta nel ruolo del titolo è la prima opera di Handel rappresentata al Metropolitan. Nel teatro newyorchese chiude gradatamente la sua attività operistica cantando in “Semiramide”, “The ghosts of Versailles” di Corigliano, “Falstaff” e “Pelleas et Melisande”. Prima del ritiro definitivo prosegue la sua attività nei concerti. La sua ultima apparizione italiana, a Roma, risale al gennaio 1998.



Registrazione



La discografia di Marilyn Horne è vastissima e comprende recital operistici e incisioni integrali ufficiali e non, oltre a molte incisioni nel repertorio sinfonico e liederistico. Questa discografia non è esaustiva e si limita al repertorio operistico e ai titoli indispensabili per una conoscenza non superficiale del legato artistico della cantante americana. Le date indicate sono, quando possibile, quelle della registrazione. Per quanto riguarda i recital, i dati si riferiscono alle pubblicazioni originali che, spesso, non sono state riedite tali e quali in cd ma riutilizzate per dischi miscellanei secondo una pessima abitudine che la Decca ha conservato per molti anni. Quando disponibile, faccio seguire a ciascuna citazione l’indicazione della pubblicazione su cd più vicina all’originale. Per evitare appesantimenti ho preferito privilegiare, quando esistenti, le incisioni ufficiali di opere complete realizzate in studio.

Recital:

- The age of Bel Canto. Lampugnani, Handel, Arne, Boieldieu, Rossini, Bellini, Donizetti, Arditi [con J. Sutherland e R. Conrad]. Decca, 1963 [riedizione integrale, Decca 1996].

- Marilyn Horne recital. Rossini, Meyerbeer, Mozart, Donizetti. Decca, 1964 [riedizione integrale, Decca 2004].

- Arias from French operas. Bizet, Massenet, Saint-Saëns, Thomas. Decca, 1968 [mai riedito integralmente in cd].

- Souvenir of a golden era. Rossini, Bellini, Beethoven, Verdi, Gounod, Gluck, Meyerbeer. Decca, 1972 [mai riedito integralmente in cd].

- Marilyn Horne, arie da “L’assedio di Corinto” e “La donna del lago”. Decca 1973 [riedizione integrale + arie da “Otello” e “Tancredi”, Decca 1988].

- Marilyn Horne dal vivo al Teatro Regio di Parma. Lampugnani, Handel, Rossini, Verdi, Bellini, Donizetti, Thomas, Bizet, Meyerbeer. Bongiovanni, 1981.

- Live from Lincoln Center. Verdi, Bellini, Ponchielli [con J. Sutherland e L. Pavarotti]. Decca, 1981 [riedizione parziale Decca 1987].

- Handel, arie d’opera. Erato, 1982.

- Rossini, arie alternative. Fonit Cetra, 1982.

- Marilyn Horne chante Offenbach, Cherubini, Saint-Saëns, Auber, Gounod, Massenet, Donizetti, Godard. Erato, 1983.

Opere complete:

- Bellini, “Beatrice di Tenda” [Agnese]. Con J. Sutherland, E. Sordello, R. Cassilly, dir. N. Rescigno. New York 1961 [ed. Bella Voce, 1996].

- Bellini, “Norma” [Adalgisa]. Con J. Sutherland, J. Alexander, R. Cross, dir. R. Bonynge. Rca, 1964 [poi Decca].

- Rossini, “Semiramide” [Arsace]. Con J. Sutherland, J. Rouleau, J. Serge, S. Malas, dir. R. Bonynge. Decca, 1965.

- Ponchielli, “La Gioconda” [Laura Adorno]. Con R. Tebaldi, C. Bergonzi, R. Merrill, dir. L. Gardelli. Decca, 1967.

- Berlioz, “La damnation de Faust” [Marguerite]. Con N. Gedda, R. Soyer, D. Petkov, dir. G. Prêtre. Roma (Rai), 1969 [ed. Opera d’oro, 2001].

- Berlioz, “Les troyens” [Cassandre]. Con N. Gedda, S. Verret, V. Luchetti, R. Massard, dir. G. Prêtre. Roma (Rai), 1969 [ed. Opera d’oro, 2003].

- Rossini, “L’assedio di Corinto” [Neocle]. Con B. Sills, J. Diaz, F. Bonisolli, dir. T. Schippers. Milano, 1969 [ed. Opera d’oro, 2001].

- Donizetti, “Anna Bolena” [Giovanna Seymour]. Con E. Souliotis, N. Ghiaurov, J. Alexander, dir. S. Varviso. Decca, 1970.

- Gluck, “Orfeo ed Euridice” [Orfeo]. Con P. Lorengar, H. Donath, dir. G. Solti. Decca 1970.

- Bellini, “I Capuleti e i Montecchi” [Romeo]. Con P. Brooks, S. Barbieri, P. Cho, dir. H. Lewis. New York, 1971 [ed. Ponto, 2003 di una selezione della recita del 10 novembre, seguita dal finale di “Giulietta e Romeo” di Nicola Vaccai, Dallas 1977].

- Gluck, “Iphigénie en Tauride” [Iphigénie]. Con R. Stilwell, W. Hollweg, Z. Kelemen, dir. H. Lewis. Torino (Rai), 1974 [ed. Bella Voce, 2000].

- Massenet, “La Navarraise” [Anita]. Con P. Domingo, S. Milnes, N. Zaccaria, dir. H. Lewis. Rca, 1975.

- Meyerbeer, Le Prophète [Fidès]. Con J. McCracken, R. Scotto, J. Hines, dir. H. Lewis. Cbs, 1976.

- Verdi, “Il Trovatore” [Azucena]. Con J. Sutherland, L. Pavarotti, I. Wixell, dir. R. Bonynge. Decca, 1976.

- Verdi, “Aida” [Amneris]. Con L. Price, P. Domingo, J. Morris, C. McNeil, dir. J. Levine. New York, 1976 [ed. Gala, 1999].

- Thomas, “Mignon” [Mignon]. Con A. Vanzo, R. Welting, N. Zaccaria, F. von Stade, dir. A. de Almeida. Cbs, 1977.

- Vivaldi, “Orlando furioso” [Orlando]. Con V. de los Angeles, L. Valentini Terrani, C. Gonzales, L. Kozma, S. Bruscantini, dir. C. Scimone. Erato, 1977.

- Donizetti, “Lucrezia Borgia” [Maffio Orsini]. Con J. Sutherland, J. Aragall, I. Wixell, dir. R. Bonynge. Decca, 1977.

- Rossini, “L’italiana in Algeri” [Isabella]. Con E. Palacio, S. Ramey, D. Trimarchi, dir. C. Scimone. Erato, 1980.

- Rossini, “La donna del lago” [Malcom]. Con F. von Stade, R. Blake, D. Raffanti, dir. C. Scimone. Houston, 1981 [ed. Ponto, 2003].

- Rossini, “Il Barbiere di Siviglia” [Rosina]. Con P. Barbacini, L. Nucci, S. Ramey, dir. R. Chailly. Fonit Cetra, 1982.

- Rossini, “Tancredi” [Tancredi]. Con L. Cuberli, E. Palacio, N. Zaccaria, dir. R. Weikert. Venezia, 1983 [ed. Warner Fonit, 1999].

- Rossini, “Bianca e Falliero” [Falliero]. Con K. Ricciarelli, C. Merritt, G. Surjan, dir. D. Renzetti. Pesaro, 1986 [ed. Ricordi, 1992].

- Handel, “Rinaldo” [Rinaldo]. Con C. Gasdia, C. Weidinger, E. Palacio, dir. J. Fisher. Venezia, 1989 [ed. Nuova Era, 1989].

- Handel, “Semele” [Juno/Ino]. Con K. Battle, S. Ramey, J. Aler, dir. J. Nelson. Deutsche Grammophone, 1990.



Commenti



Rodolfo Celletti ebbe a distinguere spesso fra grandi cantanti e cantanti storicamente grandi. Artisti, questi ultimi, che non solo lasciano nella storia del teatro in musica il segno di un luminoso passaggio, ma che vi imprimono una svolta sostanziale, cambiando lo stato delle cose al punto da diventare discrimini fra un “prima” e un “dopo” di loro. Enrico Caruso e Maria Callas sono ovviamente i nomi che a questo proposito vengono subito alla mente relativamente al ventesimo secolo; essi furono alfieri di opposte rivoluzioni, l’uno nel segno dello stravolgimento dello stereotipo belcantistico del tenore di grazia, l’altra nel recupero di quell’estetica ottocentesca che dava valore profondamente drammatico al canto fiorito e al virtuosismo, recuperato a tipologie vocali (in primis quella del soprano drammatico) da cui i fraintendimenti del verismo l’avevano nettamente separato. A oltre cinquant’anni dal suo debutto e a quasi dieci dal suo ritiro dalle scene, possiamo affermare che Marilyn Horne è stata per la voce di mezzosoprano/contralto quello che Maria Callas fu per i soprani: un riferimento imprescindibile per quanti sono venuti dopo di lei, il punto di partenza per la creazione e la stabilizzazione di una tipologia vocale (quella del mezzosoprano/contralto d’agilità, a proprio agio nel repertorio sette e ottocentesco e particolarmente portato ai ruoli en travesti) da lungo tempo praticamente scomparsa, la figura grazie alla quale titoli da tempo immemorabile assenti dalle scene (uno per tutti: “Tancredi”) sono stabilmente rientrati in repertorio.
La Horne non è mai stata un contralto, anche se la trucibalda sfrontatezza del suo registro grave, acquisita con un lungo e rigoroso lavoro tecnico, inganna spesso l’ascoltatore superficiale. Nata soprano con un registro acuto non particolarmente luminoso o sviluppato e, al contrario, uno centrale corposo e morbidissimo, iniziò abbastanza rapidamente, dopo gli anni della gavetta tedesca, un progressivo avvicinamento al registro del mezzosoprano acuto, una tipologia vocale che le consentì nella prima fase della carriera ibride frequentazioni, alternando Agnese del Maino ad Arsace, Lucrezia Borgia (nel ruolo del titolo; fu in sostituzione di lei indisposta che, a New York, si rivelò Montserrat Caballè) ad Angelina. Anche quando, dalla fine degli anni Sessanta, il lavoro sul registro grave portò a un ulteriore scurimento del timbro, amplificato dal cipiglio magniloquente ed eroico con il quale affrontava i prediletti ruoli maschili, Marilyn Horne restò sostanzialmente un mezzosoprano acuto. Non possedeva la tinta drammatica che ha fatto di Fiorenza Cossotto il mezzosoprano verdiano per eccellenza, né il velluto screziato di Lucia Valentini Terrani o di Shirley Verret: la sua emissione, immascheratissima, totalmente appoggiata sul fiato, quasi sempre rifuggente dai suoni di petto, si caratterizzava per una nettezza, una omogeneità, un uso del legato che la rendevano ideale per il repertorio belcantistico, da Handel a Donizetti. Ma la Horne ha spaziato ben al di là di questi confini: poco prima di quell’”Assedio di Corinto” con Thomas Schippers che fu una pietra miliare della Rossini Renaissance, la Scala l’aveva vista pietrificata Giocasta sul tapis roulant ideato da Pierluigi Pizzi; alla Rai fu Cassandre in “Les Troyens” ma soprattutto Fidés in “Le Prophète”, una creazione per la quale l’unico paragone instaurabile fu quello con il fantasma di Pauline Viardot; a Salisburgo (con Karajan, un rapporto sofferto e poco felice) e soprattutto a New York fu un’Amneris trascinante e in disco con Bonynge un’Azucena strepitosa quanto controcorrente. La sua attività concertistica fu anche estesissima, e spaziò dal canto da camera tedesco, francese, spagnolo e americano alle grandi composizioni con orchestra di Mahler, Brahms, Wagner, dei cui Wesendonck Lieder ha lasciato in disco, diretta da Zubin Mehta, una versione di riferimento.
Il segno fondamentale, però, la Horne l’ha lasciato nel repertorio che con dizione imprecisa definiamo oggi belcantistico, ovvero quello che va dall’opera settecentesca all’ottocento di Rossini, Bellini, Donizetti e Meyerbeer. Il primo recital discografico della cantante americana fu inciso in seguito al suo incontro con Joan Sutherland, avvenuto nel 1961 sul palcoscenico della Carnegie Hall per una “Beatrice di Tenda” di cui è fortunatamente rimasta la testimonianza sonora. Guidata dal marito Richard Bonynge, la Sutherland aveva schiuso al pubblico orizzonti inimmaginabili solo pochi anni prima con la sua stupefacente ricreazione del mito belcantistico della voce-strumento. Nel 1963, Marilyn Horne fu chiamata da Bonynge ad affiancare la Sutherland e il tenore Richard Conrad nell’incisione di un cofanetto intitolato “The age of Bel Canto”. Sulle quattro facciate di quegli Lp, brani di un repertorio allora sconosciuto si alternavano con qualche altro più noto ma praticamente reinventato rispetto a quella che era la tradizione interpretativa dell’epoca. La Horne si presentava con alcuni brani che sarebbero divenuti costanti nel suo repertorio: “Superbo di me stesso” da “Meraspe” di Giovanni Battista Lampugnani, l’aria di Juno da “Semele”, un duetto da “Semiramide”, il brindisi di Maffio Orsini. L’incontro con Bonynge e la Sutherland è un evento che ha segnato la storia del canto del Novecento e ha dato luogo ad alcuni dei più alti raggiungimenti interpretativi che il disco testimoni. Se si volessero ricercare, nella discografia, alcuni esempi che da soli possano illuminare fino in fondo l’essenza più intima del belcanto, questi sarebbero certamente i duetti da “Norma” e “Semiramide” che Horne e Sutherland avrebbero inciso negli anni immediatamente successivi a questo primo recital. Il duetto fra soprano e contralto è un punto d’obbligo dell’opera del primo Ottocento ed esistono molte testimonianze che ritraggono la Horne in opere diverse con molti diversi soprani, da Montserrat Caballè a Lella Cuberli, da Katia Ricciarelli a Frederica von Stade e Leontyne Price. Con nessun’altra come con Joan Sutherland la Horne ha raggiunto la totale simbiosi vocale, la perfetta fusione dei timbri, l’assoluta sincronia della coloratura più trascendentale. Il celestiale intrecciarsi delle loro voci, in “Norma”, può veramente essere assunto a paradigma del canto neoclassico e protoromantico, che trova la sua più compiuta realizzazione nella ricerca di una espressione sempre subordinata a un ideale di sublime bellezza.
Nel 1964, Marilyn Horne incideva col marito Henry Lewis un recital totalmente esplicativo del nuovo indirizzo delle sue scelte artistiche, in cui fra il Mozart della “Clemenza di Tito” e il Donizetti della “Figlia del reggimento” (traccia del suo muoversi ancora in bilico fra i registri di soprano e mezzosoprano: pochi mesi dopo l’incisione di questo disco essa avrebbe debuttato al Covent Garden come Marie nel “Wozzeck”) si succedevano brani di Rossini (“Semiramide”, “L’italiana in Algeri”, “La Cenerentola”) e Meyerbeer (“Le Prophète”, “Les Huguenots”). Questi ultimi sono, per motivi opposti, eccezionali. Nella grande aria di Fidès la vocalità della Horne è vigorosa nel recitativo, commossa e raccolta nell’aria quanto letteralmente travolgente nella cabaletta. Al di là della incredibile agilità, della saldezza degli acuti, delle inflessioni epiche con le quali scandisce il recitativo, è strepitosa, in questa esecuzione, la capacità della Horne di scendere al registro grave senza la minima forzatura, in virtù di una totale copertura del suono. Più avanti nella carriera essa avrebbe più ostentatamente esibito i propri bassi, soprattutto nei ruoli eroici maschili o in certe uscite un po’ da virago di Isabella nell’”Italiana”, senza curarsi del rischio di produrre suoni gutturali - più avvertibili peraltro in disco che non in teatro, dove la voce risultava più piccola e più omogenea. Il secondo brano meyerbeeriano del disco è invece la “Cavatine du page” dal primo atto de “Les Huguenots”: in essa la Horne si abbandona con dolcezza e un affascinante gioco di dinamiche e di rubati al ritmo ternario con cui il giovanetto Urbain si introduce ai gentiluomini riuniti a banchetto. Basterebbero questi due brani ad affermare il valore storico dell’apparizione della Horne nel panorama operistico dei primi anni Sessanta del Novecento: quel “ritorno al passato” che nella lezione della Callas non trovava ancora piena realizzazione – nonostante la straordinarietà dell’interprete – sia per la quasi costante inadeguatezza del contorno sia per il peso che spesso la tradizione esecutiva vigente in quegli anni ancora faceva sentire, con la Horne (e con la Sutherland) assumeva totale evidenza e concretezza. Se è vero, come sempre sosteneva Rodolfo Celletti citando Reynaldo Hahn, che l’esecuzione vocale dovrebbe essere “allucinante ed evocativa”, il Meyerbeer della Horne è la concreta messa in pratica di questo principio. Nessuno di noi saprà mai come cantavano Pauline Viardot o Marietta Alboni; tutti noi ascoltando la Horne in questi brani andiamo immediatamente col pensiero a queste figure mitiche della storia dell’opera, interpreti somme dei ruoli di Fidès e di Urbain. Nel canto della Horne troviamo la materializzazione di quelle tracce esclusivamente verbali che l’arte vocale di Sette e Ottocento ha lasciato in eredità ai secoli successivi. Con lei, per la prima volta, l’ascoltatore ebbe concreta evidenza di cosa potè essere per i contemporanei il canto dei castrati, il senso della variazione di un’aria tripartita, il brivido dell’improvvisazione di una cadenza, il mito della giovinezza riflesso nel colore androgino del contralto rossiniano.

Nel 1977 usciva, a ruota di una splendida produzione del Filarmonico di Verona che avrebbe poi fatto il giro del mondo, la prima registrazione di un’opera di Antonio Vivaldi: “Orlando furioso”. Si trattava di un’operazione filologicamente molto disinvolta per quanto riguarda le scelte sia testuali sia, in parte, quelle esecutive, ma Marilyn Horne scrisse, nel ruolo del titolo, una delle pagine fondamentali della storia contemporanea dell’opera barocca. All’epoca, essa aveva in repertorio già da molti anni il ruolo di Arsace della “Semiramide” e si era più recentemente accostata a quello di Tancredi. Nell’affrontare, in analoghi panni maschili, un’opera di un secolo anteriore a quelle rossiniane, la Horne (splendidamente coadiuvata a Verona dalla geniale messinscena di Pierluigi Pizzi) seppe muoversi su fronti completamente diversi. Là dove Arsace e Tancredi illuminano di screziature romantiche un canto limpidamente neoclassico, in cui sull’abbondanza di sfumature vincono la limpidezza della linea musicale e la nettezza della coloratura, l’eroe barocco alterna sentimenti contrastanti, declama i recitativi con enfatica prosopopea, aggredisce le arie di tempesta col gusto supremo dell’esibizione di una maestria tecnica senza confronti, trova in quelle patetiche un accento commosso e composto. La Horne sa perfettamente che alla base dell’opera barocca sta l’estetica della varietà e della variazione inesausta di schemi precostituiti e per ognuna delle arie di Orlando trova l’accento appropriato e il giusto grado di ornamentazione. Nella scena della follia, poi, le basta calcare appena il pedale nel sottolineare la successione di sentimenti contrastanti che trascorrono nella mente del paladino per infondere, a questa figuretta drammaturgicamente ritagliata nel cartone, un senso di ironia veramente irresistibile. La sue esecuzione delle arie tripartite, e il discorso vale ovviamente anche per le opere di Handel che avrebbe affrontato in seguito, insegna quanto e forse più di un trattato di musicologia. È paradigmatico, in questo senso, il brano che apre la registrazione dell’”Orlando furioso”, “Nel profondo, cieco mondo”: si tratta di un’aria in stile agitato, strutturata secondo lo schema consueto AA’BAA’, in cui la successiva ripetizione delle sezioni A deve non solo essere variata ma (si legga quanto prescrive il Tosi) deve contenere una progressione – in intensità, in difficoltà ecc. - nelle variazioni stesse, per portare l’ultima a essere il culmine vocale e drammatico del brano. Ebbene, la Horne fa di quest’aria un capolavoro di virtuosismo vocale sempre più spericolato di variazione in variazione, serbando per l’ultima un incredibile saggio di canto di sbalzo seguito da un tratto vocalizzato fittissimo che corre verso la conclusione. Basterebbe questa sola aria come Marilyn Horne la esegue per comprendere il senso del virtuosismo vocale settecentesco, che viene totalmente snaturato da voci prive di nerbo e da esecuzioni letterali e improntate a un senso dello “stile” come educata riproduzione delle note scritte o di abbellimenti messi lì senza profonda cognizione di causa. La fantasia, lo sprezzo delle difficoltà, il gusto di lanciarsi nelle più spericolate e inebrianti gare con gli strumenti concertanti (si ascoltino “Furibondo spira il vento” e “Or la tromba”, rispettivamente da “Partenope” e “Rinaldo” di Handel, incise in uno straordinario recital Erato) sono i dati più caratteristici delle esecuzioni settecentesche di Marilyn Horne, cui fanno da contraltare una totale padronanza del canto legato e della fiorettatura di grazia, serbati per le arie patetiche. In esse (ad esempio “Cara sposa” e “Cor ingrato” da “Rinaldo”) l’emissione controllatissima, il tono raccolto e quasi strumentale, il dominio assoluto della dinamica e del rubato contribuiscono ad esecuzioni di straordinaria intensità, che ben fanno comprendere come l’esecuzione di un adagio fosse considerata, nel Settecento, occasione di virtuosismo né più né meno di quella dell’allegro più vivace.

L’identificazione della Horne con alcuni personaggi rossiniani – Tancredi e Arsace naturalmente, ma anche Neocle de “L’assedio di Corinto”, Malcom de “La donna del lago” e Falliero di “Bianca e Falliero”, oltre a Isabella de “L’italiana in Algeri” - deve essere annoverata fra i raggiungimenti più alti della storia della vocalità. C’è un punto, in un brano oggi tornato celebre grazie a lei, a cui nessun’altra cantante riesce a dare il respiro che l’americana gli conferiva. Nel “Tancredi”, la cabaletta che segue la cavatina del protagonista è il mitico “Di tanti palpiti”. Esso contiene due brevi passaggi discendenti di tre terzine ciascuno sulle parole “…e tante pene”, che vengono solitamente realizzati con metronomica precisione fondendo le tre terzine in una sola figura ritmica. La Horne, invece, riusciva ad allungare impercettibilmente la prima nota di ogni terzina, imprimendo all’esecuzione uno straordinario senso di movimento in avanti. Essa possedeva come nessun’altra il senso della forza propulsiva della coloratura rossiniana, ed era capace di illuminarlo anche in passaggi minimi come questo. La vocalizzazione granitica e velocissima del rondò di Arsace possiede una energia, una forza vitale assolutamente uniche, che se oggi le più accorte interpreti del ruolo tengono come obiettivo da perseguire, erano sconosciute ed impensabili quando la Horne iniziò ad affrontare questo repertorio. Ma limitare il suo contributo a una questione puramente tecnica e di virtuosismo vocale sarebbe limitativo. Per quanto riguarda i ruoli en travesti, la Horne ha saputo inquadrare perfettamente l’estetica rossiniana dell’eroe androgino che trova le sue radici nel canto dei castrati settecenteschi e che sa contemperare in una espressione vocale organica il timbro astratto della voce femminile con l’accento eroico, la dizione scandita, l’espressione magniloquente e pronta, quando il senso lo richiede, ad accendersi improvvisamente nel brivido di una roulade o a sospendersi in un lungo trillo o un’incantata messa di voce. Giustamente incurante dei censori veterocrociani che arricciano il naso ad ogni sospetto di edonismo, la Horne ha perfettamente compreso che il belcanto, e quindi Rossini, vivono solo nel rispetto di alcuni principi fondamentali: la ricerca costante del suono bello, l’utilizzo a fini espressivi della coloratura e degli abbellimenti, il rifiuto della monotonia ingenerata dalla ripetizione non variata. Quella che Manuel Garcia jr. nel suo trattato chiamava “regola generale”, che prescrive di variare sempre una strofa, una frase, un semplice inciso che sullo spartito si ripete tale e quale, viene applicata dalla Horne con sistematicità. Le basta pochissimo a volte, anche solo una fermata su una nota - ad esempio nella coda del rondò di Elena dalla “Donna del lago”, inciso nel 1973 - per dare al brano una compiutezza assolutamente nuova (si confronti lo stesso brano nell’esecuzione pesarese di Katia Ricciarelli, costretta dal direttore Maurizio Pollini a una implacabile quanto antistorica metronomicità).
Meno singolari e meno frequenti, seppure di alto livello, sono state le sue interpretazioni nel genere buffo, con la grande eccezione di Isabella de “L’italiana in Algeri”. Il carattere deciso e volitivo della giovane italiana ha trovato nella Horne una incarnazione perfetta: impossibile, per chi la vide nella produzione veneziana del 1984, dimenticare la sua entrata in scena: la cappelliera in mano, camminava all’indietro sulla passerella della nave, per girarsi sull’accordo dell’orchestra e attaccare “Cruda sorte, amor tiranno”. O il finale del primo atto quando, portata davanti a un esilarante Samuel Ramey in manto leopardato, sgranava gli occhi ed esclamava stupefatta “Oh, che muso!”. O, ancora, il suo “Per lui che adoro”, intonato con un dominio del canto legato e delle fioriture assolutamente da manuale. L’edizione su Lp della registrazione completa di quest’opera conteneva in appendice alcuni brani alternativi, sciaguratamente mai più ristampati nelle riedizioni su cd. Fra questi, una variante di “Per lui che adoro” nella quale “l’imperatrice del canto rossiniano”, ligia all’osservanza della “regola generale”, inventava - in sostituzione del lunghissimo trillo con cui nel brano standard introduceva la ripresa del tema - un altro incredibile trillo, altrettanto lungo ma su tre note. Un brindisi della burlona Jackie alla salute di chi, sospettoso, alza il sopracciglio quando sente odor di discorsi sulla voce e sulla tecnica vocale.

Il panorama musicale odierno ha caratteristiche impensabili solo poche decine di anni fa: “Tancredi” e “Semiramide” sono stabilmente rientrate in repertorio, è in corso di realizzazione una registrazione integrale dei melodrammi di Vivaldi, è possibile accendere la radio e captare una “Semiramide” di Meyerbeer o un’opera seria di Paisiello da qualche impensabile luogo d’Europa, mentre un teatro statunitense non di primo piano mette in scena “Gli Orazi e i Curiazi” di Mercadante. Questa rinascita del repertorio Sette e Ottocentesco vive sul (e a sua volta incoraggia il) fenomeno dell’apparizione di una generazione di cantanti in grando di affrontarlo con proprietà stilistica e mezzi tecnici adeguati. Attorno all’astro della Horne e delle produzioni per lei concepite iniziarono a un certo punto ad apparire figure che mostravano come la sua lezione fosse applicabile anche ad altri registri vocali: con Samuel Ramey e Rockwell Blake per la prima volta si sentiva il canto di coloratura portato ai massimi livelli virtuosistici da un basso o da un tenore, mentre Lucia Valentini Terrani, Martine Dupuy, Carmen Gonzales, Bernadette Manca di Nissa e più tardi Ewa Podles raccoglievano il testimone della Horne e contribuivano al consolidamento di un repertorio destinato ormai a non tornare più nel limbo dei revival festivalieri. Quel testimone è oggi passato a Vesselina Kasarova, Sonia Ganassi, Vivica Genaux, Jennifer Larmore, Daniela Barcellona, Sara Mingardo, Magdalena Kožená e tante altre che con personalità e strumenti diversi sono la concreta testimonianza di quanto Marilyn “Jackie” Horne abbia significato nella storia del canto del ventesimo secolo.

Riccardo Domenichini

Categoria: Cantanti

 

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