Boris Godunov (Mùssorgskij)

recensioni e commenti di spettacoli visti dal vivo

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Messaggioda Zarevich » sab 23 giu 2007, 16:16


Carissimi amici! Ho deciso di scrivere qualche parola dell’ultima Prima dell’Opera di Mussorgskij “BORIS GODUNOV” in regia di Aleksandr Sokurov al Teatro Bolshoj (aprile 2007).
Ho guardato questo spettacolo e vorrei raccontarvene un po'. Cerco di scrivere in italiano giusto.
E’ evidente che questo spettacolo è registico. Il direttore principale del Teatro Bolshoj Aleksandr Vedèrnikov (Александр Ведерников) in qualità di padrone si è tirato da banda, al secondo piano, concedendo all’ospite, al celebre regista cinematografico Aleksandr Sokurov (Александр Сокуров), un diritto pieno di comandare il palcoscenico teatrale e di definire egli stesso dei punti di riferimento musicali e le priorità vocali.
E’ evidente anche che con il diritto ricevuto Sokurov comandava assai prudentemente, non come i suoi arditi colleghi. Il suo spettacolo registico è direttamente indirizzato contro un’attività registica lirica di moda.
È una dimostrazione artistica della lezione del buon tono e un avviso dei diritti dimenticati del comportamento sul palcoscenico lirico.
L’azione non è stata trasportata ai nostri tempi, i personaggi non erano vestiti nei costumi moderni. Sokurov restituisce nel teatro lirico, ora quasi rifiutato e disdetto, l’istorismo e sta realizzando lo spettacolo nello stile degli spettacoli storici del Teatro di Stanislavskij.
Un po’ arcaico, soprattutto nelle scene di massa. Questo il prezzo di questo ritorno al principio del teatro lirico. Però Sokurov non dimentica il suo mestiere di regista cinematografico e sta facendo lo spettacolo in quel giro come nel suo famoso film «Arca Russa» («Русский Ковчег» «Rùsskij Kovcèg» 2001), quasi continuato, senza montaggio, di un unico piano sequenza.
Assolutamente parlando ci sono due piani, il primo, close up, e l’altro, da lontano o comune. Al primo piano agiscono tutti i personaggi storici, si pronunciano monologhi e dialoghi. Come la migliore scena dello spettacolo è un dialogo fra Boris Godunov (Mikhail Kasakov Михаил Казаков) e Vassilij Shujskij (Maksim Paster Максим Пастер). È una sfera della storia pubblica, politica o segreta e chiusa. Sullo sfondo al secondo piano avviene o succede sempre qualcosa. Qualcuno cammina, portano delle cose o oggetti, appaiano degli uomini o donne. E' una sfera della vita quotidiana che continua ad essere senza fermarsi nonostante gli avvenimenti storici, i cataclismi, l’apparizione dell’impostore, il Falso Dimitrij ecc.
È probabile che qui ci sia un’idea principale e una metafora. La tragedia russa consiste nel fatto che ambedue queste sfere non vengono a contatto e non si toccano. La storia è una cosa prosaica di per sé. Alla storia non importa la vita quotidiana e alla vita quotidiana non importa affatto della storia. E quando queste due parti in un attimo si toccano improvvisamente, succede la catastrofe nazionale.
E qui Sokurov pronuncia la sua idea principale. La vita della Russia quotidiana di oggi completamente non si incontra con la politica del Cremlino e di Putin. Sono due parti che si negano completamente. Dall’Occidente vedono solo il Cremlino e non vogliono vedere nient'altro. È occupa tutta l’immagine di oggi della Russia.
Boris Godunov nello spettacolo di Sokurov non è solo lo zar sfortunato o zar reformatore, ma anche lo zar padre e prima di tutto il padre dei suoi figli. Boris è sempre presente nelle scene di Cremlino. A Boris la presenza di suo figlio è necessaria. Attorno a Boris c’è un tradimento, una defezione, dei discorsi falsi, solo L’Innocente (Юродивый - Виталий Панфилов Vitalij Panfìlov) dice quello che pensa lui e pensano tutti. Solo Fiodor (Фёдор), figlio di Boris, è sincero e attaccato a Boris.
Boris Godunov mira e tende nella vita privata anche se non può non essere lo zar. Lui lo capisce e perciò questo sentimento lo affligge e lo cruccia. Da una parte “bambini sanguinosi negli occhi” e dall’altre parte nella vita privata c’è un bambino reale, suo figlio. Boris capisce molto bene che la sua morte porterà la morte ai suoi bambini. Gli adulatori boiardi del Cremlino non risparmieranno la vita ai suoi figli. Boris sa cosa sarà in futuro.
Nel finale dello spettacolo Boris morendo spinge in alto Fiodor sul trono, nella speranza da disperato di salvare il figlio dalla giustizia sommaria. (E’ una scena orribile!). La tragedia di Boris sta nel fatto che lui non è capace di salvare suo figlio e la tragedia del padre diventa la tragedia del figlio.
Sokurov ha fatto questa scena formidabilmente, la scena che suscita uno stupore.

Zarevich 23 giugno 2007 Mosca
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Messaggioda pbagnoli » dom 24 giu 2007, 15:50

Grazie, Mikhail, della bellissima disamina dello spettacolo, di cui intuiamo il grande interesse.
Ora, però, fai anche in modo di farlo vedere al tuo vecchio amico Piòtr!...
Un abbraccio,
Piòtr
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Messaggioda VGobbi » dom 24 giu 2007, 20:16

Carissimo Mikhail, come vorrei che intervenissi piu' spesso.

Detto questo, non ci hai pero' parlato degli interpreti vocali. Hanno rinverdito il passato oppure i Reizen, i Petrov & company stanno su un altro pianeta?
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Messaggioda MatMarazzi » dom 24 giu 2007, 23:20

Caro Zarevich,
la scena finale, come l'hai descritta, mi ha messo i brividi. Davvero una bellissima idea.
Sai quali sono i prossimi progetti operistici di Sokurov?

Salutoni,
Matteo
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Messaggioda Zarevich » lun 25 giu 2007, 6:56

So che Sokurov torna in cinema
Il suo ultimo film "Aleksandra" con Galina Vishnevskaja nel ruolo principale è stato presentato al Festival di Cannes. Suppongo che sarà anche presentato a Venezia quest'anno.
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Considerazioni sul Boris, l'ultimo grande interprete:

Messaggioda Maurizio Dania » gio 30 ago 2007, 22:20

Ferruccio Furlanetto a Firenze.

Pietra miliare della scuola russa, destinata a influenzare una larga parte del Novecento europeo, Boris Godunov , nelle due versioni ‘autentiche’ moltiplicate dalle revisioni, è anche il prototipo del moderno ‘work in progress’. Il suo lungo e complicato cammino inizia nel settembre del 1868 in casa della sorella di Glinka, la ‘dolce colomba’ Ljudmila Šestakova che, dopo la morte del fratello, raduna attorno a sé gli artisti e gli intellettuali della nuova generazione, impegnati a realizzare una cultura autenticamente russa. In questo ambiente culturalmente e umanamente elevato, Vladimir Nikol’skij, storico e studioso di Puškin, richiama l’attenzione dell’amico Musorgskij sul dramma della follia e della morte dello zar Boris, scritto dal sommo poeta nel 1825. Il suggerimento provoca un vivo interesse: come incoraggiamento, la Šestakova invia a Musorgskij il volume di Puškin, inserendo tra le pagine stampate alcuni fogli bianchi. Musorgskij non tarderà a usarli producendo, in un quadriennio, le due versioni del suo capolavoro. Quando riceve dalla vecchia amica il prezioso testo, arricchito dai fogli candidi, il musicista non ha ancora trent’anni: ha studiato con Balakirev, si è liberato dalla sua tutela e si è lanciato alla ricerca di uno stile nazionale e popolare, lontano sia dall’opera italiana cara all’aristocrazia sia all’opera tedesca coltivata dagli occidentalisti. La produzione di liriche e l’esempio di Dargomyžškij l’hanno condotto a scoprire la potenza della parola, la ‘verità’ dei personaggi, delle situazioni, del linguaggio. Elementi da contrapporre alla mera ‘bellezza’, a tutto ciò che suona soltanto melodico e piacevole, atto a cullare l’immaginazione anziché a stimolarla. In un’ottica tanto diretta – egli stesso si definisce un cavallo lanciato in un’unica direzione – la rilettura della tragedia di Puškin è determinante. Nella vicenda, elaborata dal poeta sulla scorta del decimo e dell’undicesimo volume della Storia dello stato russo di Nikolaij Karamzin, il musicista trova la materia necessaria a un autentico ‘dramma popolare’: un dramma di cui l’uomo russo – frate spretato, boiaro o zar – sia protagonista.

L’epoca (tra il 1598 e il 1605) è tra le più fosche dello stato moscovita. Morto Ivan il Terribile nel 1584, restano due eredi: il maggiore, Fëdor, figlio di primo letto, e un bimbo di due anni, Dmitrij, nato dall’ultimo matrimonio dello zar (il settimo, pare) con Maria Nagaja. La corona toccò a Fëdor, sebbene fosse debole di cervello. I sudditi lo chiamavano affettuosamente durak , ‘imbecille’, lodandone la mitezza e la religiosità. «Regnava meglio con la preghiera che con l’intelligenza», si diceva. Occorreva perciò un reggente per gli affari di stato. E questi fu, dopo un breve interregno, Boris Fëdorovic Godunov, uomo di notevole carattere e abilità, che lo stesso Ivan aveva avvicinato al trono dando in moglie a Fëdor la sorella di Boris, Irene. L’alta posizione doveva provocare invidie e malcontenti, soprattutto fra i boiari che, domati da Ivan, speravano di rialzare il capo sotto il figliolo deficiente. Non mancarono le congiure, ed è ovvio che qualcuno pensasse di richiamare il piccolo Dmitrij, prudentemente allontanato assieme alla madre nella lontana città di Uglic. I progetti, comunque, sfumarono quando il ragazzo morì a nove anni, il 15 maggio 1591, con la gola squarciata da un coltello. Chi aveva inferto il colpo mortale? Un’inchiesta ordinata dallo zar Fëdor e da Boris Godunov stabilì che Dmitrij, notoriamente epilettico, si era ferito durante una crisi con un coltello da lui stesso impugnato. Numerose testimonianze giurate, raccolte da Vasilij Šuiskij, convalidarono la versione. I nemici di Boris sostennero invece che i testimoni erano stati corrotti o intimiditi per coprire il reggente assassino che, con la scomparsa del fanciullo, si sarebbe assicurata la successione. Questa, in realtà, era ancora lontana. Nel 1591 Fëdor, per quanto debole di mente, era forte di corpo, tanto che visse fino al 1598, in pieno accordo con il reggente e con la moglie Irene, da cui ebbe anche una bimba. L’accusa risuonò ancora più forte quando Boris, cinta la corona, riprese da zar la politica di Ivan diretta all’unità dello Stato. Tutti si rivoltarono: boiari e plebe all’interno del paese, mentre alle frontiere malsicure i polacchi e la chiesa cattolica attendevano l’occasione per smembrare il regno e abbattere la fede ortodossa. In questa situazione, la voce dell’assassinio dello zarevic riemerse con una fantasiosa variante: Boris aveva tentato ma fallito il colpo; il bimbo, salvato e cresciuto sotto falso nome, era vivo. La riapparizione avviene in Polonia dove il falso Dmitrij (forse un novizio fuggito da un convento), proclamatosi figlio di Ivan, ottiene la mano dell’ ambiziosa Marina Mniszech, figlia del voivoda polacco di Sandomir, raduna un esercito di profughi russi, nobili polacchi e avventurieri e, con la benedizione del pontefice Clemente VIII, parte alla riconquista del regno. L’improvvisa morte di Boris a soli 53 anni, nell’aprile 1605, fece precipitare la situazione. I generali russi passarono al pretendente, che venne incoronato. Il primogenito di Boris, Fëdor, fu assassinato, mentre Ksenija, «la colomba pura», diventata la concubina dell’usurpatore, morirà in convento nel 1622. Dmitrij, a sua volta, venne fatto a pezzi dopo un anno di regno (e le sue ceneri sparate da un cannone) quando i russi si ribellarono alla sopraffazione polacca e cattolica. Si salvò Marina, per lanciarsi in un’avventurosa esistenza unendosi a un secondo e poi a un terzo falso Dmitrij, apparsi e scomparsi, mentre sul trono di Mosca si succedevano Vasilij Šujskij, il re di Polonia Sigismondo e infine Michele Romanov, fondatore della dinastia regnante fino al nostro secolo. Della torbida vicenda, Puškin coglie il nodo centrale, secondo l’interpretazione del grande storico cui rende un reverente omaggio sul foglio di risguardo: «Alla memoria – preziosa per i russi – di Nikolaij Michailovic Karamzin – questo lavoro ispirato dal suo genio – con devozione e gratitudine dedica Aleksandr Puškin». La narrazione, dall’ incoronazione di Boris all’uccisione dei suoi figli, non è continua come nella tragedia classica, ma è shakespearianamente spezzata in ventitre quadri (più due eliminati nella prima edizione), concisi ed essenziali, come se l’autore, aprendo uno spiraglio sul panorama della storia russa e chiudendolo immediatamente, offrisse al lettore una serie di fulminei scorci. «Questo montaggio di opposte sequenze, questo caleidoscopico svariare di siti e di ambienti», come lo descrive Angelo Maria Ripellino, è già caratteristico delle prime opere russe, dal Ruslan e Ljudmila al Convitato di pietra , ricavati anch’essi da Puškin. La forma o, meglio, la libertà di forma, conviene perfettamente a Musorgskij che, utilizzando quanto gli occorre, ricava sette scene dal vasto affresco. Abbozzato e scartato un ottavo episodio (l’incontro di Marina e Grigorij presso la fontana), la prima stesura dell’opera risulta così articolata in sette quadri: 1) prologo, dove la folla e il clero invocano Boris; 2) incoronazione; 3) cella di Pimen, dove il monaco-cronista racconta al novizio Grigorij la morte dello zarevic; 4) osteria al confine lituano, dove Grigorij fugge; 5) appartamenti dello zar, con l’annuncio della rivolta e i rimorsi di Boris; 6) davanti alla cattedrale di San Basilio, dove l’Innocente rifiuta di pregare per lo zar Erode; 7) morte di Boris.

Questo è il primo Boris , l’ Ur-Boris composto, in uno slancio di furore creativo, tra l’«ottobre 1868» (annotato dall’autore sul volume donatogli dalla Šestakova) e il 22 maggio 1869 quando termina lo spartito per canto e piano. Il 15 dicembre successivo Musorgskij appone la parola «Fine» sotto la partitura orchestrale. La stesura, come si vede, procede senza soste, in uno stato di febbrile esaltazione dettato dalla certezza di avere finalmente trovato «gli ingredienti per cuocere la zuppa» evocati nella lettera a Nikol’skij. In soli otto mesi (oltre i sette per la strumentazione) si realizza il lavoro «radicato nella patria pianura e nutrito di pane russo» che, in una precedente lettera (del 12 luglio 1867) al medesimo amico, appariva ancora una meta lontana. Oggi, percorrendo a ritroso la lunga strada dalle prime liriche a Salammbô e da qui all’incompiuto Matrimonio , appaiono chiare le tappe che guidano al primo Boris . Ma il risultato non è meno sorprendente. Tutto appare nuovo e ardito in questo compatto torso: dalla scelta di un testo sospetto alle autorità politiche e musicali alla originalità della realizzazione. Si capisce perché, davanti a quest’opera scritta di getto, si stenda ancora una strada lunga e accidentata. L’autore però è ottimista. Terminata l’orchestrazione si affretta a sottoporre la partitura ai Teatri Imperiali. Una prima risposta gli arriva dal direttore Stepan Gedeonov: «Mi ha detto – comunica Musorgskij alle sorelle Aleksandra e Nadezhda Purgold – che quest’anno non possono rappresentare nulla di nuovo, tuttavia potrebbe chiamarmi verso la metà d’agosto o ai primi di settembre per spaventarli col mio Boris ». La data dell’audizione non è nota. Sappiamo invece che i membri della Commissione di lettura respinsero l’opera nella riunione del 10 febbraio 1871, mettendo nell’urna sei palle nere e una bianca. Una settimana dopo, la decisione fu trasmessa ufficialmente all’interessato, a cui però la notizia era già stata comunicata in privato dalla Šestakova. Qui le versioni divergono. Secondo la Šestakova, l’unico motivo del rigetto era la mancanza di una importante parte femminile. Nelle memorie di Rimskij-Korsakov, invece, vengono accentuati «la novità e il carattere inconsueto della musica». Da ciò l’irritazione dell’«illustre comitato che, fra l’altro, rimproverò all’autore la mancanza di una consistente parte femminile». Comunque sia, Mussorgskij si dedicò immediatamente alla revisione dell’opera. Due mesi dopo la sentenza della Commissione, appone sotto la nuova scena del boudoir di Marina la data 10 aprile 1871. L’inserimento del personaggio femminile porta con sé altri sviluppi. Il 10 agosto, con una lettera semiseria, informa l’amico Vladimir Stasov che «Boris, zar colpevole, sta perpetrando un arioso». Il mese successivo (11 settembre) ancora un annuncio a Stasov: «Abbiamo rifatto a nuovo Griska» e «si sta pensando ai vagabondi». È il primo accenno al quadro della foresta di Kromij, che lo occuperà sino a novembre. Il quadro della fontana, l’orchestrazione e i ritocchi lo impegnano sino all’estate successiva. Infine, può notare in calce alla partitura «22 giugno 1872, a Pietroburgo, M. Musorgskij» e l’11 luglio depone rispettosamente la nuova partitura ai piedi di Ljudmila Šestakova: «Accogliete il mio Boris sotto la vostra protezione, affinché con voi, benedetta, esso inizi la sua stagione pubblica». I quindici mesi di lavoro intenso hanno dato all’opera una fisionomia largamente rinnovata: un quadro, quello davanti a San Basilio, è soppresso; ai rimanenti sei, quasi tutti rimaneggiati, se ne aggiungono tre nuovi. In totale, il secondo Boris comprende nove quadri.

Prologo . Quadro primo . Febbraio 1598. Cortile del convento di Novodievic. Il popolo, incitato da un ufficiale di polizia, supplica Boris di accettare la corona di zar. Il segretario della Duma, Šcelkalov, annuncia che il candidato resta irremovibile e, mentre un corteo di pellegrini si reca al convento per convincerlo, la folla è convocata dalle guardie al Cremlino. Quadro secondo . 1º settembre 1598. Mosca, la piazza del Cremlino. Boris ha accettato il trono. La folla, spinta da Šujskij, acclama l’incoronazione. Ma, tra lo scampanio e gli inni, il nuovo zar è in preda a foschi presagi (“Skorbít dúsha!”; ‘La mia anima si rattrista’).

Atto primo . Quadro primo . 1603. Una cella del Monastero dei Miracoli. Il monaco Pimen sta terminando di scrivere la cronaca del regno (“Yeshchó odnó poslyédnye skazánye”; ‘Ancora uno, l’ultimo racconto’), mentre il novizio Grigorij si desta, sconvolto da un sogno. Egli aspira alla gloria, alle battaglie, e interroga il vecchio sulla morte dello zarevic. Assassinato da Boris, narra il cronista: avrebbe l’età tua e regnerebbe. Mentre Pimen e i monaci si recano alla preghiera, Grigorij invoca la giustizia divina. Quadro secondo . Osteria presso il confine lituano. L’ostessa canta una gaia canzone (“Poyamóla ya síza selezuyá”; ‘Avevo un anatroccolo’), quando arrivano due frati questuanti, Varlaám e Misail, accompagnati da Grigorij che, fuggito dal convento, cerca di varcare il confine. I frati bevono e Varlaám, ubriaco, canta le gesta di Ivan (“Kak vo goróde býlo vo Kazáne”; ‘Una volta nella città di Kazan’). Irrompono i gendarmi alla ricerca di Grigorij che, dopo un vano tentativo di far arrestare Varlaám al suo posto, fugge saltando dalla finestra.

Atto secondo . Gli appartamenti dello zar al Cremlino. Ksenija, la figlia di Boris, piange la morte del fidanzato confortata dal fratello e dalla nutrice con filastrocche infantili (“Kak komár drová rubíl”; ‘La zanzara tagliava la legna’ e “Túru, túru, petushók”; ‘La storia di questo e di quello’). L’entrata di Boris interrompe il gioco. Egli è angosciato dall’insicurezza del regno e turbato dai rimorsi (“Dostíg ya výshey vlasti”; ‘Ho il potere supremo’). Un boiaro denuncia congiure. Il principe Šujskij annuncia l’apparizione di un Pretendente che si fa passare per Dmitrij. Nel drammatico colloquio Šujskij narra la morte del fanciullo e Boris, rimasto solo, ne vede il fantasma (“I skórbyn syérdtse pólno”; ‘Ah, soffoco!’).

Atto terzo . Quadro primo . 1604. Una stanza nel castello di Sandomir. L’ambiziosa Marina Mniszech si abbiglia per la festa compiaciuta della propria bellezza, ma il gesuita Rangoni la richiama al dovere: dovrà unirsi a Dmitrij per conquistare il trono moscovita e ricondurre i russi al cattolicesimo. Quadro secondo . Nel parco del castello. Dmitrij, innamorato di Marina, invoca la sua presenza (“V pólnok... v sadú... u fontána...”; ‘A mezzanotte, nel giardino... presso la fontana’) e Rangoni gli promette la felicità purché egli segua i suoi consigli. Appare Marina, corteggiata dai nobili invitati (‘polacca’). Poi, rimasta sola con lui, gioca la commedia dell’ amore per spingerlo all’impresa moscovita (“Dmitrij! zarevic”).

Atto quarto . Quadro primo . 13 aprile 1605. Una sala del Cremlino. La Duma dei boiari decreta la morte del falso Dmitrij, che preme alla fontiera. La deliberazione è interrotta da Šujskij, che annuncia il turbamento dello zar, e dallo stesso Boris che fa il suo ingresso delirando. Poi si ricompone per ricevere un monaco depositario di un grande segreto. È Pimen, che narra il miracolo di un pastore cieco che ha riacquistato la vista pregando sulla tomba dello zarevic (“Odnázhdy, v vechérniy chas”; ‘Una volta sul far della sera’). Boris, distrutto dall’ emozione, muore dopo aver dato gli ultimi consigli a Fëdor (“Proshcháy, moy sin, umiráyu”; ‘Addio, figlio mio, muoio’), additandolo come successore ai boiari. Quadro secondo . Una radura nella foresta di Kromij. I contadini insorti scherniscono un boiaro catturato e, incitati da Varlaám e Misail, trasformatosi in feroci sgherri, si accaniscono contro i gesuiti inviati da Dmitrij, mentre i bambini rubano all’Innocente la copeca ricevuta in elemosina. Compare Dmitrij che, proclamandosi zar, promette giustizia ai perseguitati da Godunov, accoglie il boiaro immediatamente passato dalla sua parte e si avvia a Mosca, tra le acclamazioni del popolo, mentre l’Innocente piange sulla sorte della Russia (“Lyéytes, lyéytes slyózy górkiye”; ‘Sgorgate, lacrime amare’).

Come si vede, il rifacimento è radicale: il dramma dello zar, la figura del pretendente e la partecipazione del popolo acquistano nuove dimensioni. L’inserimento dell’‘atto polacco’, lamentato dai puristi come concessione melodrammatica, è in realtà un momento fondamentale. La figura dell’usurpatore si delinea, preparando la sua apparizione alle porte di Mosca. Lo stesso personaggio di Boris acquista, nel nuovo contesto, un carattere più doloroso. L’avevamo già visto, oppresso dal fato, nella scena dell’incoronazione. Lo incontriamo di nuovo nelle sue stanze, ove non può trovar pace neppure in seno alla famiglia. Non a caso il musicista rielabora a fondo questo quadro. L’aggiunta del vasto arioso, di cui si dichiara particolarmente soddisfatto, e il misterioso effetto dei carillon, ingigantiscono l’angoscia del protagonista. Egli non è soltanto l’uccisore del fanciullo, è un uomo lacerato dai rimorsi e dalla coscienza della vanità del delitto. A differenza di Macbeth, Boris appartiene al popolo: è russo anche quando il paese gli si solleva contro. La violenta esplosione della folla moscovita corona l’opera dando al popolo un ruolo di protagonista. Così l’intese l’amico Nikol’skij, che, proseguendo nella funzione di padrino del Boris , suggerì a Musorgskij di spostare la nuova scena, che avrebbe dovuto precedere la morte dello zar, alla fine dell’opera. Suggerimento adottato con entusiasmo, lasciando al fido Stasov il rammarico di non averci pensato lui! La rivolta però è vana. Musorgskij rimane il pessimista di sempre e l’ultima parola spetta all’Innocente: «Spargete amare lacrime, piangi anima ortodossa... Piangi popolo russo, popolo affamato». Non è ancora giunto il momento in cui «l’energia della nera terra contadina venga fuori». Qui, come nella successiva Chovanšcina , il retaggio dei miseri è il pianto. Pittura comunque sovversiva agli occhi delle autorità. Rifiutando il primo Boris per il suo anticonformismo, la direzione dei Teatri Imperiali aveva provocato la nascita di un lavoro ancor più sconcertante. Non stupisce che anche il rifacimento venga respinto. Evidentemente non era l’assenza del ruolo femminile a turbare il Comitato di lettura. Nella ‘Gazzetta Teatrale’ del 29 Ottobre 1872, la non accettazione è ufficializzata. Ma ormai la causa del Boris è quella di tutti gli intellettuali progressisiti che l’hanno ascoltato più volte, a brani o per intero, nelle case amiche. Le istituzioni concertistiche ne presentano estratti. La prima è la Società della musica russa, che dà il quadro dell’incoronazione il 5 febbraio 1872; il 3 aprile successivo Balakirev dirige la Polacca nella serata della Scuola gratuita di musica. La battaglia si arricchisce di particolari leggendari: un’enorme folla – riferisce la spuria ‘Nota autobiografica’ – assiste a un’esecuzione cameristica nei saloni dei Purgold, dove viene decisa la realizzazione di tre quadri (quello dell’osteria e i due dell’‘atto polacco’) al teatro Mariinskij di Pietroburgo. La rappresentazione, inserita fra il secondo atto del Lohengrin e un quadro del Freischütz , ha luogo il 5 febbraio 1873 con un successo clamoroso. La famosa Julia Platonova canta la parte di Marina e si attribuisce, in un romanzesco resoconto apparso una dozzina d’anni dopo, il merito di aver imposto l’opera ricattando la direzione dei Teatri Imperiali: «O si dà Boris o io non canterò più qui!». E la direzione capitola! Si arriva cosi alla prima esecuzione, il 27 gennaio 1874. Il successo è tanto vivo da preoccupare le autorità. Gli studenti intonano i cori di Kromij lungo la Neva. L’opera minaccia di trasformarsi in un manifesto rivoluzionario, e la direzione del teatro, dopo i tagli effettuati alla ‘prima’ con il forzato consenso dell’ autore (il più rilevante dei quali è l’intero quadro della cella nel Monastero dei Miracoli), si affretta a sopprimere il quadro della ribellione. Poi, di sera in sera, gli interventi si moltiplicano riducendo lo spettacolo all’osso. In questa forma, Boris si regge a Pietroburgo per dieci rappresentazioni nel 1874, due nel ’75, due nel ’76, cinque nel ’77 e altre tre tra ’79, ’80 e ’81. Ventidue (secondo il Calvocoressi, venticinque secondo altri), mentre a Mosca andrà in scena nel 1888, con una decina di repliche fino al ’90.

L’esito, come si vede, fu tutt’altro che mediocre nonostante l’ostilità pressoché generale della critica. Quella dei conservatori era scontata. L’autorevole Hermann Laroche, amico di Cajkovskij, ripeté le consuete accuse di ignoranza e dilettantismo riservate al Gruppo dei Cinque. Il letterato Nikolaij Strakov, irritato per le interpolazioni al testo di Puškin, definì l’opera «una mostruosità senza pari». Ai prevedibili attacchi si aggiunsero le inattese perplessità degli amici. Mentre Borodin è entusiasta, Cezar Kjui esprime su un nota rivista pietroburghese un parere offensivamente negativo: grigiore vocale, monotonia dei recitativi, sconnessione del pensiero musicale, insufficienza di senso critico e, per concludere, una «maniera frettolosa, poco esigente e vana di scrivere che ha dato risultati altrettanto deplorevoli nei casi di Rubinštein e di Cajkovskij». Frase particolarmente velenosa perché mette sul medesimo piano il ‘realismo’ nazionale di Boris e il cosmopolitismo degli accademici del conservatorio. Due posizioni inconciliabili, come conferma lo stesso Cajkovskij, dopo aver studiato ‘profondamente’ la partitura: «Io mando al diavolo con tutto il cuore la musica di Musorgskij; essa è la più volgare e la più bassa parodia della musica». Il vanto di aver rilanciato l’opera spetta a Rimskij-Korsakov, l’amico che ne ammirava il genio e ne temeva la sregolatezza: «Adoro il Boris e nel medesimo tempo lo odio. Lo adoro per la sua originalità, l’arditezza, la bellezza; lo odio per la sua grossolanità, le durezze armoniche e le assurdità musicali». Le parole, riferite da Vasilij Yastrebtzev, fedele cronista di Rimskij, non sono forse testuali, ma confermano la sfasatura temporale e intellettuale tra il capolavoro diretto al futuro e i musicisti ancorati al loro presente. In quest’ottica, per ‘salvare’ Boris , Rimskij lo riporta alle buone regole. A volte si tratta soltanto di minuzie tecniche; in altri casi di aggiustamenti che alterano l’originalità di Musorgskij secondo un criterio melodrammatico, in particolare esaltando i contrasti di colore strumentale e vocale. Messo da parte l’odio, l’amore per Boris si manifesta nello splendore del tessuto sonoro in cui il revisore lo avvolge. Tutto viene innalzato e potenziato: dalla scrittura più ‘eroica’ della parte dello zar, alla veste orchestrale arricchita di timbri brillanti e di smaglianti effetti. Queste qualità assicurarono alla traduzione ‘bella e infedele’ un successo tale da soppiantare a lungo il testo autentico. Rilanciò Boris sulle scene russe e poi su quelle europee, a partire dallo straordinario spettacolo di Djagilev e Šaljapin a Parigi nel 1908. Da allora ha regnato per mezzo secolo, grazie alla preferenza di cantanti e direttori, soggetta tuttavia anch’essa a tagli e varianti di ogni genere. Tra queste si inserì anche un’aggiunta: il reinserimento del quadro del San Basilio, riorchestrato da Mikhail Ippolitov-Ivanov per renderlo omogeneo alla versione di Rimskij-Korsakov. Presentata la prima volta nel gennaio 1927 al Bol’šoj di Mosca, si è mantenuta sino ai giorni nostri, sollevando però qualche dubbio. Il predominio della versione rimskiana cominciò a vacillare attorno al 1928, con la pubblicazione della partitura originale curata da Pavel Lamm. Lo stesso anno, il 16 febbraio, il ‘primo Boris ’ (1869) viene montato a Leningrado, mentre il secondo (1872) riprende a circolare con frequenza sempre maggiore in Occidente, e oggi anche in patria, per lo più nella nuova edizione critica curata da David Lloyd-Jones. In Italia la ‘rimonta’ comincia con il Maggio musicale fiorentino del 1940 e culmina con lo straordinario spettacolo diretto da Claudio Abbado alla Scala nel 1979. La riscoperta del testo originale non impedì ulteriori interventi, fondati sulla convinzione che l’orchestrazione musorgskiana richiedesse qualche miglioramento. In quest’ordine di idee, Dmitrij Šostakovic elaborò nel 1940 la sua versione, portata in scena nel ‘59 al Kirov di Leningrado. Basandosi sul Lamm, Šostakovic riorchestra tanto il primo quanto il secondo Boris , compiendo così un’operazione che vuol essere meno esteriore di quella rimskiana, ma che finisce per sovrapporre al testo la personalità del nuovo revisore, senza le giustificazioni storiche che, cent’anni or sono, guidarono Rimskij-Korsakov nel rilancio di quest’opera capitale.
Versione originale a Firenze. Protagonista un sorprendente Ferruccio Furlanetto, proveniente da molte interpretazioni mozartiane ma dotato di un timbro poco italiano, dalla gamma di colori vasta e da profondità non particolarmente difficili da eseguire. Intorno a lui gira tutta l'opera. Intorno alla presenza di un coro, popolo, corifeo, protagonista, straordinariamente votato alla causa della terra russa; si sente, nell'ascoltarlo, la fragranza del pane, l'odore del sangue e del sudore, la fatica anche solo del guardare e percorrere le terre immense, bagnate di potere e di ricchezze sepolte o usurpate.
C'è la nascita della rivoluzione in fieri; c'è la Storia.
La concertazione è difficile. Forse non del tutto ortodossa, ma proprio per questo è l'opera russa per eccellenza. Il capolavoro di un popolo, non solo della cultura e dell'intelligenza.
Bikov dirige comprendendo, forse persino più di Abbado tutto questo.
Furlanetto sa fondere l'interpretazione vocale con quella scenica.
La sua voce non sarà storica, ma i due fattori, vocale e scenico sono affrontati coscientemente come due aspetti inscindibili dello stesso atto interpretativo.
A volte egli declama: possiede il senso della grande frase; è liricissimo. Non imita nesun grande del passato pur non possedendo il velluto di Ghiaurov o l'imponenza di Chaliapine.
Anche da un punto di vista registico e scenografico, si da Chaliapine; egli non fa che seguirne l'esempio, anche nei movimenti, senza strafare.
Una grande interpretazione.
Mancava Marina. Peccato davvero. Ma Firenze ha chiuso il Maggio con un'interpretazione di altissimo valore.


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Messaggioda pbagnoli » gio 30 ago 2007, 22:40

Bellissimo lavoro, Maurizio, ricco di documentazione. L'ho letto molto volentieri.
Chissà cosa dirà il nostro corrispondente russo, lo zar Mikhail!...
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Onore allo zar....

Messaggioda Maurizio Dania » gio 30 ago 2007, 23:25

hai ragione, attendo anche io un suo post. Grazie....comq. per tutto.
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Messaggioda Zarevich » ven 31 ago 2007, 9:45

Cosa ancora potrei aggiungere? Tutto è scritto molto bene e giusto.
L’unica cosa negativa è l’usanza o la trascrizione di alcuni nomi russi.
Alcune frasi scritte “in russo” non sono giuste. Ci sono sbagliati gli accenti.
Sembra che io l’avevo già letto.
Non ho capito bene di che spettacolo tu scrivi? A Firenze con Furlanetto?
Su Boris io scrivevo tante volte sul “vecchio” forum ed anche qui che non saprei cosa posso aggiungere. Se avrete delle domande concrete, sarò lieto di rispondere con piacere.
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Chiedo scusa per gli accenti e per le frasi...

Messaggioda Maurizio Dania » ven 31 ago 2007, 10:09

il russo non è facilissimo da scrivere e sovente anche se controllo, pure qualche libretto devo supporre che sia errato. Grazie in ogni caso gentilissimo Zar. (Poi magari qualcosa sfugge anche solo digitando :oops: ).
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Messaggioda Zarevich » ven 31 ago 2007, 13:23

L’adoperamento del Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi deve essere con prudenza. Ci sono moltissimi sbagli e improprietà nei settori dell’opera russa. Nomi, cognomi, date e fatti a volte ci sono voltati sottosopra. Ci sono delle infedeltà delle descrizioni delle trame. Sembra che gli autori non sappiano cosa scrivono. Sbagliano, a volte, chi uccise chi. Dei commenti non ne parlo, a volte fanno ridere. Peccato che poi queste descrizioni prendano per mettere nei programmi di sala o le scrivono sui forum. Si ripete anno per anno e a nessuno viene in mente di cambiare e pulire. Ne scrivevo tante volte sul “vecchio” forum, ma è un lavoro inutile.
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Messaggioda pbagnoli » ven 31 ago 2007, 14:42

Be', se vuoi qui potresti avere spazio per questa iniziativa.
Noi non siamo la Baldini & Castoldi, ma qualcosa possiamo fare per portare acqua nuova al mulino.
Per esempio, dato che Maurizio ha fatto un lungo articolo sull'argomento e suppongo che si sia ben documentato, cosa ne diresti di controbattere sul tema proponendo la versione corretta ( ammesso che ci siano degli errori? ).
Abbiamo la fortuna di avere uno specialista sul tema come te, approfittiamone!... :D
Grazie in anticipo per quello che potrai fare
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Messaggioda Zarevich » ven 31 ago 2007, 15:33

Io non sono specialista e nessun esperto, sono un appassionato come voi.
Suppongo che il Dizionario dell'Opera Baldini&Castoldi che si può trovare in internet italiano sia vecchio. Io ho letto quasi tutti i “settori” dedicati all’opera russa e non vorrei consigliare di usarlo sul serio. Il Dizionario ha davvero moltissimi difetti e non è indicato per usarlo. Non so se quel dizionario
è riveduto e corretto. Penso di no. Ritengo che la parte italiana ci sia giusta e più meno corretta. Ho cominciato a scrivere di questo perché ho qualche programma da sala di alcune opere russe fatte in Italia e in tutti i programmi ci sono i testi da quel dizionario, con gli stessi sbagli e la stessa assurdità.
E’ triste. Forse nell’Internet italiano c’è un dizionario operistico più corretto?
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Messaggioda pbagnoli » ven 31 ago 2007, 17:12

Non lo so proprio.
Io non sapevo nemmeno che ci fosse il dizionario Baldini & Castoldi, a dire la verità.
Quando scrivo di qualcosa mi documento altrove e filtro sempre tutto attraverso la mia sensibilità; spero che chiunque scrive di questi argomenti faccia alla stessa maniera, perché è l'unico sistema per carcare di scrivere qualcosa di originale
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Messaggioda VGobbi » ven 31 ago 2007, 18:33

pbagnoli ha scritto:Quando scrivo di qualcosa mi documento altrove ...

Altrove? Dove di preciso?

Grazie!
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