Arrivo anch'io. Per ultimo all'ultima recita.
Devo ammettere che mi aspettavo il peggio.
Ci sono spettacoli che dopo la prima irrimediabilmente svaccano ed altri che, al contrario, migliorano replica dopo replica. Immagino che questo Fidelio appartenga a questa categoria. Oppure, più semplicemente, dopo aver letto e ascoltato pareri di persone di cui mi fido mi aspettavo catastrofi così immani da farmi entrare alla Scala con l'elmetto.
Certo, la direzione di Barenboim è stata ben al di là del fuoritempomassimo. Ma anche qui, nessuna sorpresa. Così è stato il suo Wagner, il suo Verdi, il suo Bizet e il suo Rimsky. Perchè Beethoven doveva fare eccezione?
Che poi, come dice Mattioli, il furtwanglerismo di ritorno piaccia nella sua consolatoria musealità non lo nego. Ciò non toglie che in più punti stavo per addormentarmi. Non so voi, ma a me il risaputo, a teatro, annoia.
Leonore non è un rebus. Semplicemente la Kampe è una Leonore senza le note della parte. Come nove Leonore su dieci. Il problema è la scarsa fantasia di Lissner che l'ha scritturata. Bastava andare a Reggio Emilia con Abbado per rendersene conto e sceglierne un'altra.
Vogt mi è piaciuto. Innanzitutto, alla prese con Florestan, si è mostrato vocalmente più in regola lui del tenorissimo che l'ha sostituito. E poi, cosa volete che vi dica, con la sua vocina penetrante, con quel timbro da sanluigino, con quell'accento di chi sta per mettersi a piangere in bilico tra il dolore autentico e il capriccio... insomma, con tutto questo, Vogt mi ha conquistato.
Finalmente, un Florestan diverso dal solito Charlton Heston segregato in cantina che cerca con erculea possanza di spezzare le catene.
Il Florestan di Vogt è un rivoluzionario da salotto, un teorico della resistenza, un ingenuo ribelle in pantofole che si è cacciato in un guaio. Dopo averlo ascoltato nessuno può avere dubbi su chi portava (e porterà) i pantaloni in casa.
E il terzo atto, con quell'atmosfera da dungeon and dragons, quelle prospettive strane (il Piranesi azzeccatissimo del Mattioli), quella regia così spielberghiana nella sua terribilità da fumetto e nella sua gioia altrettanto consolatoria, tipo video da cinquepermille alla chiesa, quella maniacalità così esaperata e lineare della Warner nello stabilire da che parte stanno i buoni e da che parte i cattivi (oltre alla mo-stru-o-sa bravura di Mattei che come una calamita ha fatto sparire tutti gli altri), insomma, tutto questo mi ha preso e nel finale canticchiavo (un pelino commosso) assieme al coro.
Il resto mi ha annoiato.
Come mi hanno annoiato i telefonatissimo tripudi dei clacchisti riservati a Barenboim. E i ciaociao fatti con le manine. E lui, che impassibile come una statua dell'isola di Pasqua, li prendeva senza neanche sorridere.
WSM