Parsifal, regia di Romeo Castellucci

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Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda DottorMalatesta » lun 20 gen 2014, 18:29

Sabato pomeriggio, al Teatro Comunale di Bologna, ho assistito al Parsifal di Castellucci, la sua prima regia d´opera (e che opera!).
Impossibile passare sopra all´imbarazzante inadeguatezza del coro e dell´orchestra (che pure ho avuto modo di apprezzare, e molto, in Rossini a Pesaro), del cast, e soprattutto della direzione: un Roberto Abbado che alle prese col suo primo Wagner (e che Wagner!) sembrava fare il verso a Knappertsbusch. Con un primo atto di un´ora e cinquanta, e più in generale in generale tempi che hanno compromesso seriamente la tenuta del cast e dell´orchestra.
Dal punto di vista visivo, sono davvero in difficoltà nell´esprimere un parere. Questo Parsifal è stato al contempo tutto e il contrario di tutto, sia dal punto di vista contenutistico che formale. Un Parsifal ecologista, socialista, religioso, laico… Un Parsifal con simbolismi da scuola serale, gestione dei cantanti e delle masse mediocre, simbologie complesse, continui rimandi ad altre opere d´arte. Se qualcuno, come Gurnemanz, mi chiedesse: „weißt du, was du sahst? Sai dirmi cosa hai visto visto?” sarei in difficoltà nel rispondere. Più che un´opera intesa e rappresentata in senso tradizionale, questo Parsifal fondeva in sé aspetti da video-clip e video-art, body art, happening. Vi propongo qui di seguito la mia proposta di lettura dello spettacolo che comunque vi consiglio caldamente di vedere dal vivo (o per chi non potesse anche in video, essendo disponibile il DVD delle recite a Bruxelles, che peraltro non possiedo, e quindi non so quanto possa aver reso l´immediatezza dello spettacolo).


Il Parsifal di Romeo Castellucci, il Redentore che libera

Mentre risuona il preludio, campeggia una gigantesca foto di Nietzsche, il filosofo che aveva accusato Wagner di essersi “prostrato, derelitto e affranto, ai piedi della croce”. Nella seconda parte del preludio, che tanto insiste sul motivo del dolore di Amfortas, compare un serpente, elevato fino all´altezza dell´orecchio del filosofo. Parsifal, diceva Nietzsche, è una musica che avvelena l´anima.
In Also sprach Zarathustra Nietzsche scrive a proposito dei preti: “io ho sofferto e soffro con loro: essi sono per me dei prigionieri e dei segnati. Colui che essi chiamano Redentore, li ha stretti in catene. Li ha incatenati in falsi valori e folli parole! Ahimè, potesse qualcuno salvarli dal loro Redentore!”. E, nella visione di Castellucci e della sua dramaturg Piersandra Di Matteo, Cristo, il Graal, il Redentore, è redento da Parsifal, dal Parsifal, dall´Uomo Nuovo, dal nuovo Adamo, da una nuova umanità. Erlösung dem Erlöser.
Parsifal non è più un “Bühnenweihfestspiel” inteso come “azione drammatica di iniziazione ad un nuovo modo di intendere la scena”, in cui l´arte riscatta e redime la religione. Questa in fondo, era l´intenzione del compositore che nei Meistersinger aveva cantato la gloria di un´arte che poteva elevare l´uomo a Dio -“Parnaß und Paradies”-, e in Parsifal scrive l´omaggio ultimo e supremo alla propria arte, l´arte del futuro, il teatro del futuro. Parsifal e Bayreuth, il teatro dove il Tempo diventa Spazio, e la Musica Architettura. Per Castellucci il Parsifal è invece un´azione scenica di iniziazione ad una nuova umanità, libera dai vincoli, dalle catene, dalle costrizioni. E Parsifal un nuovo Prometeo, un nuovo Adamo, un nuovo Cristo.
Montsalvat è mons salvationis, ma è anche mons silvaticus. E proprio in una selva è ambientato il primo atto di questo Parsifal. Una selva dantesca, dove l´uomo si perde come in un labirinto dell´anima. Smarrirsi e ritrovarsi, è il labirinto della vita. Un bosco che è specchio della vita interiore dell´umanitá, la waste land di Eliot. Cadono, appassite, le foglie. Alcuni alberi vengono sradicati. Kundry è una donna seminuda, legata ad un albero; come Eva, anch´ella è vittima del peccato, costretta da legami che la vincolano, la limitano, la imprigionano.
Alcuni uomini e donne camminano in lontananza: zaino sulle spalle, sono viandanti sul sentiero della vita. Uno di essi, si allontana dalla strada maestra, decide di smarrirsi (inevitabile il riferimenti all´ incipit della commedia: “nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita): è Parsifal. Parsifal che oltrepassa una corda rossa, una recinzione, un legame, un limite, ed accede al cuore della foresta. Questa la sua “colpa”, questa la sua “uccisione del cigno”. Parsifal vuole infrangere un vincolo, ogni vincolo. Per questa la sua prima azione è quella di liberare Kundry dal suo legame, per poi accostarsi allo scheletro di un cigno e a quello di un essere umano. Memento mortis. L´uomo che si confronta con il limite, con la morte, con la sua storia passata e futura.
Al termine della Verwandlungsmusik questa selva si manifesta per quello che è: terra guasta (waste land, dead land), malata, putrefatta, illuminata da una luce fredda, immobile, lattescente. E ben presto questa foresta lascia spazio alla civiltà: sullo sfondo si intravede l´architettura ad arco di un teatro (o forse di una chiesa) in fase di costruzione. Il grido disperato di Amfortas è il dolore di una natura violata, un´orrenda oscuritá che partendo dal suo corpo si dilata a dismisura fino ad invadere tutto il teatro.
Enthüllet den Graal!, proclama Titurel. Ma qui il velo, anziché cadere, viene sollevato. E l´ostensione diviene mistero: compare una tenda, bianca, su cui –nero- spicca il segno di un apostrofo. Segno di elisione, esso è assenza e al contempo presenza. Come Dio, l´apostrofo è un´assenza presente e una presenza assente. Dio che per alcuni è un´ipotesi, per altri una certezza. Cosa vi sia dietro quella tenda, ognuno in cuor suo lo sa. Castellucci non interpreta il Graal. La domanda delle domande “Wer ist der Graal?, Chi è il Graal?” rimane senza risposta. E la Parola si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi. La tenda dietro cui il Graal si rivela è anche la Shekinah degli Ebrei, la nascosta presenza di Dio. E l´apostrofo rimanda anche alla lettera ebraica “iot”, la prima delle quattro che formano il Tetragramma, il nome nascosto e impronunciabile di Dio. Ma l´apostrofo è anche legame, vincolo, unione. E quindi espressione del culto, della religione (da “re-ligare”, unire, congiungere, legare insieme”), la religione che determina un´unione sul piano orizzontale (tra gli uomini che celebrando uno stesso culto riconoscono l´appartenenza ad un gruppo) e sul piano verticale (il culto che è legame tra gli uomini e Dio).
La cerimonia di svelamento/velamento del Graal si è conclusa. La scena è ora vuota, dominata da un enorme disco nero: forse uno specchio, forse un riferimento alle figure archetipiche del Graal: un piatto a forma di disco (Gradalis), una pietra nera (lapis ex coelis). Parsifal trattiene una corda rossa, che gli viene sfilata dalle mani da Gurnemanz (Weißt du, was du sahst? Sai cosa hai visto?). La perdita del legame è la perdita del centro, la perdita del punto di riferimento, la perdita del senso. Che ora Parsifal dovrà trovare. Altrove.
Il secondo atto viene introdotto da una serie di didascalie che illustrano le caratteristiche e gli effetti sull´uomo di alcuni veleni e tossici. Parsifal, come riconosceva Nietzsche, è opera velenosa. E velenosa è la musica che apre il II atto, con il suo cromatismo esasperato e lacerante. Klingsor ha qui le fattezze di un direttore d´orchestra (il riferimento è al Parsifal di Syberberg, in cui Amfortas aveva le fattezze del direttore Armin Jordan). Emblema di supremazia, la bacchetta è simbolo fallico, strumento di dominazione, e il direttore d´orchestra è colui che lega tra loro i suoni, creando vincoli, legami, catene. Per Adorno il direttore d´orchestra è detentore di un potere sadico. E così questo Klingsor, che nel biancore asettico della scena, si dedica a pratiche di Kinbaku, la tradizione erotica giapponese che consiste nel legare delle donne nude. Corpi legati, corpi che si contorcono. Legami, corde, catene, vincoli. Una delle fanciulle di Klingsor si dispone, nuda, su una sorta di altare, le gambe aperte, il sesso in mostra. L´origine del mondo di Courbet. La donna madre, la donna amante. In questa stanza tutto è ambiguità e illusione; la luce sembra emanare da un lucernario da teatro, mentre invece origina da una più ordinaria torcia da cantiere.
Parsifal entra, novello Perseo, armato solo di uno specchio (rotondo, come il gigantesco disco nero alla fine del primo atto) per affrontare la Medusa-Kundry, che gli si accosta con un enorme pitone bianco attorcigliato attorno all´avambraccio. Ancora un legame, ancora un riferimento ad Eva e al peccato originale. Nel momento in cui Kundry-Medusa-Eva bacia Parsifal compare, sovrapposta, l´immagine di un´altra coppia che si bacia, si abbraccia e si unisce carnalmente: Herzeleide-Gamuret, Herzeleide-Parsifal, Kundry-Amfortas, Kundry-Parsifal. La sovrapposizione tra Parsifal e Amfortas (Amfortas! Die Wunde!) è così sperimentata sensorialmente anche dallo spettatore. E dalla sovrapposizione origina la separazione, la separazione tra donna madre e donna amante, da un lato Herzeleide, dall´altro Kundry. Cosí un primo legame (quasi un cordone ombelicale, verrebeb da dire) è reciso per sempre. Parsifal si libera da un vincolo, e così Kundry, che non è più Kundry, non è più Herzeleide, non è più Kundryggia, Herodias, Höllenrose, Urteufelin. Ma è solo una Namenlose, Una senza-nome (come il Parsifal del primo atto, ignaro di sé, incosciente di tutto). Una donna, peccatrice, che si dirige verso il fondo della scena, e sulla parete bianca scrive in nero: “ANNA, ME, NOW, TIED”: Anna, io, ora, legata. Ora, Kundry è solo Anna. Anna, nome palindromo. Anna Larsson. L´interprete di Kundry in questa produzione. Una donna come tante, sola, legata, incatenata, che aspetta chi le dia Erlösung (redenzione) e Lösung (scioglimento dai vincoli). Parsifal si avvicina al “doppio” di Namenlose-Kundry-Anna, una donna legata da strette catene, e comincia a redimerla e a scioglierla dai legami. Una volta liberata, questa donna nuova, liberata dal vincolo del peccato, spalanca le braccia in un gesto che diventa il (laico?) segno di croce che farà crollare il regno di Klingsor. E´ nata un´umanità nuova, libera e liberata.
Il terzo atto si apre con la solitudine di Gurnemanz, costretto a ripetere in continuazione, in una forma di sterile onanismo, dei gesti sacrali ormai privi di significato, svuotati di senso. Il rito è ora solo ripetizione, allucinazione, delirio. Entra Parsifal, e con lui entra un´umanità nuova: donne, uomini, vecchi e bambini. Un´umanità redenta e liberata. Parsifal accetta di sottoporsi al rito del battesimo e dell´unzione del capo, ripetendo la ritualità gestuale stanca e ripetitiva di Gurnemanz. Ma questo culto vuoto, egli lo rinnova dall´interno. E crea così una nuova religione, un nuovo legame simboleggiato da una corda rossa che passa di mano in mano, a creare un nuovo vincolo dà crea senso e valore (Mitleid, Cum-patire) all´umanità nuova. Questo è l´incantesimo del Venerdì Santo: un´umanità nuova che si mette in cammino. Una comunità di persone che avanza verso il proscenio (il riferimento visivo, chiarissimo, è a “Il Quarto Stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo) e comincia a camminare, tutta insieme, su un tapis roulant. Un´umanità in cammino, libera e liberata, che aspetta redenzione e libertà definitiva dai vincoli della storia. Mai a teatro mi era capitato di subire, fortissimo, un senso di disagio come quello sperimentato a partire da questa scena: questi uomini e donne camminano al proscenio per più di mezz´ora, e la tensione cresce in maniera impercettibile fino a farsi quasi insopportabile. Lo spettatore è a disagio, per la ripetitività, la coazione a ripetere, di quest´umanità libera dai vincoli del passato, e ora costretta da un nuovo legame a marciare in continuazione, su una storia che è essa stessa vincolo (“Irre!”, la maledizione dell´errore e dell´erranza). Questo è il Sehnen (Das Sehnen, das furchtbare Sehnen! La brama, la brama terribile!), la tensione (lo stress, direbbero gli inglesi) che crea lacerazione, dolore, sofferenza. Schopenhauer e il Buddismo non sono lontani.
Parsifal, Erlöser dell´umanità, ferma la ruota del divenire. E sta. Come Cristo, il Risorto, che – letteralmente “sta fermo in piedi” (anàstasis). Ma al posto della ben più rassicurante colomba, un cielo plumbeo, una città capovolta, scende dall´alto, minacciosa, e la sua oscurità invade la sala. Tutti se ne vanno. Dal gruppo degli uomini e delle donne si distacca una figura. Anna. Si accosta a Parsifal, poi si ritrae. Tra le immondizie di una strada di città, Parsifal resta solo. E con lui noi. Alla fine, una domanda, inquietante, resta: chi può redimere il Redentore? Chi lo può liberare? Erlösung dem Erlöser?

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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda Luca » lun 20 gen 2014, 19:39

Grazie Francesco della riflessione-recensione.
Del resto, come Lohengrin, anche Parsifal termina con un enigma, o meglio non mette la parola "fine".
In Youtube c'è qualche scena di Bruxelles per reclamizzare il DVD. Personalmente, da quello che vedo, ci trovo molta desolazione.

Saluti, Luca.
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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda DottorMalatesta » lun 20 gen 2014, 19:43





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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda reysfilip » mar 21 gen 2014, 0:09

Grazie Francesco per la recensione. La aspettavo fremente :D
Devo dire che ho dovuto leggere la spiegazione dello spettacolo per due volte e non per colpa della tua scrittura, ma semplicemente perché tutti questi simboli a ruota libera mi stavano confondendo non poco.
Sicuramente si è trattato di una produzione interessante (e mi mangio le mani per non essere riuscito a venire) soprattutto per il risvolto finale.

Un Parsifal con simbolismi da scuola serale, gestione dei cantanti e delle masse mediocre, simbologie complesse, continui rimandi ad altre opere d´arte.


Questa affermazione solitamente basterebbe a uccidere una regia.
Ma mi stavo chiedendo, la simbologia da te esplicata non è certamente tra le più semplici e immediate. Quanto ti sembra che abbia ricevuto il pubblico di tutta questa drammaturgia degna di un trattato filosofico? E' efficace, secondo te, il modo in cui sono state rese tutte queste idee?
E, domanda più ampia, è giusto caricare di così tanti simboli un'opera già di per sé estremamente simbolica?
Ah ultimissima domanda, stavolta musicale, il cast era così aberrante? :mrgreen:

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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda DottorMalatesta » mar 21 gen 2014, 11:15

Intanto provo a rispondere all´amico Luca.
Questa volta confesso di non essere molto d´accordo.
Il finale di Parsifal non mi sembra un finale “aperto”. L´ultimo tema che si ascolta è quello del Liebesmahl o dell´Agape, che è anche il primo tema che si ascolta all´inizio dell´opera. La struttura del Parsifal è quindi circolare (l´eterno ritorno di Nietzsche?)? Anche il III atto che ricalca il primo lo potrebbe far pensare. E invece a mio parere non è così. Perché il tema dell´Agape alla fine è trasfigurato, e segna una cesura netta, apre una nuova strada. Nel preludio il tema dell´Agape presenta sempreal proprio interno la figura del dolore, della sofferenza (che è rappresentata musicalmente dalla “caduta”): la sofferenza di Amfortas è sofferenza fisica e al contempo spirituale, morale, perché frutto del peccato, della caduta da una condizione spiritualmente elevata.

Immagine
(la "caduta" della figura del dolore, la si trova nel passaggio dal la al sol al do grave tra la seconda e la terza battuta, anche se in questo tema il concetto di "battuta" è ormai superato). Per inciso, a proposito della musica che dal silenzio nasce e nel silenzio muore, la prima notazione del Parsifal è una notazione di silenzio, una pausa!

Anche il tema di Kundry è caratterizzato da una caduta (anzi, da una caduta doppia, da una “caduta a cascata”perché Kundry è peccatrice due volte: ha deriso Cristo sulla via al Calvario e il suo peccato si ripercuote a cascata sulla sua esistenza di peccatrice, di donna-strega seduttrice),

Immagine

e anche il famigerato “lachte!” è espresso, musicalmente, come una caduta. Nel finale il tema dell´Agape è invece purificato, depurato dal peccato, dalla figura della sofferenza, della caduta che in effetti manca.
Per un'analisi più approfondita dei vari temi vi rimando al libretto del Parsifal della Fenice:

http://www.rodoni.ch/wagner/parsifal-fenice.pdf

e al classico sito Montsalvat dedicato a Parsifal:

http://www.monsalvat.no/motiftop.htm

Quanto alle enigmatiche parole finali “Erlösung dem Erlöser”, più passa il tempo più mi convinco che qui Wagner abbia voluto esaltare l´arte, la sua Arte, quindi, nello specifico, il Parsifal, opera inscindibile da Bayreuth, dal Teatro nuovo, almeno nelle intenzioni del compositore. L´arte che redime la religione (è peraltro questo il “succo” del saggio Religion und Kunst), Parsifal che redime Cristo. Wagner che redime Cristo. Solo un ego ipertrofico come quello del compositore tedesco poteva arrivare a tanto. :mrgreen:
Si potrebbe leggere tutta l´opera in questo senso, come un´ “azione drammatica di iniziazione ad un nuovo teatro” (Bühnenweihfestspiel). Pensate al Morgenweckruf (sul tema del´Agape), quando Gurnemanz risveglia i novizi. Cosa dice loro? “Custodi della foresta, e custodi del sonno! Siate svegli almeno durante il giorno!”. Il riferimento è certamente al Vangelo (Cristo che nell´orto degli Ulivi si rivolge agli apostoli rimproverandoli di non essere riusciti a vegliare con lui), ma potrebbe benissimo essere rivolto anche agli spettatori dell´opera tradizionale, che vanno a teatro per guardare le gambe delle ballerine o in alternativa per sonnecchiare sprofondati nelle loro comode poltrone :mrgreen: . Non cosÍ a Bayreuth, teatro dove i sedili (mi assicurano) sono di una scomoditá tale da rendere impossibile il sonno, e dove ancora prima di accedere al teatro le trombe sul davanzale eseguono il Morgenweckruf, come invito agli spettatori a scrollarsi di dosso il torpore del sonno, delle convenzioni operistiche. Ancora i commentatori dell´epoca (e se non ricordo male anche lo stesso Nattiez nel suo “Wagner androgino”) avevano visto un collegamento tra le Blumenmädchen (le fanciulle fiore del II atto) e il Grand Opera di Meyerbeer (e se non erro Wagner stesso pretese che le fanciulle fiore indossassero il tutù, tipo di indumento che venne creato appositamente per il Sabba delle Suore-Zombie nel Robert le Diable). Infine, la frase che è stata vera e propria crux per decine di esegeti “Zum Raum wird hier die Zeit”, può essere letta come un riferimento a Bayreuth, il luogo dove il tempo (la musica) diventa spazio (architettura). L´interpretazione registica piú convincente e coerente di questo tipo di lettura l´ha data Herheim nel suo incredibile spettacolo a Bayreuth.

Venendo ora a Reysfilip
reysfilip ha scritto:Grazie Francesco per la recensione. La aspettavo fremente :D
Devo dire che ho dovuto leggere la spiegazione dello spettacolo per due volte e non per colpa della tua scrittura, ma semplicemente perché tutti questi simboli a ruota libera mi stavano confondendo non poco.
Sicuramente si è trattato di una produzione interessante (e mi mangio le mani per non essere riuscito a venire) soprattutto per il risvolto finale.

Un Parsifal con simbolismi da scuola serale, gestione dei cantanti e delle masse mediocre, simbologie complesse, continui rimandi ad altre opere d´arte.


Questa affermazione solitamente basterebbe a uccidere una regia.
Ma mi stavo chiedendo, la simbologia da te esplicata non è certamente tra le più semplici e immediate. Quanto ti sembra che abbia ricevuto il pubblico di tutta questa drammaturgia degna di un trattato filosofico? E' efficace, secondo te, il modo in cui sono state rese tutte queste idee?
E, domanda più ampia, è giusto caricare di così tanti simboli un'opera già di per sé estremamente simbolica?


Sì e no. Nel senso che i simbolismi da scuola serale c´erano (la foresta, il serpente, Nietzsche), ma utilizzati in un modo che era tutto tranne che da scuola serale! La cosa interessante è che dei simbolismi da scuola serale mancavano quelli che invece tutti ci saremmo aspettati: la coppa del Graal e la lancia! Penso che questo fosse il mio quindicesimo Parsifal (o giù di lí), ma è stato il primo Parsifal in cui questi due elementi non c´erano. La cosa sulla quale rifletto orma i da un po´è se sia possibile mettere in scena Parsifal PRESCINDENDO da una interpretazione simbolistica. NESSUNA regia del Parsifal da me vista (ma anche nessuna di quelle disponibili in video) si allontana da un approccio di questo tipo. Per questo un po´di tempo fa auspicavo che un regista come Richard Jones mettesse mano al Parsifal per "redimere Parsifal da se stesso". :mrgreen:
Il problema è capire che cosa sia il Parsifal di Castellucci. Se lo si considera uno spettacolo teatrale o uno spettacolo d´opera allora le scorciatoie sono troppe: comodo velare lo “svelamento” del Graal, comodo risolvere gli ultimi quaranta minuti di musica facendo vedere della gente che cammina su un tapis roulant.
Il fatto è che la mia impressione è che questo fosse davvero un modo NUOVO di mettere in scena il Parsifal, e una “cosa” nuova. Una fusione (“Gesamtkunstwerk”?) di spettacolo tradizionale, visual art, body art, happening. In questo senso anche il Parsifal di Castellucci, come il Parsifal di Wagner, è “Bühnenweihfestspiel”: azione dramatica di iniziazione ad un nuovo teatro.
Immagino che in video ingeneri solo molta noia. Ma vi assicuro che gli interminabili minuti in cui questa folla di gente camminava e camminava e camminava creavano un senso di “stress”, di tensione, di ansia nel pubblico davvero insostenibile. Io, che sono nevrotico di mio, sembravo tarantolato: non riuscivo proprio a star fermo sulla poltrona. E come me molti altri. Non a caso è stato l´unico momento dello spettacolo in cui si sono sentiti due commenti di disapprovazione: “Basta!” e “Ma insomma!”. Anche il pubblico, come l´Umanitá in cammino sul proscenio, era stritolato dalla morsa dell´eterno ritorno. Se non è body art questa! Per inciso, in ambito critico c´è molta discussione su questo modo di “giocare” (“spiel” in inglese e tedesco è sia il gioco che il teatro) con la reazione dello spettatore, al fine di “demolire la quarta parete” che divide il pubblico dalla scena. A tal proposito c´è un saggio davvero bello di Clemens Risi pubblicato sul Cambridge Opera Journal (Shedding light on the Audience), che se volete vi posso passare.
Se in una prospettiva “tradizionale” il momento faceva acqua (voglio dire: ce lo immaginate un registra della novelle vague britannica tipo Jones a far camminare per 40 minuti della gente al proscenio??!!), in una prospettiva diversa era centratissimo.
Per inciso, questo momento conferma la lettura in parte nietzscheana data da Castellucci. Tre sono gli elementi fondanti della filosofia di Nietzsche: 1. Il Superuomo; 2. L´eterno ritorno; 3. La volontá di potenza e il rifiuto della pietá. Il Parsifal di Castellucci è (apparentemente) un Superuomo, un prometeo liberatore dell´umanitá. La concezione del tempo se non chiaramente circolare, fa comunque riferimento all´eterno ritorno (si veda la scena del popolo in cammino). Il fatto è che, alla fine, Nietzsche sembra avere ragione: questo Parsifal è un perdente. Un perdente perché ha investito tutto sul Mit-leid, sulla pietas, sulla com-passione. E alla fine resta solo, abbandonato dall´umanitá che egli stesso aveva liberato e redento. Per Nietzsche la compassione rappresenta il fondamentale istinto “anti-vita”, perché provando compassione indeboliamo noi stessi, e in nessun modo possiamo “beneficiare” l´oggetto della nostra pietá. Gli estremi si toccano: il sinistrorso Castellucci sposa le idee del destrorso Nietzsche (vessillo del nazismo), e conclude il suo Parsifal mostrandoci l´inutilitá di ogni sforzo, di ogni tentativo di liberare l´umanitá per mezzo della compassione.

Ah ultimissima domanda, stavolta musicale, il cast era così aberrante? :mrgreen:


Il cast non era pessimo a priori. Lo è stato per colpa principale della direzione asfissiante di Roberto Abbado. La povera Kundry della Larsson ha mostrato delle asprezze a mio modo di vedere imputabili proprio ai tempi imposti dal direttore. Che poi non sia facile cantare tenendo attorcigliato attorno al braccio destro un pitone che sará pesato una quindicina di chili è probabilmente un´altra componente. La voce di Amfortas non arrivava nemmeno alla mia fila (ero in platea, undicesima fila). Ma anche qui è un errore di valutazione da parte del direttore: che l´acustica “aperta” di un teatro all´italiana sia diversa dall´acustica coperta tramite il ricorso al golfo mistico e allo Shalldecke di Bayreuth dovrebbe essere una cosa ovvia anche agli studenti del primo anno di conservatorio. Discreto Gurnemanz. E molto deludente Gallo: la pronuncia è davvero pessima, e poi gonfiava artificiosamente i centri allargando le vocali per avere piú “corpo”: come risultato la solita polenta wagneriana molto Domingo-style. Andrew Richards se l´è cavata, ma è stato un Parsifal molto superficiale dal punto di vista interpretativo.

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P.S.: So che il DIvin Maugham non sarà d´accordo su NULLA! Ma perché non si manifesta in tutta la sua potenza? Suvvia! Enthüllet den Graal! Öffnet den Schrein!!!! :mrgreen:
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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda Maugham » mer 22 gen 2014, 14:45

DottorMalatesta ha scritto:P.S.: So che il DIvin Maugham non sarà d´accordo su NULLA! Ma perché non si manifesta in tutta la sua potenza? Suvvia! Enthüllet den Graal! Öffnet den Schrein!!!! :mrgreen:


Tutt'altro. Apprezzo sempre le tue analisi e invidio la tua capacità di riuscire, a botta calda, a scrivere qualcosa su uno spettacolo. Io non ce la faccio. Ho bisogno di lasciar decantare le emozioni, di pensarci sopra e, lo ammetto, a volte perdo l'interesse e la spinta a scrivere.
Detto questo ti dirò che prima di esprimere giudizi su questo Parsifal (che lasciano il tempo che trovano) mi interessa tentare di capire le ragioni di un tale successo.
Perchè Castellucci -piaccia o meno- ha firmato uno spettacolo di successo. Non ci piove. Fin dal suo debutto a Bruxelles i superlativi si sono sprecati, i teatri se lo stanno contendendo (pare imminente un riallestimento negli Usa e in Francia e voci di corridoio lo dicono invitato a Bayreuth dalle sorellastre), dovunque lo si monti c'è la corsa al biglietto e la sonnolenta Bologna ha conquistato, con questo Parsifal, gli onori dei blog operistici internazionali. Aggiungo che, almeno nelle due serate in cui ero in sala, il pubblico era attentissimo, conquistato e, alla fine, entusiasta. E dire che si trattava di Parsifal e di un Parsifal -a mio avviso solo apparentemente- fuori dagli schemi consueti. Ce n'è d'avanzo per dire che questo spettacolo aveva un suo perchè.

Proviamo a capire.

Primo: lo spettacolo di Castellucci è facile. E non c'è niente di male. Sembra uno spettacolo complicato, ma non lo è. Malatesta ha osservato che Castellucci nei contenuti è elementare e, in alcuni punti, banale. Non posso negarlo; anche il wagneriano più disattento sorride di fronte a Nietzche, al serpente, alla Kundry in triplice veste di bambina, madre e amante. Il messaggio buonista ed ecologista è stravisto e, ad essere onesti, anche il suggestivo muro umano che cammina per quaranta minuti nel Finale sulle prime impressiona, poi incuriosisce e poi annoia.
Detto ciò alcuni squarci di questo Parsifal ti rimangono in testa. E sono convinto che anche fra un po' di anni ci ricorderemo alcuni dettagli di questo allestimento quando invece ce ne saremo dimenticati tanti altri. Castellucci, a differenza di altri colleghi altrettanto concettosi, dà priorità all'effetto teatrale. E usa gli effetti (in alcuni casi incisivi e potenti, non lo nego) per far passare concetti che, profondi o superficiali non importa, vengono immediatamente recepiti anche dallo spettatore generalista proprio perché veicolati da un effetto scenico o luminoso che cattura l'attenzione. Ne deriva che il nostro spettatore generalista (perdonatemi lo snobismo) il quale odia gli allestimenti "moderni" molte volte solo perchè lo fanno sentire inadeguato, quando "capisce" qualcosa che sulle prime sembrava enigmatico allora si sente lusingato e alla fine applaude convinto e felice. Anche se quello che ha capito poi, gratta gratta, si rivela poco oltre la scoperta dell'acqua calda. :D
Sulle prime la cosa mi ha infastidito; poi ho capito che Castellucci, a suo modo e con la sacrosanta furbizia dell'uomo di teatro, ha giocato col pubblico e l'ha portato dalla sua.
Non voglio essere frainteso; quando affermo che Castellucci sa lavorare con gli "effetti-teatro" non dico che sia un regista d'opera "teatrale", alla Carsen o alla Cheréau per capirci, un regista capace cioè di scrivere una partitura scenica che sia perfettamente in linea ed incastonata nella partitura musicale. In questo Parsifal la drammaturgia era assente, il lavoro sui personaggi e sui temi conduttori inesistente (quasi un'opera concerto), chiaramente si percepiva che a Castellucci non interessavano molti passi dell'opera... tuttavia certi momenti te li ricordi. Così come, dopo anni, ti ricordi ancora certi squarci iconici, certe sequenze, certi snodi narrativi all'interno di film che, nel complesso, invece ti hanno detto poco.

Secondo: lo spettacolo di Castellucci è visivamente bello.
Certi passaggi sono impressionanti. La foresta in apertura, l'entrata a Monsalvat, l'antro di Klingsor così serial-killer hi-tech, il catenone finale sono visivamente emozionanti. Le luci sono quasi sempre bellissime e il taglio estetizzante di molti momenti (chi segue Castellucci nella prosa lo conosce bene e si è sorpreso poco dopo le numerose tappe della Tragedia Endogonidia) bastano da soli a giustificare un giudizio più che positivo sull'uso della scenotecnica. E' ovvio che un pugno di effetti carini non possono reggere il peso di cinque ore e rotte di dramma musicale. Il duetto Kundry-Parsifal era insostenibile nella sua staticità vuota e priva di senso, così come la parte centrale del primo atto (Racconto di Gurnemanz) e quasi tutta l'apertura del Terzo. Il tableaux suggestivo, l'istallazione da Biennale Arte, le luci da performance da Festival di Avignone, poco hanno potuto di fronte monologhi di oltre un quarto d'ora che si srotolavano noiosi e vuoti e, almeno per me, irritanti. Così come mi ha irritato la furbizia con cui Castellucci ha svicolato sulle parti cerimoniali del primo atto che, in nove Parsifal su dieci, sono la forca caudina su cui sono caduti anche registi di grande esperienza. Un sipario, l'apostrofo, un po' di luci suggestive... e quando riapri il sipario tutto è finito. 8)

Terzo: Castellucci è molto popolare fuori dall'Italia. E questo anche spiega le ragioni del successo. Tolto forse Pippo Delbono, nessun regista sperimentale italiano può competere con la sua popolarità. In Francia è un punto di riferimento, ha un seguito enorme, i cenacoli intellettuali e progressisti lo amano, i giovani che muovono i primi passi nel teatro di ricerca lo considerano un maestro, la sopracitata Tragedia Endogonidia ha fatto tutte le principali città d'Europa riscuotendo successi su successi, i suoi seminari e le sue masterclass sono sold-out mesi prima. Un suo debutto nell'opera (e con che opera!) non poteva che andar bene. Come quello di Padrissa e della Fura dels Baus. Inoltre, per l'occasione, si sono mossi spettatori e theatregoers che -pur seguendo Castellucci- non avevano mai messo piede in un teatro d'Opera. Ad esempio a Bologna c'era mezzo DAMS...

Riepilogando: uno spettacolo facile, visivamente bello e firmato da un nome accreditato dalla stampa internazionale.
Per quanto mi riguarda devo dire che questo Parsifal mi è sembrato suggestivo in certi punti, insopportabile in altri e, alla fine della fiera, piuttosto noioso anche se devo ammettere di essere da sempre impermeabile a un certo modo di fare teatro.
A questo giudizio interlocutorio purtroppo aggiungo la desolante piattezza della parte musicale. Roberto Abbado faceva quello che poteva con un'orchestra palesemente impari con una partitura del genere che abitualmente sentiamo dalle più grandi orchestre del mondo. Il cast discreto ha portato a casa la serata. Ma poco di più.

a presto

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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda mattioli » mer 22 gen 2014, 17:03

Ah, il prof. dott. Maugham è risalito in cattedra.
Tutto da incorniciare, suppongo (suppongo solo perché io quel Parsifal non l'ho visto e temo non lo vedrò).
Chi è a tiro faccia in ogni caso un salto a Bologna. Per salutare Claudio, intanto; e poi perché la famiglia è riuscita a organizzare un addio rigoroso, lieve, antiretorico e sorridente che sarebbe piaciuto moltissimo a Lui.
Baci baci

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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda DottorMalatesta » mer 22 gen 2014, 19:25

Maugham ha scritto:E dire che si trattava di Parsifal e di un Parsifal -a mio avviso solo apparentemente- fuori dagli schemi consueti.

...

Primo: lo spettacolo di Castellucci è facile. E non c'è niente di male. Sembra uno spettacolo complicato, ma non lo è. Malatesta ha osservato che Castellucci nei contenuti è elementare e, in alcuni punti, banale. Non posso negarlo; anche il wagneriano più disattento sorride di fronte a Nietzche, al serpente, alla Kundry in triplice veste di bambina, madre e amante. Il messaggio buonista ed ecologista è stravisto e, ad essere onesti, anche il suggestivo muro umano che cammina per quaranta minuti nel Finale sulle prime impressiona, poi incuriosisce e poi annoia.

...

In questo Parsifal la drammaturgia era assente, il lavoro sui personaggi e sui temi conduttori inesistente (quasi un'opera concerto), chiaramente si percepiva che a Castellucci non interessavano molti passi dell'opera... tuttavia certi momenti te li ricordi. Così come, dopo anni, ti ricordi ancora certi squarci iconici, certe sequenze, certi snodi narrativi all'interno di film che, nel complesso, invece ti hanno detto poco.


Sono in grandissima parte d’accordo con il Divino (meno male! :mrgreen: ).
Per quanto riguarda la complessità/facilità della lettura, questo –come al solito- dipende dal “retroterra” culturale e dal grado di dimestichezza con il teatro (operistico o di prosa). E’ probabile (ancorché non impossibile) che uno completamente a digiuno di Parsifal o di Wagner non capisca un tubo di questo spettacolo. Almeno a livello “contenutistico” (tanto per dire, durante l’intervallo alla fine del secondo atto un sacco di gente era lì a domandarsi chi diavolo fosse quella Anna! 8) ). Mentre dal punto di vista “emotivo”, passatemi il termine, questo è uno spettacolo che, in moltissimi momenti, colpisce. Solo così mi spiego il fatto che almeno alla prima Castellucci non sia stato sommerso da una valanga di fischi (a meno che in teatro non ci fosse mezzo DAMS :mrgreen: ). Il fatto è che, a mio parere, questo Parsifal nei momenti più coinvolgenti dal punto di vista razionale (svelamento/velamento del Graal; duetto Kundry-Parsifal; incantesimo del Venerdì Santo con quel che ne segue) rischia di essere meno coinvolgente dal punto di vista emotivo. Per quanto riguarda l’effetto insopportabilmente “stressante” della marcia ho detto anche troppo; forse Maugham l’ha trovata noiosa e basta; io francamente l’ho trovata assolutamente insopportabile ma tutt’altro che noiosa! :shock: . In una prospettiva tradizionale, concordo assolutamente con maugham: questi tre momenti sono delle autentiche zeppe narrative. Però, dal punto di vista del “cosa” sono stati momenti che mi hanno davvero colpito. Purtroppo non ho modo – essendo un po’ confinato come Levi ad Eboli – di frequentare assiduamente la prosa (in cui a quanto mi risulta Castellucci è comunque un nome, e penso alla sua commedia dantesca - che ho, ma non ho ancora visto, e a a questo punto vedrò : Chessygrin : - o al famigerato "Sul concetto di volto nel figlio di Dio" che fece scoppiare dei casini indescrivibili in terra francese). Quindi non so quanto ci sia di "nuovo" dal punto di vista del linguaggio teatrale inteso a 360 gradi. Però, almeno in questo Parsifal, ho visto un modo di fare opera insolito. Insolito in termini di linguaggio. Come ho scritto questo Parsifal era un Gesamtkunstwerk che mescolava vezzi e vizi degli spettacoli operistici tradizionali, visual-art e video-clip, riferimenti visivi e rimandi ad altre forme d’arte (commedia dantesca, l’origine del mondo di Courbet, Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo i più ovvi), happening, body-art, e persino Kinbaku! Francamente siamo lontani da qualunque altro Parsifal (Kupfer, Shenk, Wolfgang Wagner, Konwitschny, Syberberg, Herheim, Lehnhoff, Krief, Hollmann, Schulz) io abbia visto. Lo ripeto, non tanto dal punto di vista contenutistico (un Parsifal ecologista/socialista/agnostico/esoterico/storicista lo si è visto un po’ in Castellucci e un po’ in tutte le salse anche altrove), ma dal punto di vista della commistione dei linguaggi. Tant’è che, uscito da teatro, davvero mi domandavo (e me lo domando tuttora) se avessi davvero assistito ad uno spettacolo d’opera lirica o non piuttosto ad un’opera d’arte contemporanea su musica di Wagner. Non vedo l´ora di confrontare questo Parsifal di Castellucci con il Tristan und Isolde di Viola/Sellars (un´altra produzione operistica "atpica", almeno sulla carta, nella fusione di spettacolo tradizionale e visual-art). 8)
Infine, non volevo dirlo, ma mi ci vedo costretto… Castellucci alla sua prima regia operistica ha realizzato uno spettacolo come questo. Vogliamo parlare di cosa fece, all’epoca, Emma Dante? :P Quanto alla Fura… direi che siamo davvero su un altro pianeta! :wink:

DM

P.S.: mi attirerò le ire di tutti i fondamentalisti cattolici del Web :mrgreen: , però visto che siamo persone adulte e pensanti e in grado di valutare e giudicare con la nostra testa, ecco un'intervista di Castellucci relativa al contestatissimo spettacolo "Sul concetto di volto nel figlio di Dio"

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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda DottorMalatesta » gio 23 gen 2014, 15:43



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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda Maugham » ven 24 gen 2014, 12:20

DottorMalatesta ha scritto:Infine, non volevo dirlo, ma mi ci vedo costretto… Castellucci alla sua prima regia operistica ha realizzato uno spettacolo come questo. Vogliamo parlare di cosa fece, all’epoca, Emma Dante? :P Quanto alla Fura… direi che siamo davvero su un altro pianeta! :wink:



Parliamone.
Ti sembrerà strano, ma io non vedo poi delle grandi differenza tra lo spettacolo di Castellucci e quello della Dante.
Tutti e due sono due icone del teatro di ricerca, tutti e due hanno lavorato in quello straordinario ghetto della sinistra al caviale che è il Festival d'Avignone, tutti e due hanno applicato in maniera rigorosa e senza compromessi il loro stile e la loro poetica all'opera che avevano sottomano, tutti e due erano debuttanti.
La differenza, secondo me, sta principalmente nel titolo e nel contesto. Castellucci ha avuto il titolo "facile", la Dante quello "difficile". Castellucci ha debuttato in un contesto "facile" e la Dante in uno "difficile".
Se la situazione fosse ribaltata, forse, dico forse, adesso scriveremmo cose opposte.

ciao
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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda DottorMalatesta » ven 24 gen 2014, 13:31

Ciao Divino,
mi potresti illuminare? Non ho ben capito cosa tu intenda per contesto facile o difficile. Se intendi che la Dante ha debuttato operisticamente alla prima della Scala e Castelucci alla Monnaie ti do ragione. Ma per quanto riguarda le opere, sia Parsifal che Carmen sono delle vere pareti di sesto grado. By the way, un altro “debuttante” (o quasi: prima aveva firmato solo due regie d´opera) in un contesto (teatrale e di titolo) difficilissimo fu Chéreau con il Ring del 76 a Bayreuth. Forse fu solo una scelta particolarmente fortunata. Però forse è la dimostrazione che non è sempre detto che uno che non conosca bene il linguaggio e le convenzioni dell´opera realizzi uno spettacolo operistico mediocre. Chiusa parentesi.
La Dante, in Carmen, che ha realizzato? Ho visto una sola volta la sua Carmen, quindi vado a memoria: uno spettacolo operistico comunque convenzionale (voglio dire: nessuna commistione di linguaggi, nessun dubbio che di una regia d´opera si trattasse!), recitato bene (del resto ha valorizzato benissimo Kaufmann che peraltro era ben rodato dalle recite con la Antonacci al Covent Garden finite anche in DVD) in cui l´unico frisson interpretativo era la lettura in chiave “antropologica” (questa Carmen che sapeva di sangue e terra siciliana anziché di sangue e terra spagnola :mrgreen: ).
Castellucci mi sembra invece che abbia realizzato uno spettacolo a mio parere non convenzionale almeno dal punto di vista del linguaggio (vedi quanto ho scritto sopra, non so cosa ne pensi in proposito). E se per quanto riguarda i contenuti è stato un Parsifal talora superficiale, ingenuo e già visto, l´impressione è che Castellucci abbia “riflettuto” sull´opera molto più di quanto abbia fatto la Dante con Carmen. Un esempio per tutti? L´ho già scritto, ma penso alla video-proiezione al momento del bacio tra Kundry-Anna e Parsifal. Questo è IMHO un momento di vera regia teatrale!
Kundry seduce Parsifal facendo leva sul suo (parlando in termini freudiani) “complesso di Edipo”. Tira fuori la storia della madre morta di dolore per risvegliare il senso di colpa di Parsifal e per far sí che, nella sua testa, Kundry si confonda con Herzeleide e Parsifal con Gamuret (suo padre). E invece il “piano” malefico di Kundry si incrina, perché nel bacio Parsifal “sdoppia” la donna madre dalla donna amante e si identifica con Amfortas, anziché con Gamuret! Ora, questo ce lo dice il testo (Amfortas! Die Wunde! Con quel che segue), ce lo dice la musica (la figura del dolore di Amfortas che risuona in piena orchestra) e, nello spettacolo di Castellucci, lo si vede in scena. Il momento è azzeccatissimo nella perfetta fusione suono-testo-scena. Qualcosa di analogo aveva fatto Syberberg nel suo film (a questo punto Parsifal si “metamorfosa” in donna, pur continuando a cantare come tenore-uomo), con una soluzione visiva ben più cervellotica, discutibile, e meno legata al significante e significato della musica e del testo.
Cosí è come la vedo io. Sarei ben felice se mi facessi cambiare idea! :mrgreen: : Sailor :
Poi, ripeto, per quanto riguarda le qualitá tecniche della Dante e di Castellucci nel teatro di prosa non sono assolutamente in grado di giudicare perché nulla so.
Ciao!
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Re: Parsifal, regia di Romeo Castellucci

Messaggioda Maugham » ven 24 gen 2014, 18:39

DottorMalatesta ha scritto:Ciao Divino,
mi potresti illuminare? Non ho ben capito cosa tu intenda per contesto facile o difficile. Se intendi che la Dante ha debuttato operisticamente alla prima della Scala e Castelucci alla Monnaie ti do ragione. Ma per quanto riguarda le opere, sia Parsifal che Carmen sono delle vere pareti di sesto grado.


Quando finirai di prendermi per il culo sarà sempre troppo tardi ma provo ad illuminarti lo stesso. :D
Se guardi ai contenuti e al portato simbolico e alla fama è ovvio che Carmen e Parsifal sono sullo stesso piano.
Io mi riferivo alla "difficoltà" per un regista.
Carmen è infinitamente più complicata per un regista di Parsifal. Richiede un'esperienza, una praticità, un mestiere che invece il Parsifal (e quasi tutto il teatro wagneriano tolto Meistersinger) ti richiede a tratti.
Limitiamoci all'aspetto linguistico.
Carmen ha i numeri chiusi, i dialoghi, tre quarti dell'opera impegnano il coro (e che coro!), le scene d'insieme sono movimentate e devono essere montate con estrema attenzione.
Parsifal è invece un'opera di solisti, non ci sono insiemi e il coro interviene poco. (se poi questi interventi li risolvi con un sipario chiuso, è ancora più facile)
Carmen è un'opera di fatti.
Parsifal è un'opera di concetti.
Se allarghiamo il raggio d'esame allora le difficoltà aumentano.
Carmen è il simbolo, la sintesi, il paradigma dell'azione nell'Opera. La vicenda deflagra e precipita.
Il Parsifal è il monumento alla stasi, al non divenire, all'immutabile. Sotto il profilo teatrale, come comincia, finisce.
In Carmen un regista deve lavorare sui cantanti. Poco o molto, ma lo deve fare.
In Parsifal non è sempre necessario. Lo dimostra il fatto che tu abbia apprezzato questo allestimento dove il regista aveva fatto tutto fuorchè lavorare sui singoli. Anche se eravamo dalle parti dell'opera in forma di concerto questo Parsifal ha funzionato. Per te... per me un po' meno.
In Carmen... neanche per scommessa.
Infine, non ultimo, gioca a favore della difficoltà l'immensa popolarità di un titolo quale Carmen.
Tutti la conoscono, quasi tutti ne hanno visto più edizioni, perfino tra i melomani più preparati trovi persone che conoscono a menadito Carmen e invece hanno notizie di seconda mano su Parsifal.
Parsifal è noto, ovviamente, ma molto meno conosciuto.
Certe stasi dell'allestimento bolognese sono state attribuiti, da alcuni amici, più che a Castellucci, a Wagner in una giostrina assolutoria che invece con Bizet non sarebbe minimamente passata.
"Sì, ha ragione" -dicevano- "il secondo atto non passava più, ma dopotutto cosa pretendi, è il Parsifal che è così!" :D
Se fossi un regista alle prime armi abbraccerei con gioia una scrittura per Parsifal, ma eviterei come la peste Carmen, Verdi e Mozart.

Sarei ben felice se mi facessi cambiare idea! :mrgreen: : Sailor :


Guarda, ti assicuro che far cambiare idea è proprio l'ultimo dei miei fini. Soprattutto perchè hai le idee chiare...

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