Oberto Conte di San Bonifacio alla Scala

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Oberto Conte di San Bonifacio alla Scala

Messaggioda vivelaboheme » ven 19 apr 2013, 12:41

Auguro al Teatro alla Scala, che amo - come istituzione, in quanto tale - da appassionato non appartenente a massonerie né "ditte" musicali o civili alcune, di non cadere, nel suo prossimo futuro, in mire molto coltivate in certi ambienti milanesi. La recente esperienza fiorentina dovrebbe essere un deterrente più che sufficiente, ma non si sa mai. Va attualmente molto di moda, in tali ambienti, rovesciar palate di letame sull'attuale sovrintendente, dimenticandone CULTURA ad ampio raggio e meriti e aperture d'orizzonti, per sottolinearne solo i limiti. Dubito che taluni successori, certamente più provincialmente "localizzati" in cultura e spirito, saprebbero mandare in scena, alla Scala, uno spettacolo di forza progettuale complessiva pari a quella di questo Oberto Conte di San Bonifacio. Musica - vale ricordarlo - di Giuseppe Verdi: prodotto qui e ora.
L'opera ha un primo atto che pare - come si è sempre detto, di Oberto - il laboratorio di tutto il futuro verdiano, con uno sguardo rivolto indietro (belcanto, ma non è già più quello) e uno avanti (tema del coro ripreso quasi alla lettera nella prima festa de La Traviata, e molto altro che dopo verrà: a iniziare da Macbeth, ma proseguendo molto oltre). Il secondo atto è pieno di meraviglie già a se stanti (almeno due: "Ciel pietoso ciel clemente" è forse la più bella aria di tenore verdiano precedente "Quando le sere", etutto l'anti-finale, coro più Leonora, è da brivido, per non parlare di tutta la meravigliosa parte di Oberto, nella quale già si configurano tutte le successive meraviglie verdiane per voce bassa maschile). Ma, soprattutto, l'opera Oberto già racconta tutta la particolare sensibilità di drammaturgo musicale e l'altra sensibilità di Verdi, quella di italiano che sa cos'è l'Italia - coacervo di passioni, umori, religiosità, meschinerie e grandezze, miseria e gloria. E' così anche oggi, in questi giorni, e alla Scala - che è luogo grandissimo quando sa, e l'ha sempre saputo fare, fra alti e bassi, cogliere in musica e teatro musicale, il momento e la vita del Paese Italia - tutto questo ha trovato riscontro nel compatto, unitario progetto scenico-musicale di cui si sono resi protagonisti Mario Martone in regia, Riccardo Frizza sul podio di un'orchestra finalmente tornata se stessa (cioé verdiana con luce e senza pesantezze: era ora!), e una magnifica (tutta! Ciascuno per quel che ha saputo offrire, ma, ciò che più conta, tutti coinvolti "unificati" nel progetto) compagnia di canto. Solisti... e coro: la straordinaria, subliminale umanità che si raduna nell'opulenta casa, e che alla fine esprimerà il dolore comune a tutti, ha un'evidenza scenica cui corrisponde quella ben nota, del coro di Casoni.
Oberto è Italia: sia Bassano oppure Sud, è - incredibile, Verdi, già fin d'allora - una terra nella quale l'amore - la capacità di esprimerlo, fino allo spasimo - si "sporca" d'una passionalità che trascina inevitabilmente al conflitto, personale, di parte, di cosca (partiti, massonerie...: è ancora la storia di oggi, in Italia, da Palermo a Roma a Milano... nei palazzi, nelle famiglie, nelle industrie, nelle mille associazioni italiane sempre una contro l'altra... e, sì, alla Scala!) . La villa opulenta - il rosso, l'oro , il nero, lo scalone, le colonne ioniche bordate d'oro, la statua opulenta d'oro, la cappella con l'immagine sacra, segno d'una fede autentica in parte, bigotta e segno "di potere" e di schiavitù allo stesso tempo si sposta e lascia spazio alla strada, che potrebbe essere splendida, con le piante, il verde - invece è degradata, brutta nell'asfalto, devastata nelle piante che crescono senza cura. E' l'Italia, che Martone ci ha già mostrato, con amore e dolore, al cinema e alla Scala (Cavalleria e i Pagliacci, memorabili e giustamente qui citati nel ritorno dell'automobile, qui la Fiat 124 nera e impolverata che è il luogo del delitto: e cos'è accaduto, in un'automobile, in Italia? Quanti e quali uccisi al gioco delle parti e delle passioni sono stati trovati in un'automobile?). Questo Oberto prosegue il cammino, culturale ed umano, del regista Martone, e dell'uomo Martone che osserva e studia e vive - e propone - la Storia e l'anima del proprio Paese.
E' Italia... ma è Verdi: raramente una messa in scena è stata così italiana e VERDIANA allo stesso tempo. Fin nella perfetta resa scenica della solidarietà femminile - tema portante dell'opera - fra Leonora e Cuniza. Il bacio al termine del duetto (favolose, lì, Agresta e Ganassi: il rispettivo timbro è, fra l'altro, perfettamente compatibile, e il duetto ne esce assolutamente "eufonico") non è un vezzo di regia, ma ferrea logica drammaturgica: non potrebbe che finir così. Ed è verdiano quanto lo sarà, anni dopo, l'amore (e che altro è?) fra Don Carlo e Rodrigo.
La storia di Oberto, quel libretto apparentemente assurdo ma quel dramma musicale già così verdiano nella sua implacabile efficacia ed esattezza, è già Italia alla ennesima potenza, così come la viviamo oggi. E quella Leonora in minigonna e stivaloni... è ancora sui giornali, tutti i giorni: vittima o magari assassina. Come lo è quella Cuniza sensuale, anche buzzurra, ma poi capace d'amare: quante donne, famose e di copertina oppure no, conosciamo anche oggi, sui media e nella vita? E quanti Riccardo dal buzzurrissimo abbigliamento da arricchito di dubbia provenienza? E quanti Oberto, dalla nobiltà di cuore ferita e uccisa dal gioco spaventoso delle parti e delle passioni? Guardate la foggia della Leonora di Martone e degli altri, poi domandatevi: cosa sono, secondo voi, Garlasco o Cogne, se non... vicende d'opera? Le vicende italiane che Verdi e l'opera ci hanno già raccontato? Che cos'hanno, di diverso, le miserie - e i grandi amori - dell'Italia di oggi, da quel che Verdi già raccontava, in musica e teatro?
Poche volte ci è accaduto di veder rappresentare Verdi - e l'Italia - con il carico d'amore e dolore, e di consapevolezza di un'identità nella quale bello e brutto, amore e delitto, si mischiano, e con la forza scenica di cui è stato capace Martone in questo allestimento. E poche volte, a nostro avviso, un allestimento è stato così - intimamente - verdiano nel midollo, nel "sentimento", nell'anima. Altro che i fischi di chi non vuole o non sa vedere. E' un'idea e una realizzazione memorabile di teatro verdiano e italiano. Colma di dolore, certamente (lo è l'opera e lo è l'allestimento), ma anche di vita.
E il progetto è complessivo, perché tutti vi hanno aderito. Riccardo Frizza - forte di una nota propensione a questo repertorio, che frequenta, ama e conosce - è quasi perfetto nei tempi (qualche frammento si sistemerà, crediamo, alle repliche): lo conoscevamo "frizzante", lo è ancora ma con gli anni ha acquisito tutti i respiri giusti, le inflessioni, le articolazioni - canto e orchestra - di questo linguaggio. E' professionale sempre, a tratti (second'atto: certe pause e scansioni teatralissime) è anche di più. Ha lasciato all'orchestra la fragranza verdiana eliminando scorie di pesantezza (un po'... teutonica, vogliamo dirlo, pur riconoscendo i meriti acquisiti in Wagner?) di tutta una vita recente, e ridandole luce (la splendida risposta di legni scaligeri, in particolare, ne è stato il segnale). E - che differenza, con il recente Macbeth - ha esaltato e aiutato, in esattezza, espressione ed anima, le voci. Bravissime, tutte e tutti, ciascuno portando del suo: Maria Agresta ha, letteralmente, la luce nella voce, e questo si sapeva. Ma - non l'ascoltavo dai Vespri di Torino - qui è stata non solo voce ma "anima" e personalità (memorabile, il finale) di Leonora. Ha uno strumento prezioso (da costruire con calma forse, nella "giovinezza" di certe note basse) e una personalità in crescita continua di consapevolezza. Le auguriamo, solo, di non dire troppi "sì" a tutti coloro che - ovviamente - oggi la cercano e la vogliono. Si è attribuito a tante - in anni recenti - il titolo e il ruolo di "nuova Freni": Maria Agresta è titolata alla "parte": ricordi che la Freni è diventata, anno dopo anno e nel tempo, se stessa, anche dicendo alcuni sanissimi "no" (o "sì", ma al momento giusto).
Michele Pertusi è il miracolo - perdurante da anni - di una nobiltà del porgere e di una morbidezza di canto che pare escludere lo sforzo. Il suo Oberto fiammeggia "dentro" restando come sorvegliato nell'espressione. C'è un paltò, il suo, anche in questo spettacolo, ma stavolta è perfettamente funzionale: e il momento - la dichiarazione di amore e guerra - in cui se lo leva e lo lancia, quasi diventando ardente e giovane, è memorabile. Dalla brace alla fiamma. Grande cantante e magnifico personaggio.
Sonia Ganassi ha "interpretato" Cuniza. La vocalità del personaggio, tendente più al basso che all'alto forse non risponde al 100% a quella della cantante, la impegna nei fiati e in qualche emissione. Ma la perizia dell'artista, l'aderenza totale al personaggio e alla regia, la "verità" di questa Cuniza vissuta nell'anima erano tali da rendere stucchevole e fuori luogo l'ormai scontata contestazione (peraltro sommersa dalle ovazioni) dei noti e noiosi soliti.
Fabio Sartori ha fatto annunciare indisposizione (tracheite), ma di fatto ha cantato molto bene (benissimo la splendida "Ciel Pietoso", giustamente salutata da un lungo applauso). Martone e la costumista (la gloriosa Ursula Patzak: splendido lavoro, il suo, come quello dello scenografo Sergio Tramonti) ne hanno sfruttato la fisicità: è lui l'abitante eccessivo di quella casa eccessivo, luogo di cosca, di passione, di delitto.
Spettacolo da vivere, da discutere, da ripensare e rivivere "dopo", nelle nostre strade, nei nostri ambienti poveri od opulenti, nella nostra vita e nelle nostre scelte di uomini e di italiani. Aggiungo che da qui - come da Pagliacci e da Cavalleria, e anni prima dal meraviglioso Così Fan Tutte - esco da teatro con il pensiero, fra i tanti, che Mario Martone sia un italiano di cui andar fieri. Pensiero vero e assolutamente non retorico.Verdi e il regista (che ha risposto con il garbo sorridente che lo connota a chi ha apprezzato e a chi no) ci raccontano molto, di noi stessi. E io all'uno e all'altro, dico grazie. E' per questo che vado all'opera.


marco vizzardelli
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