Alceste (Gluck)

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Alceste (Gluck)

Messaggioda MatMarazzi » lun 12 lug 2010, 23:38

Aix en Provence - 2010

Sempre di ritorno da Aix, vi relaziono velocemente anche di Alceste.
Premetto che questa volta Christoph Loy (di cui abbiamo recentemente parlato) ha toppato in modo clamoroso.
La sua regia è stata un bemolle di estrema gravità, anche perché ha affossato uno spettacolo musicalmente splendido, che vantava per giunta la presenza di alcune fra le maggiori personalità interpretative di oggi.

Eppure nel primo atto l'idea di fare di Alceste e Admeto due semplici genitori da anni '40 aveva creato l'illusione di una bella idea.
Il popolo di tessaglia che piange per l'agonia del re (compresi Evandro, la corifea, l'Araldo, l'Oracolo, oltre ovviamente a tutto il coro) non era altro che un vasto e composito gruppo di bambini, un piccolo popolo fatto di esseri indifesi con calzoncini alla zuava, scarpine laccate, treccine e orsacchiotti, che osserva con espressione terrorizzata e inconsapevole il grande mistero della malattia, della sofferenza e della morte.

Ributtante "deja vu" alla tedesca? Sì, all'inizio veniva da crederlo.
Poi durante il primo atto mi sono dovuto ricredere. La cosa aveva senso.
I coristi, intanto, erano straordinariamente bravi a fare i bambini, senza affettazione; i loro gesti (imbronciati, spaventati, allegri e tristi) erano talmente naturali che dopo un po' non prestavi più attenzione ai loro capelli grigi e gambe pelose sotto i pantaloncini corti.
Anche i versi del Roullet (con tutta quell'ossessione disperata del popolo che assiste alla malattia del re) assumono più significato, in bocca a bambini che non capiscono le cose da grandi e le vivono con uno sbilanciamento di prospettive che appartiene solo a loro.
Nella grande anticamera bianca dove aspettano, dietro la spaventosa porta chiusa che li separa dalla camera dell'orrore dove il loro papà sta morendo (camera in cui non hanno il permesso di entrare, ma che ogni tanto si schiude per far entrare o uscire il medico o il sacerdoto) loro, i bambini, possono solo percepire istintivamente la disperazione e la paura, ne sentono l'odore come animali, senza comprenderla davvero...

L'idea registica poi dà modo all'immensa Veronique Gens (al suo debutto in Alceste, secondo me il ruolo della sua vita) una delle più sconvolgenti entrate in scena che io abbia visto in trent'anni di opere.
Mentre ancora il coro di bambini intona il suo canto di disperazione, la porta si apre e si affaccia lei, Alceste, la madre, con un'espressione che ti schianta sulla sedia.
In quell'espressione dura e pallidissima, tesa allo spasimo nello sforzo di rimanere composta in presenza dei figli, nell'imperativo di non perdere il controllo, di mantenersi salda nonostante tutto l'orrore, la stanchezza, la disperazione di chi assiste impotente all'agonia di una persona amata.
Il modo in cui la Gens volge sui suoi bambini quegli occhi, luccicanti per la fatica di interminabili veglie, è qualcosa di incredibile, come se sapesse che - dopo l'orrore che ha dietro alle spalle - ora la aspetta l'orrore di informare i suoi figli.

Tutto il primo atto è talmente esaltato dal carisma smisurato e sconvolgente della Gens che si dimentica tutto il resto... Si finisce per credere che lo spettacolo funzioni; anche quando le prime scemenze cominciano a venire a galla (il povero Schroder, il sacerdote, che è costretto a cantare la sua aria sbattendo a terra i bamini, picchiandoli selvaggiamente, in preda a tic selvaggi... uhh... come sono cattivi questi preti). Ma si sopporta tutto pur di vedere e sentire lei, la più grande, la più emozionante, la più lacerante e regale delle Alceste, anche se è senza corona, senza trucco, con i capelli raccolti con modestia e vestita come una semplice mamma degli anni '40.

Poi a partire dal secondo atto però devi convenire che proprio la regia non regge. Loy, da bravo tedesco, non è capace di portare avanti le sue farneticazioni e si smarrisce in un bicchier d'acqua di luoghi comuni e assurdità. Il tutto condito da una noia che rende davvero drammatica la prospettiva di altre due ore così...
In questa ricontestualizzazione che senso ha il sacrificio di Alceste?
Come si fa negli anni '40 a ...morire al posto del marito malato?
Loy non sa come togliersi di impiccio, infatti fa tornare Admeto dalla porta, bello, vigoroso e vestito di tutto punto (i bambini gli corrono incontro e lo abbracciano) come se fosse tornato a casa dopo una lunga assenza.
Ma allora perché al primo atto c'erano i medici e i sacerdoti al suo capezzale?
Alceste continua, come da copione, a lamentarsi e a gemere mentre tutti festeggiano... ma si continua a non capire perché lo faccia...
L'Alceste originale sapeva di aver offerto la vita alle Divinità dello Stige.
ma questa signora anni '40 che sacrificio ha fatto?
Quando rivela di aver scelto la morte al posto di Admeto, cosa assolutamente ingiustificata dalla storia e dal contesto, marito e moglie cominciano a recitare e ad agitarsi con generica disperazione, come se fossimo nella più tradizionale delle Alceste. e si ha la sensazione che Loy - non sapendo più dove mettere le mani - sia corso a nascondersi in camerino, lasciando i poveri interpreti a sbrigarsela da soli.
Quando poi al terzo atto lei canta la scena degli Inferi nella camera da letto, dove sta dormendo a letto con Admeto ti cascano davvero le braccia (per inciso, che tristezza vedere questi due bellissimi e carismatici cantanti-attori, così intensi e aristocratici, costretti a saltellare per la camera da letto in un'orribile camicia da notte e calzettoni di lana...).
Ora io capisco che per un regista tanto intelligente, ben pensante e "impegnato"... la vita familiare anni '40 e i relativi valori rappresentino una cosa infernale!
E capisco che per lui essere "moglie" e "madre" in quell'epoca voglia dire trovare i propri demoni non sullo Stige, ma fra le lenzuola che condivide con l'American Dad che è suo marito (per inciso, a un certo punto Admeto sta per mollarle un cazzottone in faccia, come - è noto - tutti i mariti facevano negli anni '40 con tutte le mogli)... ma - coglionate vetero-sessantottine a parte - che senso ha tutto questo in relazione alla storia che ci viene raccontata?
nessuno....
Proprio come non ha nessun senso che Hercules sia uno zio che ritorna da lontano (trovata carina, ma come spiega la "liberazione" di Alceste dalla morte?) o che i bambini, non trovando altra soluzione, debbano fungere anche da spiriti infernali (ovviamente corredati di corazze giocattolo, elmi da carnevale e pupi siciliani), o ancora che alla fine tutti entrino in uno spazio nero, disperdendosi e guardandosi intorno circospetti.
Il bello è che qualcuno, in questi casi, si chiede "cosa avrà voluto dire il regista?"
In realtà ha sparso fumo di simbolismi incoerenti solo perché non sapeva più come cavarsela...

Peccato: la noia mortale, l'intrinseca bruttezza e soprattutto l'incapacità di tenere in pugno una pur generica logica narrativa hanno affossato questa Alceste, che pure in Bolton aveva trovato un direttore considerevole, in equilibrio fra levità barocca e seriosità francese, e che sulla carta disponeva di uno dei migliori cast che si possano immaginare.
Sulla Gens ho già detto: aggiungo che la sua vocalità densa, mezzosopranile, ma delicata, sfumata, leggerissima la rendeva rivoluzionaria anche vocalmente (un Divinités du Styx sussurrato, ringhiato sulla parola o sfumato sull'amarezza e non gridato come al solito); la grande esperienza barocca infine le consentiva di svolgere i grandi recitativi gluckiani senza alcun piedistallo o maestosità, ma con l'asciuttezza moderna, lucida, folgorante di una Isabelle Huppert.

Di fronte a una simile donna, scompariva un po' Joseph Keiser, ma anche lui è stato strepitoso come Admeto.
E' tempo che lo dico: in questo tenore abbiamo uno dei più raffinati, sfumati, incisivi declamatori del nostro tempo; fra l'altro dotato di timbro bellissimo, emissione elastica, facilità di acuti e profondità di fraseggio. In più è attore incisivo.
Trovo assurdo sfruttarlo in ruoli "lirici" (i soliti Romeo, i soliti Lensky) quando la sua è una vocazione declamatoria, si vede lontano un miglio. D'altronde sarebbe assurdo anche impegnarlo ora (con una voce ancora così malleabile ed estesa) nei ruoli pesanti del declamato wagneriano.
Admeto è dunque perfetto. E' la via di mezzo di cui, al momento, ha bisogno.

Prossimamente le mie opinioni sul Rossignol sempre a Aix... Quello sì un capolavoro di regia musicale.
salutoni,
Mat
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