Mimesi e Artificio

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Messaggioda MatMarazzi » gio 12 lug 2007, 12:19

In altro thread si parlava di verità e finzione nell'interpretazione operistica.
Trovo talmente interessante la questione e stimolanti le osservazioni di Fabrizio che vorrei aprire un nuovo Thread.

fadecas ha scritto:In premessa, non sono tanto convinto che la “verità” di un’interpretazione musicale si possa facilmente separare dalla “finzione”, non nel senso di “falsità” bensì in quello di costruzione, frutto di studio e di ricerca, più o meno consapevolmente condotta, atta a raggiungere un determinato effetto.


Questo, Fabrizio, è uno dei fulcri del mio pensiero.
E' normale che non lo si debba condividere (qualunque attore stanislavskiano o uscito dall'"Actors Studio" mi prenderebbe a male parole).
Su una cosa sono d'accordo con te: non si può tracciare una linea netta e definitiva fra finzione e verità; ogni forma d'arte è finzione; ogni forma d'arte è imitazione della verità.
Le componenti sono sempre presenti.
Quando io parlo di verità mi riferisco al bagaglio di conoscenze, esperienze, ricordi, pratiche extra-artistiche (e riferite alla vita di tutti i giorni) a cui l'interprete può attingere nel momento in cui interpreta.
E' maggiore il tasso di "verità" (in questo senso, si intende) di uno scrittore che parla del proprio paese, del proprio tempo, della propria generazione rispetto a uno che ambienta i suoi romanzi in contesti o in epoche che non conosce.
Faccio un esempio: immaginati una cantante che da adolescente era grassa e brufolosa! :) Aveva paura del contatto con i ragazzi, era schiva e impacciata, ecc.. ecc...
Poi studia canto e diventa un ottimo contralto: come potrà essere "vera" in ruoli come Dalila e Carmen? Non avrà un bagaglio personale (di sensualità) a cui attingere. Non avrà ricordi di seduzioni adolescenziali, non avrà nel taschino lo ...sguardo giusto elaborato in anni e anni di conquiste, l'inavvertibile movimento per mettere in valore certe parti del corpo, ecc...
Poi magari sarà bravissima vocalmente, ma il suo personaggio mancherà di quella verità che non dà lo studio (non lo può dare) ma solo l'esperienza diretta di vita.

Alla faccia di Stanislavski, io non credo affatto che l'attore si annulli davanti al suo personaggio.
Anzi, lo rende vivo SOLO se riesce a buttargli dentro tutto sè stesso, quel mondo di tecniche mimiche ed espressive e di emozioni irripetibili che riguardano solo lui.
Perché amiamo tanto sentire i nostri interpreti preferiti a contatto con certi ruoli? Proprio perché desideriamo sapere che verità hanno trovato LORO (con il loro personale mondo di valori ed emozioni) nelle parole e situazioni descritte per un personaggio.

Comunque, spesso troviamo prestazioni maiuscoli di cantanti in personaggi apparentemente da loro lontanissimi (quanto c’era della Callas come persona, ad es., in ruoli di vittima o borghesi? Ben poco, suppongo, eppure la sua Amelia o le sue interpretazioni pucciniane siglano delle grandi letture, anche se non esclusive …)


C'era tantissimo invece.
E l'abbiamo appurato dopo, quando è andata snebbiandosi l'aura mitica da super-diva di cui negli anni '50 si era avvolto il mito della Callas.
Quando sono emerse la paura della solitudine, la tragedia dell'impotenza, la fragilità indifesa di questa donna, molto della sua Boheme e della sua Amelia è venuto fuori.

E non ci sarebbe stato alcun bisogno di rimestare squallidamente (come è stato fatto) nella biografia della Callas per comprendere questi aspetti del suo carattere.
Bastava sentire la sua Butterfly: l'artista, interpretando, si mette a nudo, si rivela. Lo fa anche un pianista, uno scultore, un regista...
E se tu senti la Callas in Lady Macbeth la trovi molto meno vera (si escluda il sonnambulismo inciso nel 58) di quanto non fosse nel secondo atto della Buttefly.
E' possibile anche che questo non accada: che l'artista, invece di usare le convenzioni dell'arte per esprimersi, si nasconda dietro di loro, si protegga grazie a loro.
in certi ruoli può anche funzionare... in altri no.
Funziona invariabilmente (secondo me) quando si mette l'artista in condizione di interpretare personaggi in linea col suo carattere e il suo mondo di valori.
Con tutti i suoi manierismi e perbenismi, la Olivero era grandiosa e sconvolgente, ossia disperatamente vera, quando cercava di contenere, occhio azzurro dardeggiante, le bestemmie rabbiose della Pederzini, nei Dialoghi delle Carmelitane. Lì il bigottismo sabaudo esplodeva in una verità che lo studio, caro Fabrizio, non può dare, almeno secondo me.
O per lo meno: c'è lo studio di una vita, lo studio del vivere quotidianamente, dell'essere sempre più sè stessi.

E' possibile che la Gencer degli anni 50 (quando Violetta era un suo cavallo di battaglia) fosse vera e autentica.
Chissà... il suo "Addio del passato" del 1956 francamente non mi convince, ma sarei curioso di sentire (se mai esistesse) un'edizione integrale.
Allora la Gencer era giovane e il suo canto si nutriva di risvolti virginali; in lei si sente la freschezza e il disagio della "straniera", turca e mussulmana in un'Italia che - all'epoca - non l'aveva totalmente capita.
Nel 1964 era cambiato il mondo: quando cantò questa sua ultima Traviata a Rio proveniva dai trionfi della Norma di Buenos Aires e il mondo l'aveva già incoronata regina donizettiana del dopo-Callas (Devereux a Napoli, Beatrice di Tenda a Venezia, Macbeth a Milano).
Conosco anche io la registrazione di Rio.
Ammiro la scuola e la maestria, la raffinata retorica emotiva, lo slancio, il sussurro di "Alfredo, Alfredo". La ammiro ma non le credo.
In quegli anni la Gencer aveva trovato la sua verità altrove. Lei stessa lo ammise "quella non è la mia Traviata".

Salutoni,
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Messaggioda Luca » ven 13 lug 2007, 21:33

1) Faccio un esempio: immaginati una cantante che da adolescente era grassa e brufolosa! Aveva paura del contatto con i ragazzi, era schiva e impacciata, ecc.. ecc...
Poi studia canto e diventa un ottimo contralto: come potrà essere "vera" in ruoli come Dalila e Carmen? Non avrà un bagaglio personale (di sensualità) a cui attingere. Non avrà ricordi di seduzioni adolescenziali, non avrà nel taschino lo ...sguardo giusto elaborato in anni e anni di conquiste, l'inavvertibile movimento per mettere in valore certe parti del corpo, ecc...
Poi magari sarà bravissima vocalmente, ma il suo personaggio mancherà di quella verità che non dà lo studio (non lo può dare) ma solo l'esperienza diretta di vita.

2) Alla faccia di Stanislavski, io non credo affatto che l'attore si annulli davanti al suo personaggio.
Anzi, lo rende vivo SOLO se riesce a buttargli dentro tutto sè stesso, quel mondo di tecniche mimiche ed espressive e di emozioni irripetibili che riguardano solo lui.

3) La Callas etc...
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Caro Matteo,

entro un pò nel tuo discorso di cui ho evidenziato tre punti che mi paiono importanti:

1) Abbiamo circa la cantante che studia un ruolo a tavolino un esempio calzante (ne indico sono uno, ma ce ne possono essere altri): la Stignani in Carmen. Faccio un parallelo azzardoso: la Stignani è un pò il corrispettivo mezzoopranile della Flagstadt, cantante che io definisco 'brocca antica', pontificanti, corrette, mai sguaiate alla maniera verista (questo è positivo, però...), ma che dall'alto del loro soglio impartiscono note professorali. Se tu hai in mente la registrazione (1948) della Carmen con Gigli e Bechi ti accorgi e tocchi con mano quello che tu hai detto. Allora, mi tengo e preferisco la Besanzoni dell'incisione 1931.

2) Se l'interprete si affidasse solo alla psicologia, alla vocalità e alla gestualità del personaggio, sarebbe una pallida copia. Credo che invece si parla di interpretazione se c'è personalità perché essa è un "work in progress", ossia cresce e matura col tempo e con le situazioni che fuori del palcoscenico vive. Ed è chiaro che gestualità, vocalità, ecc. si accompagnano a questa grande categoria che è la personalità.

3) La Callas: tutto quello che hai scritto, mi va bene però - e ne abbiamo parlato più volte - va citata la sua magistrale prova de La Gioconda II. Anche qui un unico esempio: il finale del I atto e in particolare il suo "Tradita ahimé, Dio soccombo": a mio avviso è la più espressiva ed eloquente frase mai incisa in disco ! Espressiva perché vera di una donna che sentimentalmente aveva non pochi problemi (voluti o meno non ci interessa). Bene: tutto lo smarrimento e la situazione della cantante si sposa alla perfezione con il personaggio cantante che è Gioconda. Non c'è annullamento quindi ma simbiosi. Lì veramente la Callas è il simbolo (nel senso di ciò che fa unità) che - come ricorda P. Ricoeur - dà a pensare e proprio per questo affascina perché apre davanti all'ascoltatore un universo davvero sconfinato.
In fondo anche la Olivero (luci e ombre le conosciamo) ha percorso una strada analoga, ma i manierismi e la studiata ricerca dell'effetto a volte sono un pò ingombranti.
A mio avviso, l'unica che è riuscita a entrare nel solco Callas andando anche oltre è R. Scotto.

Osservazione conclusiva: cantanti invece che si sono fermati all'esteriorità alla falsità di interpretazione li trovo più nelle file degli uomini che delle donne. I nomi li conosciamo....

Un salutone. Luca.
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Re: Mimesi e Artificio

Messaggioda MatMarazzi » dom 15 lug 2007, 13:35

Luca ha scritto:la Stignani è un pò il corrispettivo mezzoopranile della Flagstadt, cantante che io definisco 'brocca antica', pontificanti, corrette, mai sguaiate alla maniera verista (questo è positivo, però...), ma che dall'alto del loro soglio impartiscono note professorali


Parole sante, Luca! Siamo esattamente sulla stessa lunghezza d'onda.
Il bello è che anche la Stignani e la Flagstad avevano le loro belle verità da dire: anche loro hanno vissuto, avevano un loro bagaglio di emozioni e di valori.
Purtroppo però questo non è mai interessato a nessuno: sei un mezzo? hai la voce tonda e rigogliosa? SARAI CARMEN!
Sei un sopranone "drammatico"? Hai il volume impressionante e gli acuti floridi? SARAI BRUENNHILDE.

Se però ascolti la Flagstad (sia pure vecchia e usarata) nella Didone ed Enea di Purcell ti sorprenderà: avrà pure, per carità, uno stile e una tecnica assolutamente impropri, ma nella maestosità ferita, nella solennità dolcemente matriarcale, senti vibrare corde autentiche.
Ci sono momenti nella sua Alceste che sono veramente toccanti.

Ho un disco della Flagstad dove canta certe sconosciute melodie scandinave, brani semplici e di sapore folcloristico, dove non ci sono eruzioni epiche come in Wagner, e l'emozione si circoscrive alla contemplazione antica di fiordi ventosi.
Be', in quei brani senti palpitare una verità che tutte le celebratissime Isolde e le Bruennhildi della Flagstad non hanno mai avuto.


Se l'interprete si affidasse solo alla psicologia, alla vocalità e alla gestualità del personaggio, sarebbe una pallida copia. Credo che invece si parla di interpretazione se c'è personalità perché essa è un "work in progress", ossia cresce e matura col tempo e con le situazioni che fuori del palcoscenico vive. Ed è chiaro che gestualità, vocalità, ecc. si accompagnano a questa grande categoria che è la personalità.


...che è esattamente, sia pure espresso meglio, quel che cercavo di dire io. Grazie Luca!

La Callas...Bene: tutto lo smarrimento e la situazione della cantante si sposa alla perfezione con il personaggio cantante che è Gioconda. Non c'è annullamento quindi ma simbiosi.


Ottimo esempio.
Secondo me, comunque, inteprete e personaggio debbono sempre fondersi. E' per questo che due interpreti possono dirci cose completamente diverse in uno stesso ruolo. Perché le miscele che si possono creare fra uno stesso personaggio e diversi interpreti sono virtualmente infinite.

Salutoni,
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Messaggioda Luca » dom 15 lug 2007, 22:28

Se però ascolti la Flagstad (sia pure vecchia e usarata) nella Didone ed Enea di Purcell ti sorprenderà: avrà pure, per carità, uno stile e una tecnica assolutamente impropri, ma nella maestosità ferita, nella solennità dolcemente matriarcale, senti vibrare corde autentiche.
Ci sono momenti nella sua Alceste che sono veramente toccanti.
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Carissimo Matteo,

torno volentieri su questa cantante norvegese: molta voce, magniloquente e pontificante quanto si vuole e che come Elsa le si credeva poco. Però poco ha frequentato il repertorio italiano, vero peccato. Secondo me sarebbe stata una interessante Norma e una singolare Turandot, anticipando in modo molto parziale alcune aperture in fatto di solennità e metafisicità che abbiamo poi ascoltato da gente come B. Nilsson, J. Sutherland e, in parte, anche dalla Gencer.
Che ne pensi ?

Quanto poi alla Stignani anche lei voce imponente che poteva fare molto bene come Leonora della Favorita e come Gran Vestale della Vestale spontiniana, ma Carmen e Preziosilla erano un altro mondo.

Salutoni ancora !!!!
Luca.
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Messaggioda fadecas » dom 15 lug 2007, 22:56

… Eppure, mi pare che l’intervento di Luca, sul quale credo si possa ben più ampiamente convenire, abbia spostato le tesi di Matteo su un piano abbastanza diverso da quello originario.
Ossia, sul fatto di individuare nella "personalità", intesa come una simbiosi di caratteristiche vocali, stilistiche, espressive, emozionali ecc., in un flusso dinamico e non ipostatizzate una volta per sempre nella storia di un cantante, il suggello del “valore” di un’interpretazione autentica.
Questo lo trovo accettabilissimo. Quello che mi convince meno nell’intervento precedente, che in parte riprende alcune argomentazioni esposte nel thread su Fanciulla del West, è la pretesa, che secondo me si presta facilmente a percorsi azzardati e fuorvianti, di dedurre dalle caratteristiche biografiche private di un artista il paradigma in base a cui valutare a priori la sua idoneità a rendere più o meno bene le peculiarità dei ruoli operistici interpretati.
E’ la sovrapposizione fra questi due piani che mi lascia perplesso nel discorso di Matteo, laddove i limiti che bene individuano sia Matteo che Luca nella Carmen della Stignani o nelle eroine wagneriane della Flagstadt possono trovare utilmente una caratterizzazione in termini di rigidità, monoliticità , insufficiente approfondimento dei versanti espressivi dei ruoli, o semplicemente incongruenza rispetto ai ruoli stessi, senza scomodare l’entroterra privato delle rispettive.
Perché, se si insiste sulla strada del parallelismo obbligato fra “vita” e “arte”, vengono fuori equazioni a mio avviso forzate. Ad es., bisogna veramente decapitare metà delle realizzazioni della Scotto – rispetto alla quale, curiosamente, Luca non sembra concordare affatto con Matteo sul fatto di considerarla, alla pari della Gencer, una sorta di virtuosa della “falsità”, negata ai ruoli in cui l’artificio non serve … dato che la pone sulla strada di un approfondimento della linea di “verità” tracciata dalla Callas.

Al di là di queste incongruenze, che poi possono chiamare in campo più semplicemente diversità di parametri interpretativi tra fruitori, e visto che in questo contesto ci atteniamo ad un discorso generale di metodo, io metterei in guardia da un altro rischio cui mi sembra noi melomani indulgiamo talvolta troppo spesso, e che la tesi di Matteo, a mio parere, magari indirettamente tende ad avvalorare.
Una volta che ci siamo creati un’immagine “tipica” di una personalità interpretativa con cui abbiamo una certa dimestichezza, tendiamo a circoscrivere a priori la sua plausbilità – Matteo direbbe la sua “verità” – a una certa tipologia di ruoli, quella in cui secondo noi eccellono, negandola del tutto ad altri, e cercando dei puntelli caratteriali e biografici che avvalorino questa nostra ipotesi.
Questo irrigidimento, probabilmente, lo facciamo un po’ tutti, e obbedisce ad una comprensibile esigenza di sitematizzazione del vissuto e delle relative scalde di valori, necessarie per dare ad un senso all’esperienza, altrimenti sempre più frantumata nella sua molteplicità, di ascoltatori portati a costruirsi proiezioni mentali e dei fantasmi operistici con cui entrano in contatto e della identità biografiche degli artisti che presumiamo di trovare in qualche modo rispecchiate nelle emozioni che quelle interpretazioni ci mettono in moto.
Però, talvolta, bisognerebbe saper andare oltre e ascoltare con orecchie “ingenue” certe interpretazioni, che i documenti sonori o audiovisivi, o l’esperienza diretta di ascoltatori/spettatori – che nell’insieme costituiscono il riferimento primario di quello di cui stiamo parlando - ci restituiscono a volte come sorprese inaspettate, e che sparigliano le carte mettendo in discussione i codici.
Talvolta bisognerebbe fermarsi a considerare il grado di intensità – se preferite di “verità” – che certi interpreti incorniciano in situazioni privilegiate, dimenticandosi di avere ascoltati infinite altre volte quegli stessi interpeti cento volte più bravi o meno bravi in mille altre parti magari diverse e apparentemente incompatibili con quella, e sforzandosi di pensare cosa significhi nell’hic et nunc quell’interpretazione rispetto alla storia di quel ruolo come se della voce di quel cantante non sapessimo assolutamente niente altro, non l’avessimo mai ascoltata e non dovessimo riascoltarla mai più.
La sorpresa, ad es., che io personalmente ho ritrovato ascoltandola Traviata della Gencer degli anni ’60, nonostante tutti i pregiudizi di eccessiva artefazione di una cantante ormai approdata a primadonna ecc. , esposti magistralmente da Matteo, è scaturita, nel caso specifico, proprio dall’astrarre da tutto quello che già avevo sedimentato sulla Gencer come donna e come cantante fingendo il “come se”…
… Anche qui, ovviamente e fortunatamente, non tutti abbiamo la stessa sensibilità e le stesse antenne di ascoltatori, per cui la rimessa in discussione, depistante ed arricchente, può avvenire nei momenti più inconsueti e disparati; in ciò è il bello della storia dell’interpretazione operistica, che altrimenti si sarebbe già ampiamente canonizzata una volta per tutte.

Saluti a tutti, Fabrizio
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Messaggioda MatMarazzi » gio 19 lug 2007, 14:20

fadecas ha scritto:… Eppure, mi pare che l’intervento di Luca, sul quale credo si possa ben più ampiamente convenire, abbia spostato le tesi di Matteo su un piano abbastanza diverso da quello originario.


A me pare che le tesi espresse da me e da Luca non divergano poi così tanto. Luca (mi corregga se sbaglio) ha suffragato la mia affermazione che l'evidenza di un'interpretazione dipende dal grado di adesione umana che un certo interprete riesce a produrre a contatto con un certo ruolo, dando fondo (se ne è capace) alla sua personale e irripetibile verità interiore.

Secondo noi il grande interprete non "mente": anzi è grande proprio quando riesce a dirci qualcosa di sè stesso attraverso le parole di un personaggio sia pure sfruttando (ovviamente) gli stilemi di un'arte.
La tesi a cui ci siamo opposti è quella per cui (con lo studio, l'impegno e l'arte) l'interprete possa creare convincenti interpretazioni anche di personaggi totalmente distanti dal suo universo "astraendo da sè, distanziandosi ed oggettivando" (citazione testuale di Fabrizio).

Ma poiché ciò che conta non è tanto stabilire chi è d'accordo con chi, mi fa piacere che ora anche Fabrizio, piuttosto che di "iati", parli di "simbiosi", avvicinandosi in modo sostanziale al nostro pensiero, anche se questo significa far dire a me concetti che francamente non mi sarei mai sognato di affermare :), come quello per cui sia possibile desumere dalle caratteristiche caratteriali e dalla biografia di un cantante la sua idoneità a un ruolo.

a questo proposito, mi scuso se non mi sono espresso bene.
Cercherò di farlo meglio.
E’ vero che ho citato esempi “biografici” (e solo nel caso di artisti ultra-famosi e che quindi conosciamo un po' anche come persone) ma non come elementi da cui partire per definire l’idoneità a un ruolo, bensì solo come riprova (a posteriori) di tale idoneità.

La Scotto non è artefatta in Mimì perché si faceva chiamare "contessa".
La Scotto si faceva chiamare "contessa" per la stessa ragione per cui è artefatta in Mimì: ossia ama "posare".
E il fatto che ami "posare" lo si può intuire dal suo modo di fraseggiare, di elaborare, di sofisticare il canto.
Lo potrebbe capire benissimo anche uno che della Scotto non conosca neppure il nome: basta ascoltarla.

Non so nulla della biografia di Alfredo Kraus, ma so per certo che non era quel che si chiama una persona "sensuale".
E – se mai lo era – non amava esprimerlo.
Non era un ribelle o un contestatore; insomma, niente lo avvicina a Rodolfo della Boheme.
E il sentimento di gelo che la sua incisione di Bohème comunica non è casuale. Ben diverso l'effetto del suo Arturo dei Puritani.

Non ho dubbi, al contrario, sulla sensualità della "donna" Ljuba Welitsch.
Ovviamente non ho mai potuto condividere momenti di intimità con lei... :lol: ma non ne ho bisogno per sapere che, in certe circostanza, doveva essere un demonio.
Quando ho scoperto (molto successivamente) che i suoi costumi di vita erano effettivamente scandalosi, non mi sono stupito: in fondo già lo sapevo, bastava sentirla nel finale di Salome.

Non so nulla della biografia di Felicity Lott, ma che sia più vera nell’ironia caustica che nell’abbandono sentimentale lo potrei dichiarare a voce alta: e sono convinto che lei mi darebbe ragione.
Andare a cena con lei e ridacchiare sulle ironie del mondo deve essere un'esperienza fantastica: non meno che vederla ondeggiare sul palcoscenico dello Chatelet, mezza ubriaca ma sempre sontuosamente british, nella Grande Duchesse di Gerolstein.

fadecas ha scritto:… Ad es., bisogna veramente decapitare metà delle realizzazioni della Scotto – rispetto alla quale, curiosamente, Luca non sembra concordare affatto con Matteo sul fatto di considerarla, alla pari della Gencer, una sorta di virtuosa della “falsità”, negata ai ruoli in cui l’artificio non serve … dato che la pone sulla strada di un approfondimento della linea di “verità” tracciata dalla Callas.


E' vero: Luca è disposto a perdonare molte cose alla Scotto, perchè ama più di me la sua capacità straordinaria di uscire dai sentieri battuti e di moltiplicare all'infinito le caleidoscopiche rifrazioni della sua dialettica.

Sull'efficacia della “retorica” della Scotto, in sè e per sè, siamo d'accordo.
Non sul fatto che essa persegua la "verità" umana di un ruolo.
Ribadisco che la mia non è una critica in senso lato.
Ho detto in altre occasioni che non ritengo obbligatoria la ricerca della verità a tutti i costi. Anche il manierimso è arte.
Anzi... in certi casi è verità.

Né Ariosto, né Raffaello inseguivano la verità in senso "naturalistico".
La loro grandezza consiste proprio nella "sofisticazione" della realtà.
Certo, non so come sarebbero stati se (per assurdo) si fossero messi a scrivere o dipingere scene veristiche di sartine e soffitte.

Fatti gli opportuni distinguo, avrei preferito che nelle scelte di repertorio la Scotto fossa stata più raffaellesca e ariosteca... e meno pucciniana!
:)

E veniamo ora al “rischio” che, secondo Fabrizio, io avvalorerei.

fadecas ha scritto:… Una volta che ci siamo creati un’immagine “tipica” di una personalità interpretativa con cui abbiamo una certa dimestichezza, tendiamo a circoscrivere a priori la sua plausbilità – Matteo direbbe la sua “verità” – a una certa tipologia di ruoli, quella in cui secondo noi eccellono, negandola del tutto ad altri, e cercando dei puntelli caratteriali e biografici che avvalorino questa nostra ipotesi.


Trovo che Fabrizio dica sempre cose molto sensate e interessanti.
Solo che mi pare non corrispondano che poco a quel che ho detto o intendevo dire.
Probabilmente non mi esprimo chiaramente e mi scuso di questo.

Se c'è un rischio che proprio non credo di correre è quello di inscatolare gli artisti in pregiudizi di sorta.
Anzi, credo proprio il contrario.
Suscito spesso irritazioni e perplessità proprio perché, facendo leva sulla verità umana e psicologica delle interpretazioni, offendo il comune sentire, i confortevoli luoghi comuni (in genere fondati su pregiudizi vocalistici e tecnici) per cui la Olivero è brava pucciniana, la Kabaywanska è brava pucciniana, la Scotto è brava pucciniana... ecc...

Se c’è uno che vorrebbe spingere i cantanti a “osare”, a buttarsi in nuovi personaggi e nuovi repertori, a cercare sempre più in sé stessi per trovare risposte diverse a diversi personaggi, quello sono io.
Io che avrei voluto persuadere la Olivero a cantare l'Affare Makropoulos e le Baccanti di Ghedini, invece che perdere tempo in tutte quelle inutili Manon...
Io che ho scatenato le ire di altri forum quando affermai (più di dieci anni fa) che la Gruberova era molto più vera nel Roberto Devereux che nei Puritani e che la Normann era un'Aida tanto più autentica della Caballé e persino della Tebaldi messe insieme.

Oltretutto, lo assicuro, il mio giudizio cade generalmente a posteriori.
A priori si possono avere dubbi, perplessità, ma è sul risultato finale che mi esprimo (senza per questo fingere orecchie virginali che – per fortuna – non abbiamo).
Anche perché un risultato come quello che io cerco non è mai veramente prevedibile, nemmeno se potenzialmente un interprete è nato per cantare un certo ruolo.

“Come” investire il proprio vissuto in un determinato ruolo non spetta a noi, ma all’interprete stesso. Nel momento in cui affronta un nuovo personaggio sta a lui dimostrarci che è capace di trovare il "filo rosso" fra sè e quel freddo complesso di note e parole che è su uno spartito.

Solo dopo che lo avremo ascoltato potremo dire se l'interprete "c'è riuscito".
E se c'è riuscito noi potremo capire qualche cosa in più di lui, come persona, senza bisogno di alcuna biografia.

Se la Gencer del 59/60 riesce a convincerci ugualmente (a soli sei mesi di distanza) di essere vera nella virtuosa Lida della Battaglia di Legnano e nella sanguinaria Lady Macbeth (non a caso con lo stesso direttore: Vittorio Gui) questo significa che lei (e non “noi”) è riuscita a trovare il modo di travasare sé stessa in entrambi i personaggi, per diversi o opposti che siano.
E’ sempre Leyla Gencer (quella del 59/60) che invera questi ruoli ed è sempre lei che ne esce, lei come persona.
Sono sempre le sue emozioni, le sue convinzioni, le sue personali verità a riflettersi in due personaggi così distanti.
Ed è proprio questa che io chiamo grande interpretazione.
Per fortuna la Gencer capiva sè stessa più della Scotto: non a caso mollò prestissimo Puccini e le sue naturalistiche eroine.


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Messaggioda Luca » lun 23 lug 2007, 12:18

1. La Scotto non è artefatta in Mimì perché si faceva chiamare "contessa".
La Scotto si faceva chiamare "contessa" per la stessa ragione per cui è artefatta in Mimì: ossia ama "posare".

2. E' vero: Luca è disposto a perdonare molte cose alla Scotto, perchè ama più di me la sua capacità straordinaria di uscire dai sentieri battuti e di moltiplicare all'infinito le caleidoscopiche rifrazioni della sua dialettica.
============================================
Torno volentieri su questi due punti molto interessanti ed aggiungo qualche altro commento sulla cantante ligure.

Circa il punto 1: la più ampia dimostrazione di come ci sia a volte artefazione in R. Scotto è reperibile nella sua Nedda incisa accanto a Carreras (poveretto perché di Canio ha poco o nulla !). Lì la guitta di paese (es. una Petrella) oppure la nevrotica (es. Callas) cedono il passo ad una sorta di Adriana Lecouvreur davvero impropria...

2. Il fatto che io perdoni molto alla Scotto è perché interpreta, seppur con affettazione (alcune Butterfly) e artefazione (Nedda appunto), dà senso a quello che canta e se ci sono acuti oscillanti, assumono un rilievo minore rispetto ad altre cantanti conosciute più per la loro vocalità che per il loro estro. Se si pensa alla noia mortale che mi ispirano (e che, in fondo, hanno) certe incisioni della Caballé (anche nel suo periodo aureo) tutte perfette, limate, ma autoreferenziali, beh mi tengo R. Scotto che da Gilda e Amina è arrivata a Clitennestra, passando per Abigaille, Lady. Luisa Miller, Gioconda, Fedora e Adriana, con il senso della parola che le è proprio e che va comunicato. Insomma è una cantante maiuscola perché coinvolgente.

Salutoni cari a tutti.
Luca.
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Mimesi e artificio

Messaggioda hoffmann » sab 01 set 2007, 17:50

Trovo molto interessanti i vostri discorsi e devo dire che su queste cose avevo riflettuto tuttosommato ben poco. Scrivo delle considerazioni a ruota libera. In genere, per quel che riguarda il mio personale modo di ascoltare (vuoi a casa, vuoi in teatro), ecco, se devo essere sincero, posso dire che, salvo eccezioni, il mio interesse primario è capire come uno stesso brano di musica (mettiamo un'aria) può essere interpretato da interpreti diversi, e a quel livello posso arrivare a capire una personalità diversa, un intento diverso, uno spirito diverso con cui quel determinato ruolo viene affrontato (attraverso o magari oltre le differenze timbriche, agogiche, di fraseggio, etc. etc.). Logico che ho anch'io i miei idoli (pochi ma buoni), o che mi faccio condizionare magari anche un po' dal nome famoso, e allora arrivo anche a capire qualcosa di più, riesco a gustare in modo più ricco e sapiente l'ascolto (ancora di più se vivo quest'esperienza dal vivo, e allora magari l'emozione è ancora più forte). Io credo che, per quanto riguarda la mia personale esperienza d'ascoltatore, amare profondamente una cantante ti porti a vivere l'ascolto in modo radicalmente diverso. Se tu la conosci, se ci hai parlato, se hai ricevuto un suo sorriso, ecco, ascoltarla cantare ti porta davvero in un altro mondo (anche se non canta così bene). Cioè, c'è poco da dire: attrici e cantanti hanno su di noi un potere di seduzione enorme. Effettivamente l'artista a certi livelli sa crearsi un'"aura", sa mettersi bene su un piedistallo per poter essere contemplata/o. Ma io ritengo che la bellezza del mondo dell'opera (e della musica tutta) consista anche nel fatto che non si può dare mai nulla per scontato. Ogni ascolto dovrebbe essere una sorpresa; mi piace mettere in discussione le mie stesse aspettative, e stupirmi se un o una interprete fa meglio o fa peggio di quanto io credessi. Insomma, io trovo molto salutare talvolta fare l'esercizio di dimenticarmi l'identità dell'interprete per concentrarmi unicamente su come sta cantando, su come sta rendendo quel ruolo. Ogni recita a teatro è diversa di sera in sera. Noi stessi mutiamo il nostro umore, mutiamo le nostre stesse sensazioni, il nostro modo di percepire una determinata interpretazione. Certo, gli idoli si radicano bene sul nostro cuore...questo è indubbio. Ma sinceramente non ho mai ragionato in termini biografici provando a pensare quali ruoli sarebbero psicologicamente più adatti ad una anzichè ad un'altra interprete. E probabilmente questo è un po' un mio limite. Sicuramente una cantante (come un'attrice) 'sente' di più certi ruoli anzichè altri. Glauco Mauri mi è piaciuto di più in Shakespeare che in Pirandello. Anni fa. Ma non è detto che se lo ascoltassi oggi recitare Pirandello, non potrei mettere in discussione il mio pensiero. Ci sono delle ragioni inconsce che gravitano all'interno dell'interprete e che fan sì che un ruolo gli risulti più congeniale di un altro. Ma io credo che l'interprete anche maturi e cambi attraverso i ruoli che interpreta. Non può essere un'esperienza che non lo modifica in qualche modo. Un individuo che si fa attraversare in continuazione da personaggi diversi, ruoli diversi, non può non modificarsi almeno un po'. Non è solo un'esperienza di crescita per il pubblico, ma anche per gli interpreti stessi. Non è solo il ruolo che viene plasmato dall'interprete, ma è anche l'interprete che un po' (almeno un po') si plasma grazie a quel ruolo. Di questo ne sono convintissimo. E ci sono ragioni anche inconsce, invisibili, che ci portano a differenziarci nei gusti e a trovare più adatto un ruolo per una cantante anzichè un altro. Pensiamo a quello che fanno gli attori e le attrici di cinema. Ad ogni modo, pensiamo anche al fatto che una parte di pubblico va a vedere un'opera solo ed esclusivamente perchè sa che ci canterà il proprio idolo. Ma un'altra fetta di pubblico va a vedere quella stessa opera perchè gli piace quell'opera, indipendentemente da chi ci canta. Sicuramente le esperienze di vita arricchiscono il mondo dell'interprete e quindi in qualche modo svolgono un ruolo importante a livello di consapevolezze funzionale all'interpretazione stessa. Ma se una cantante mi pare eccellente come Lady Macbeth, ciò significa che quella donna sia per forza di cose realmente nella vita un'arpia? Se c'è una cantante che mi sembra molto disinibita come Zerbinetta, sono sicuro che quella sera andando da lei in camerino otterrò da lei qualcosa? E se provo una fortissima commozione nell'ascoltare un'interprete di Madama Butterfly, siamo veramente sicuri che quella cantante sarà anche nella vita una persona dolce, sensibile e carica d'amore?
Non lo so, non sono così sicuro di queste corrispondenze fra arte e vita. Ho conosciuto di persona alcune cantanti e attrici che sapevano ben diversificarsi nella vita dai ruoli che interpretavano. In genere, si trattava di persone sofferenti e non così felici come credevo. Ma qui non intendo affatto generalizzare. Io credo che la fortuna di queste persone sia quella di avere l'opportunità di avere come uno "spazio mentale" in più per poter vivere una vita altra da quella che vivono. Una cantante non è solo Pinca Pallina, ma è anche Carmen, Leonora, Elektra. Insomma, l'arte come ampliamento e arricchimento non della loro personalità, ma del loro esistere. Per il resto, le corrispondenze o le divergenze fra Pinca Pallina e i ruoli che interpreta resta un gran mistero. Oltretutto, si sa che in molti casi non sono gli interpreti a scegliere il ruolo da interpretare, ma che subiscono sempre un po' i movimenti e l'ondeggiare del mercato.
In più, secondo me va anche tenuto conto del fatto che un cantante è legato vocalmente a certi ruoli, e a certi ruoli viene anche psicologicamente identificato, ma sicuramente lo spettro delle possibilità di identificazioni è molto più ampio e più ambiguo di quanto si creda; per cui una cantante più portata vocalmente ad interpretare, per esempio, Carmen, desidererebbe magari molto più poter interpretare Micaela, che magari sente più affine al proprio carattere. C'è da tenere conto anche di questi fattori. L'indole psicologica non credo che arrivi a far compiere delle modifiche sul piano fisiologico. Però certi tenori che strada facendo sono diventati baritorni, o certi mezzosoprani che sono diventati soprani...beh, di sicuro qualche ragione inconscia ci sarà....forse lì anche la psiche può aver agito.
Un saluto
...le nostr'anime considerate
hoffmann
 
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Messaggioda Manrico » dom 02 set 2007, 7:51

Nota del moderatore:
Ragazzi! Sono davvero spiacente di dover intervenire ancora una volta.
Ho già scritto con molta chiarezza che in questo forum non possiamo fare commenti su chi scrive, nè su come scrive.
Si discute di opera, di canto, di interpreti, direttori, registi; ci si batte per le proprie idee; si difendono i propri argomenti; si può naturalmente attaccare - anche con durezza - le opinioni diverse dalla nostra ma sempre nel rispetto che è dovuto ad ogni interlocutore.
Le regole sono regole e valgono per tutti.
Non fateci intervenire ancora, per favore! ;)
Matteo Marazzi


Questo intervento di hoffmann mi piace
(CENSURA)

In poche parole: il grande (la grande) artista è colui che varia le interpretazioni, anche dello stesso ruolo nel tempo. Andare ad analizzare con il microscopio elettronico le varie interpretazioni, magari con lo spartito in mano, non serve a nulla, chi – se-ne –frega- se un artista non mantiene al 100 per cento il “tracciato” dell’autore
(CENSURA)

Al pubblico, in generale, servono artisti che trasmettano emozioni, queste emozioni possono essere trasmesse a prescindere dalla perfetta esecuzione del dettato dell’autore (l’autore stesso dà solo indicazioni di massima) sta poi all’interprete INTERPRETARE queste indicazioni e, il vero artista è colui che, nel tempo, varia queste interpretazioni, con il variare del proprio stato d’animo e con l’atmosfera che si crea volta per volta in teatro, anche in base al pubblico di quel teatro in quella serata.
E’ arcinoto che il pubblico anglosassone è completamente diverso, per gusti, da quello “latino”, non per niente nei teatri in america latina, gli impresari pagavano (e pagano) un extra all’interprete che teneva la nota più lunga, cosa che invece, in altri paesi, viene considerata una giggionata. :lol:
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Re: Mimesi e artificio

Messaggioda MatMarazzi » dom 02 set 2007, 17:05

In effetti, Hoffmann, tu muovi al mio pensiero le stesse contestazioni che già mi aveva mosso Fabrizio, a cui avevo già dettagliatamente risposto nell'ultimo mio post in questo thread.
Mi limito pertanto a rimandare alla lettura di quel post, con qualche ulteriore precisazione.

Io credo che, per quanto riguarda la mia personale esperienza d'ascoltatore, amare profondamente una cantante ti porti a vivere l'ascolto in modo radicalmente diverso. Se tu la conosci, se ci hai parlato, se hai ricevuto un suo sorriso, ecco, ascoltarla cantare ti porta davvero in un altro mondo (anche se non canta così bene).


Non discuto la tua personale esperienza.
Ma nel mio caso proprio non è così, nè è mai stato così.
Credo invece che la maggior parte degli ascoltatori sia in grado di giudicare con correttezza un'esibizione, quali che siano le simpatie e antipatie.
Per me, ad esempio, il fatto di conoscere un artista personalmente non ha mai significato nulla. Ciò che di buono o non buono mi pareva facesse è sempre rimasto in evidenza.

E' pur vero - questo sì - che l'artista famoso esercita un certo tipo di fascino sul pubblico che potenzia il grado di attenzione con cui viene ascoltato.
Le orecchie e gli occhi del pubblico sono infinitamente più recettivi per il "divo" che per il debuttante.

Ma questo, notalo bene, vale in positivo e in negativo.
Anche i difetti verranno amplificati o addirittura sopravvalutati dalla iper-attenzione che il pubblico dedica all'artista famoso.

Insomma, io trovo molto salutare talvolta fare l'esercizio di dimenticarmi l'identità dell'interprete per concentrarmi unicamente su come sta cantando, su come sta rendendo quel ruolo.


Semplicemente, Hoffman, non puoi.
:)
Non puoi dimenticarti - se l'artista ti è noto - che sta cantando proprio lui.
Nel giudicarlo il tuo cervello recupera e mescola - anche senza volerlo - tutte l'esperienze d'ascolto che hai accumulato su quel cantante o sul brano che sta eseguendo.
Ma questo background non inficia la tua capacità di giudizio, anzi la esalta.
Più ascolti hai nel tuo personale bagaglio, più la tua valutazione sarà profonda e penetrante.

Quanto al giudicare il "divo" con obbiettività, come ho detto, credo che ogni appassionato d'opera e persino ogni fan ci riesca.
Purché abbia sufficiente esperienza (di ascolti) per farlo.

Ci sono "fans" che restano tutta la vita incatenati al loro idolo, si rifiutano di allargere i loro orizzonti e non ascoltano altro: costoro non saranno in grado di decifrare correttamente pregi e difetti nè del cantante che amano nè degli altri.
Credo però che questi "inconditionels", come dicono in Francia, siano pochi.

Ma sinceramente non ho mai ragionato in termini biografici provando a pensare quali ruoli sarebbero psicologicamente più adatti ad una anzichè ad un'altra interprete. E probabilmente questo è un po' un mio limite.


Pensavo di aver già chiarito questo punto della "biografia", e invece evidentemente non mi ero espresso bene.
Non ho detto mai che un cantante deve scegliere i personaggi sulla base della sua "biografria"; ho detto che più materiale di "se stesso" riesce a trasferire in un personaggio, più quel personaggio riusulterà complesso e vero.
L'esempio di Lady Macbeth, che citi, è significativo.

Ma se una cantante mi pare eccellente come Lady Macbeth, ciò significa che quella donna sia per forza di cose realmente nella vita un'arpia?



Lady Macbeth non è affatto un'arpia.
Le cantanti che la descrivono come tale (fanno la faccia cattiva e si aggirano per il palcoscenico con piglio da Crudelia) sono semplicemente delle sciocchine, che dovrebbero fare altro nella vita.

La vera interprete (di Lady Macbeth come di qualunque altro ruolo) è quella che si pone il problema di come lei stessa avrebbe reagito in quel contesto, in quella situazione, di fronte a quelle sollecitazioni mostruose.

Se arriverà a darsi delle risposte (che inevitabilemnte affondano nel suo "io") allora avremo una vera Lady Macbeth.

Questo non significa che una brava Lady sia un'assassina.
Il dramma è proprio questo: non esistono "assassini", ma solo persone che uccidono... perché si trovano in determinati situazioni umane, psicologiche, storiche, esistenziali.
La vera interprete di Lady è quella che si chiede "ma io sarei capace di uccidere? E sulla base di quali laceranti motivazioni? o inconfessabili impulsi? o terrificanti paure?
Cosa potrebbe spingermi a tanto?"

In questo senso, più un interprete sa far filtrare le sue ragioni umane e private in un personaggio, più quel personaggio sarà tale.
...altrimenti si limiterà a fare l'arpia!

Se c'è una cantante che mi sembra molto disinibita come Zerbinetta, sono sicuro che quella sera andando da lei in camerino otterrò da lei qualcosa?



Tu sicuramente no! :) Io nemmeno...
Ma io sono sicuro che nella sua vita intima e privata una cantante che è sensuale in scena, nel canto, nel modo di camminare, alzare il sopracciglio, allungare un braccio, allora lo è anche nella vita reale.
Mentre sentendo la Sutherland ho come la certezza che fosse morigeratissima anche nel privato! :)

L'indole psicologica non credo che arrivi a far compiere delle modifiche sul piano fisiologico.


Tu dai per scontato quello che io trovo aberrante.
Ossia che una cantante venga chiamata a fare Carmen solo perché ha l'estensione e il timbro che riteniamo giusti per il ruolo.
E' proprio per questo che dobbiamo sopportare migliaia di Carmen insignificanti....

Se la sua personalità tende piuttosto verso Micaela (é l'esempio che hai fatto) vuol dire semplicemente che non deve cantare CArmen.
Tutto qui.
E' pur vero, non mi stanco di ripeterlo, che è il cantante a doversi interrogare sulle proprie relazioni umane e psicologiche con un determinato ruolo.
La Berganza ha fatto Carmen, la Moedl ha fatto Carmen, la Calvé ha fatto Carmen e persino la de los Angeles ha fatto Carmen.
Tutte vi hanno cercato i punti di affinità con la loro visione del mondo.
Questo le ha rese vere come interpreti e grandi come artiste.

Salutoni
Matteo
Ultima modifica di MatMarazzi il mar 04 set 2007, 13:31, modificato 1 volta in totale.
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Messaggioda fadecas » lun 03 set 2007, 0:26

... Che nei nostri atti, gesti e comportamenti ci portiamo dietro noi stessi e la sedimentazione del nostro vissuto esistenziale è fin troppo banale per essere ribadito con insistenza. E questo vale non diversamente per i tutti i prodotti dell’ingegno e della creatività umana, fra cui includiamo pure le interpretazioni vocali operistiche.
Eppure, la riproposizione ancor più articolata delle tesi che Matteo ha esposto all’inizio del thread continua ad approdare ad un passaggio che, dal mio punto di vista, rafforza il mio convincimento circa la scarsa produttività del tipo di relazioni fra personalità interpretativa e persona privata così come delineate nel suo pur brillante ed argomentatissimo percorso.
E il punto debole è proprio nell’ultimo esempio concretamente addotto a dimostrazione pratica della sua tesi.
Le peculiarità dell’organizzazione vocale, tecnica, coloristica di Joan Sutherland, con le scelte stilistiche e predilezioni di repertorio che ne sono conseguite, a me come ascoltatore risultano astralmente lontane da ogni possibile inferenza, vuoi a priori vuoi a posteriori, rispetto alla tonalità emotiva del suo vissuto privato (tanto per generalizzare un po’ il discorso sulla “morigeratezza"cui allude Matteo ...)
Non trovo francamente nulla, nello spericolato atletismo della sua tecnica , nella fantasmagorica precisione delle sue coloriture, che mi dica alcunché, nell’uno o nell’altro senso, rispetto a quanto potesse essere la Sutherland “donna” nella sfera della sessualità.
E, viceversa, posso apprezzare i fiotti di espressività più diretta di certi ordini di sensazioni o di sentimenti che interpreti di altro tipo sanno trasmettermi senza percorrere l’accidentato tragitto che va dalla proiezione di un vissuto reale alla ricreazione artificiosa di un immaginario non vissuto ma talmente ben costruito da funzionare egregiamente come vero.

Sarà un limite mio personale, ma io li percepisco come due ordini di discorso che, nell’approccio di ascoltatore, fanno capo a due piani di diversa pertinenza, pena il rischio di fare o del cattivo biografismo o delle letture azzardate e forzate di quanto la persona xy, con i mezzi e gli strumenti di cui dispone, ha oggettivato nella peculiarità di un atto interpretativo che a me interessa cogliere e capire in primo luogo rapportato a quello che altri approcci interpretativi di quella stessa pagina, fatti con mezzi e scelte diverse, sono riusciti ad esprimere.

A questo punto, il nocciolo di emozioni e di verità artistica che potrò ricavare dalla mia lettura di quell’interpretazione, e il contributo all’approfondimento di quell’opera o di quella pagina, sarà comunque “altra cosa” rispetto a quanto possa esservi travasato dalla persona umana dell’interprete.

Certo, la ricostruzione delle biografie degli interpreti anche attraverso i tasselli delle loro testimonianze artistiche è operazione sicuramente importante e delicatissima, appunto perché le infiltrazioni fra queste due sfere sono mediate e cifrate, e le banalizzazioni assai pericolose, ma si tratta di un’esegesi specialistica che a me non interessa, e non è in funzione di questo che continuo a seguire il mondo dell’opera da decenni e a scoprirvi ancora qualcosa – anzi tanto! - di nuovo.

Saluti a tutti, Fabrizio
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Messaggioda Teo » lun 03 set 2007, 12:44

Interessante discorso...

Il grande Bird, ovvero Charlie Parker, sosteneva che "la musica è la tua esperienza, la tua saggezza, i tuoi pensieri. Se non l'hai vissuta, non uscrirà dal tuo strumento".

Peter Brook usava raccontare questa storiella: “Dio, il settimo giorno della creazione, vedendo che una noia mortale aleggiava su tutti, con un ulteriore sforzo dell’immaginazione, già messa a dura prova, cercò di aggiungere qualcosa alla completezza della sua opera appena creata e, all’improvviso, la propria ispirazione esplose persino oltre i suoi illimitati confini ed ecco che si rivelò a lui un nuovo aspetto della realtà: la possibilità di imitare se stessa. E fu così che Dio inventò il teatro.”

Cio premessso, credo si possa arrivare all'interpretazione attraverso l'applicazione di diverse metodologie.
Credo però che la condicio sine qua non, debba essere una buona e corretta comprensione del personaggio che si deve interpretare e la correlazione con i propri sentimenti, con il proprio vissuto.

Ora pare evidente che la frase di Bird sia significativa, ma non per questo debba essere presa alla lettera, nel senso che per interpretare il ruolo di un tossico dipendente, uno non debba per forza di cose ricorrere all'uso di sostanze stupefacenti, così come ritengo che per affrontare il ruolo di una donnina sevizievole, non si debba per forza di cose imitare tale comportamento.

Quello che penso è che innanzitutto occorra realmente avere una visione chiara ed esaustiva del personaggio che si intende affrontare.
Spesso si leggono le partiture più dal punto di vista musicale che non dal senso delle stesse parole, si cerca il modo migliore di risolvere il fraseggio o l'accento della partitura e si da poca importanza al senso delle singole parole, ma peccato che una frase è la costruzione di ogni singola parola. Si cerca l'effetto del segno musicale, si cerca di rispettare un legato, un pianissimo, una pausa, ...ok va bene occorre tenerne debito conto, ma se non faccio mie quelle parole, quella frase, quella situazione, quella scena, quel personaggio, potrò forse cantare bene, ma difficilmente interpreterò, difficilmente provocherò l'effetto citato da P. Brook, dare la possibilità alla realtà di imitare se stessa...

Allo stesso modo credo non si possa essere adatti per tutti i ruoli, non siamo abiti che vanno bene per tutte le stagioni; occorre capire quali sono le nostre corde interiori, quali sono le nostre caratteristiche sia fisiche che umane. Ciò non toglie che essendo diversi l'uno dall'altro, le possibilità di esplorazione sono anch'esse differenti.

In breve, credo che non si debba essere lo specchio del personaggio ma rispecchiarne le caratteristiche necessarie a far comprendere il suo ruolo, le sue emozioni, il suo messaggio...
Per far ciò......beh, le risposte possono essere tante e diverse, ma le principali caratteristiche credo si debbano associare ai discorsi da me sopra elencati.

Non sono sicuro di essermi spiegato bene.... :( :? speriamo :lol:

Salutissimi.

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Messaggioda MatMarazzi » mar 04 set 2007, 4:03

fadecas ha scritto:... [
Che nei nostri atti, gesti e comportamenti ci portiamo dietro noi stessi e la sedimentazione del nostro vissuto esistenziale è fin troppo banale per essere ribadito con insistenza.


Scusa Fabrizio, ma sarà banale per te.
Per me questo concetto non è affatto banale e meno ancora è immeritevole d'essere ribadito.
Può non essere condiviso da te, ma non può essere banale un concetto che cozza contro un secolo di impostura stanislavskijana e che sfida cateratte di antichissima demagogia sul ruolo dell'interprete "umile ancello del genio creator".
E poiché mi pare che tu e Hoffman ne contestiate ancora la validità, risulta tanto più importante ribadirlo e chiarirlo sempre meglio, valutarne le applicazioni e i riscontri, dimostrarne l'efficacia critica relativamente ai casi dell'opera e del canto che vogliamo, di volta in volta, prendere a esempio.

Proprio il caso della Sutherland, che tu hai citato come "punto debole" del mio pensiero, mi pare che si presti benissimo a suffragarne la validità.

Non trovo francamente nulla, nello spericolato atletismo della sua tecnica , nella fantasmagorica precisione delle sue coloriture, che mi dica alcunché, nell’uno o nell’altro senso, rispetto a quanto potesse essere la Sutherland “donna” nella sfera della sessualità.


E' già significativo, invece, che un'interpete costruisca - come ha fatto lei -tutta la sua vicenda artistica sulla sofisticazione virtuosistica, sulla ricerca di ciò che (barocchescamente) trascende l'umanità, le sue fragilità, i suoi impulsi.
Ma più importante ancora non è ciò che la Sutherland ha fatto (il virtuosismo stellare e spettacolare), quanto ciò a cui ha rinunciato.
La sua emissione è talmente coperta, oscurata, raccolta, da sembrare mimetizzata.
Come una donna che cela le sue grazie dietro coltri di pizzi e cascate di stoffe.

Nessuno dei suoni che tradizionalmente esprimono "umanità" "desiderio" "sofferenza" "passione" ha mai trovato albergo nell'emissione di Joan Sutherland.
Anche nei brani lirici o tardo romantici, dove non c'è vocalizzo, non c'è ritmo indiavolato, anche allora il suo canto resta monocromatico, come cristallizzato in suoni distanti, algidi, volutamenti astrali.

Quante volte critici superficiali e disattenti le hanno rimproverato la sua "freddezza", mentre sarebbe stato tanto più semplice riconoscere in questa freddezza una caratteristica umana (come tale rispettabile quanto il calore di altre artiste) che poteva a sua volta inverare tanti personaggi?
Non è che tutti i personaggi debbano per forza essere trascinanti e scenosi (sul modello Scotto-Gencer-Olivero). Alcuni possono anche essere più sobri, più frenati nell'espressione dei sentimenti, più vittoriani e maestosi come era la Sutherland.

Quanti personaggi la Sutherland ha reso vivi (al di là del virtuosismo) proprio imprimendovi la sua castigatezza grandiosa, le sue maniere altere, distanti e istintivamente aristocratiche?
Alcina, Turandot, Margherita di Valois, Semiramide, Donna Anna, Beatrice di Tenda, Lakmè...

Come artista la Sutherland ha negato quella parte di sè che era in ombra anche nel suo essere donna.
Si è fatta prototipo dell'astrazione, perché le pulsioni umane, gli istinti carnali non le interessavano (o non le piacevano... ).
Tutto questo lo si coglie semplicemente dal suo canto, anche senza nulla sapere della biografia reale (che peraltro - in perfetta sintonia col suo essere donna e col suo essere artista - la Sutherland ha sempre protetto).

Certo è che non mi stupii affatto quando, un paio di anni fa, sentii l'aneddoto narrato da un regista che aveva collaborato con lei.
Dovendole - in uno spettacolo - suggerire un movimento con la gamba, egli racconta di essere caduto in un imbarazzo terribile, poiché non sapeva come spiegarglielo!
Temeva che solo questa parola ("gamba"), pronunciata durante una prova, in presenza dei colleghi, l'avrebbe turbata.... :)
Niente male come esempio di sensualità...

Certo, la ricostruzione delle biografie degli interpreti anche attraverso i tasselli delle loro testimonianze artistiche è operazione sicuramente importante e delicatissima


Delicatissima e anche difficile, ne convengo.
Ammetto che molti ascoltatori possano non essere in grado di compierla pur essendo capaci di riconoscere diciamo ... a istinto una grande interpretazione.
Quello che mi lascia più perplesso è la facilità con cui talvolta caschiamo nelle trappole di interpretazioni superficiali, esteriori e convenzionali, fatte di gesti non sentiti e pose passivamente ereditate dalla tradizione.

E' a questo che mi oppongo.
Si dovrebbero riconoscere i meriti di quegli artisti che hanno "creato" qualcosa di grande in un determinato personaggio.
Questo si dovrebbe fare...
Poi è anche lecito che il pubblico non si interroghi sul "perchè" quel dato artista ha prodotto "qualcosa di grande" a contatto con un certo ruolo e non con altri; o perché quel determinato ruolo ha scatenato la fantasia di certi interpreti e non di altri...
Nulla di male.
In quanto "ascoltatore", sia pure illuminato e approfondito, questo sforzo non ti è richiesto, Fabrizio.
Mi lamenterei di più se tu fossi un cantante... o se fossi un direttore di teatro.

Perché il grande cantante - se vuole fare le scelte giuste per la sua carriera - sarà invece tenuto a interrogarsi sul rapporto fra sè e un ruolo, sviluppare una dialettica anche involontaria ma comunque inquietante fra il suo vissuto e le ragioni di un personaggio, insomma porsi quei problemi che tu, come semplice ascoltatore, puoi anche ritenere irrilevanti.
Se così non farà, quel cantante sarà il solito routinier!
Uno dei tanti pantofolai che hanno imparato a scuola certi "gesti" e certi "accenti".
E che sanno che Don José deve mettere la mano sul fianco (per forza! è spagnolo) e che Lady Macbeth deve cantare con voce d'arpia.
E che sanno che per essere una buona Violetta bisognerà fare il filatina qui, il re bemolle là, sventolare con ostentazione il ventaglio e assumere un contegno da Greta Garbo.

E anche il direttore di teatro, nel concepire un cast, dovrà fare lo stesso: prima di proporre un certo ruolo a un artista dovrà conoscerlo, capirlo anche nelle sue problematiche umane e artistiche, intorrogarsi sulle possibili espansioni che un certo ruolo produrrà a contatto con la sua personalità.
E' questo che facevano i massimi direttori artistici della storia: da Gatti Casazza e Gustav Mahler, fino a Kurt Adler e Siciliani.
E' pur vero che la maggior parte dei direttori artistici non è capace di intuire le corrispondenze umane e psicologiche fra ruoli ed artisti, ed è questa la ragione per cui dobbiamo subire valanghe di cast noiosi, malfatti, insignificanti, anche quando si interpellino cantanti famosi e meritori.

Ed è questo che facevano anche i compositori, quando erano chiamati a scrivere per grandi personalità: in altro thread parliamo del rapporto fra Rossini e David, ma potremmo citare quello fra Bellini e la Pasta, fra Donizetti e la Ronzi, fra Meyerbeer e Nourrit, fra Britten e Pears, fra Gluck e la Levasseur, fra Poulenc e la Duvall. Tutti esempi preclari di fusione fra vita e creazione teatrale.

Detto questo, ripeto, al semplice ascoltatore può e forse deve bastare la constatazione che (chissà perché) lo stesso Neil Shicoff, travolgente nella Juive, è noioso e generico in Ernani...
A me non basta: a me non interessano gli elogi generici alla bella o brutta vocalità, non interessano i panegirigi dei fans, non interessano le analisi speciose sulla tecnica dell'uno e sulle capacità attorali dell'altro.
In parole povere, non mi interessa stabilire quanto è bravo un cantante e quanto è cattivo un altro.
Secondo me sono tutti bravi nel ruolo giusto e tutti sono cattivi nel ruolo sbagliato.

Ciò che mi interessa è appunto quella misteriosa, complicata, irripetibile relazione che si sviluppa fra un personaggio di carta e un essere umano, in carne ed ossa, con un suo mondo da esprimere e mettere sul tappeto.
Sono relazione sfuggenti, complesse, difficili da investigare, ma è in questa relazione che si sprigiona la vera creazione interpretativa.
E questo, con buona pace di chi mi contesta, non è affatto "biografismo", nè buono, nè cattivo.

Concludo con un riferimento al post di Teo.
Non ho nulla da replicare, perché trovo quel post semplicemente sacrostanto.
E devo dire che non mi stupisco.
Solo un cantante sa cosa sia l'ansia creatrice di chi deve cercare se stesso in un cumulo informe di parole e note contenute in uno spartito.

Salutoni e grazie del bel confronto.
Matteo
Ultima modifica di MatMarazzi il mar 04 set 2007, 12:01, modificato 4 volte in totale.
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Messaggioda Luca » mar 04 set 2007, 10:03

E' già significativo, invece, che un'interpete costruisca - come ha fatto lei -tutta la sua vicenda artistica sulla sofisticazione virtuosistica, sulla ricerca di ciò che (barocchescamente) trascende l'umanità, le sue fragilità, i suoi impulsi.
Ma più importante ancora non è ciò che la Sutherland ha fatto (il virtuosismo stellare e spettacolare), quanto ciò a cui ha rinunciato.
La sua emissione è talmente coperta, oscurata, raccolta, da sembrare mimetizzata.
Come una donna che cela le sue grazie dietro coltri di pizzi e cascate di stoffe.
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Condivido quanto - nella citazione riportata - afferma Matteo su J. Sutherland perché di quella che è stata la sua cifra artistica ne ha fatto pilastro di tante rivoluzioni interpretative che superano il mero concetto della 'freddezza' (sul quale ho fortissimi dubbi). Pur con i suoi limiti (e in questo ha ripercorso la strada tracciata dalla Callas) la Sutherland si è costruita un fascino interpretativo, un'espressività immateriale che, proprio perché è così strutturata, finisce per siglare ogni sua interpretazione. Questo ha fatto la fortuna di molte sue interpretazioni fra le quali due, a mio avviso, si impongono: Norma e Turandot che la cantante australiana sa imparentare in sintesi perfetta. Anche Turandot, se vogliamo, assume nei tratti vocali della Sutherland una dimensione sacerdotale, dove la smania del sangue, la crudeltà cedono il posto ad una dimensione sacrale protologica (di rinvio al passato: l'ava Lou-ling) ma anche escatologica (il futuro di "Mai nessun m'avrà") che si aprono però sul presente in cui l'infelice (perché di infelicità si tratta, ancor prima che di cattiveria) principessa proclama l' "Io vendico sui voi quella purezza, quel grido e quella morte".
Una vocalità non fredda (fredda/o è chi non ha mai espresso nulla), ma metafisica nel senso che oltrepassa quelle cose naturali che, tuttavia, presuppone per poter compiere il passaggio.
Da ultimo, torno volentieri sul parallelismo Callas-Sutherland che si muove su parametri opposti: se la Sutherland ha fatto vibrare le ragioni metafisiche e dato voce ad un modo di essere creaturale e, al contempo, in grado di esprimere l'oltre 'celeste', la Callas ha inventato un'espressività tutta terrena, mai sbracata, ma capace di mettere a nudo quella terrestrità che è la sigla dell'uomo e quegli istiti primordiali che lo dominano. Due visioni geniali di un'unica umanità, perché provenienti da due donne che sono più che cantanti "casi musicali".

Spero di essermi spiegato.
Salutoni, Luca.
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Messaggioda MatMarazzi » mar 04 set 2007, 12:17

Ti sei spiegato stra-bene, Luca, come al tuo solito.
E hai ragione a specificare che la Sutherland non è "fredda" in senso interpretativo.
Forse si potrebbe definire un po' "fredda" come donna, ma non in senso negativo: non era portata per le accesioni furenti, per il sentimentalismo ostentato, per la sensualità dirompente.
Ma non fu fredda come interprete (hai perfettamente ragione) perché è riuscita (in certi ruoli, non in tutti) ha trasfondere queste sue umane caratteristiche nei personaggi che inverava.
Ed è questo che si richiede a un interprete.
Ci sono artiste mille volte più smaniose e strappalacrime, che non riescono ad andare oltre la finzione di un manierismo esteriore e superficiale.
Lei, nella distanza e nell'intangibilità della sua Turandot o della sua Regina della Notte, era "vera".

Fu fredda come interprete (secondo me) solo quando l'operazione di "transfer" non le riuscì.
La sua Violetta, la sua Gilda, la sua Antonia sono esempi (ma ce ne sarebbero tanti altri) di interpretazioni "fredde" - non so se sei d'accordo.
Attendo la tua replica...

Salutoni
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