pistolotti

Vorrei richiamare la vostra attenzione sui pistolotti sindacalcomizianti che, da un anno in qua, ormai ritrovo prima di ogni spettacolo e in ogni teatro. Ovviamente in Italia. Bisognerebbe fare una recensione anche di questi. Ormai sono talmente consueti da aver sviluppato una loro poetica consentendo a noi, perchè no, una piccola schematizazione per categorie.
In pratica li fanno in tutti teatri, dalla grande fondazione con duemila dipendenti al teatrino di quartiere con l'usciere comunale che apre e chiude il portone. Ovviamente c'è una differenza qualitativa non da poco, giustificata sia dalle dimensioni del luogo sia dal costo del biglietto. Se superi i cento euro di biglietto come minimo devi mettere anche l'Inno nazionale dal vivo. Se sei sotto i cinquanta puoi cavartela con un nastro (in Toscana ho sentito Del Monaco!). Se invece non superi i venti basta un microfono.
Nei teatri grossi, quelli dove il FUS finanzia superstar del podio, i pistolotti li affidano a loro. Ci mancherebbe! Con quello che costano Barenboim e Mehta bisogna pure sfruttarli per dare spessore alle proteste. Anche qui però vige un rigido protocollo. La Scala è "più grossa" di Firenze e quindi se Metha ha denunciato la crisi dell'Opera in Italia, Barenboim si è giustamente allargato lamentando la crisi della Cultura in Europa. Però Mehta, da volpone, ha tirato in ballo i Medici lasciando Barenboim a secco di briscole visto che Manzoni non gli è venuto in mente; in compenso Daniel si è preso la rivincita il sette dicembre scorso parlando al Presidente della Repubblica in sala mentre Mehta si sarebbe dovuto accontentare del Ministro Bondi che però ha dato buca. Insomma, un due a zero secco Scala-Maggio fiorentino.
Nei teatri dove non ci sono superstar disponibili allora si opta per lo striscione. Avviene in quei teatri dove sono passati da poco Pier'Alli o Pizzi e quindi ci sono metrature su metrature di tulle in sartoria che non si sa dove stivare. Si fanno delle gigantesche tovaglie e si impacchetta l'esterno e l'interno dell'edificio scrivendo con pennelloni intinti in vernice rosso sangue slogan più o meno incisivi. Poichè le rappresentanze sindacali dei Teatri sono, dopotutto, composte anche loro da creativi ne deriva che gli slogan siano divertenti e fantasiosi. Uno, addirittura, partiva dal palco di proscenio e superava il quello reale di diversi metri. "Il nostro paese ha bisogno di cultura se non vuole diventare quello che non ha mai voluto essere". Oddio, l'ho dovuto rileggere due o tre volte per capirne bene il contenuto. Altre volte ho trovato il celebre detto di Neruda (La cultura costa ma l'incultura costa molto di più) che trovi ormai anche nei biscotti cinesi oppure, più curioso, quello in stile giuridico: "Il comma terzo, paragrafo due dell'art. x della legge y del x luglio xxxx uccide la musica!" Ha ragione Brunetta: la burocrazia si è infiltrata anche nella protesta. Ma il più strano di tutti è stato quello visto in un teatro lombardo: "La cultura cresce solo se la pianti!"; se letto in tono esortativo anzichè affermativo può rivelarsi un pericoloso boomerang.
In alcuni teatri la protesta è accompagnata da eleganti gadget. A Firenze per la Frau le maschere distribivano sobri fiocchetti -li ricordo rossi- che si potevano appuntare con spillette dorate e che facevano una notevole figura sul bavero dello smoking. Alcuni ne avevano due o tre e al bar sembrava di essere ad un veglione natalizio. Certi tremendi vecchioni, di quelli che basta guardarli in faccia e capisci che se avessero un lanciafiamme darebbero fuoco a tutti quelli che protestano, neri, rom, omosessuali, extracomunitari compresi, li portavano orgogliosi e divertiti, come se fosse un nuovo gioco di società: "L'hai messo anche tu, gioia?" "Certo che si, l'ha messo anche l'Adelaide e il Marcello. Dopotutto qualcosa bisogna fare, non si può sempre stare con le mani in mano!" Come dar loro torto.
Dove non ci si può permettere il gadget si ripiega sul volantino, o meglio, sui volantini. Ogni sigla sindacale scrive il suo; durante una recita di Traviata un bimbo ha confezionato una squadriglia di aerei e ne ha lanciato un paio nel mio palco. Mi sono immalinconito. Era un barracuda soffiettato di cui pensavo di detenere il segreto di costruzione. Io però, da piccolo, ci facevo gli alettoni e i miei non cadevano a spirale come i suoi.
Poche sere fa, a Bologna, prima di un Tannhauser tutt'altro che disprezzabile, anzi, di buon livello complessivo, la protesta ha avuto almeno il pregio del karaoke. Sipario chiuso, microfono, invito a spegnere i cellulari, lettura della Costituzione in cui si enuncia il dovere da parte della Repubblica di tutelare la cultura seguita da una frase lapidaria: "con questi tagli al FUS si chiude, quindi noi, per difendere la Costituzione suoneremo e canteremo l'Inno nazionale." Evviva! Tutti sono scattati in piedi come dei serramanico. Di fronte a me un tenerissimo quartetto di anziani spettatori dopo una lotta con pesantissimi pelliccioni, si è messo in verticale che eravamo già all'elmo di Scipio, ma ugualmente hanno cominciato a cantare a piena voce seguiti a ruota da altri del pubblico; in breve la sala tuonava di impeti risorgimentali. I problemi sono arrivati nel passaggio in minore "stringiamci a coorte" dove la tenuta ritmica era quella che era, per poi, ovviamente, cadere miseramente nell'ostico passaggio di registro che chiude il pezzo. Arrivati al conclusivo "l'Italia chiamò" c'è stata una serie di scrocchi dovuti, ovviamente, a una mancata copertura del suono nella zona fa-sol. Dietro di me un poderoso giapponese seguiva il canto modulando a bocca chiusa; era come avere un gigantesco moscone sulle spalle.
Spiace constatatare però che alcuni esponenti di questo canoro popolo di difensori della cultura (tra cui i miei quattro dirimpettai) al primo intervallo se ne siano andati, seguiti a ruota da altrettanti, durante il secondo. In pratica gli applausi finali (più che meritati) sembravano una cerimonia tra pochi intimi. La Costituzione, avranno pensato questi fuggitivi, la si difende per Verdi e Puccini. A difendere Wagner ci pensi la Costituzione tedesca che noi abbiamo già le nostre grane.
Salutoni
WSM
In pratica li fanno in tutti teatri, dalla grande fondazione con duemila dipendenti al teatrino di quartiere con l'usciere comunale che apre e chiude il portone. Ovviamente c'è una differenza qualitativa non da poco, giustificata sia dalle dimensioni del luogo sia dal costo del biglietto. Se superi i cento euro di biglietto come minimo devi mettere anche l'Inno nazionale dal vivo. Se sei sotto i cinquanta puoi cavartela con un nastro (in Toscana ho sentito Del Monaco!). Se invece non superi i venti basta un microfono.
Nei teatri grossi, quelli dove il FUS finanzia superstar del podio, i pistolotti li affidano a loro. Ci mancherebbe! Con quello che costano Barenboim e Mehta bisogna pure sfruttarli per dare spessore alle proteste. Anche qui però vige un rigido protocollo. La Scala è "più grossa" di Firenze e quindi se Metha ha denunciato la crisi dell'Opera in Italia, Barenboim si è giustamente allargato lamentando la crisi della Cultura in Europa. Però Mehta, da volpone, ha tirato in ballo i Medici lasciando Barenboim a secco di briscole visto che Manzoni non gli è venuto in mente; in compenso Daniel si è preso la rivincita il sette dicembre scorso parlando al Presidente della Repubblica in sala mentre Mehta si sarebbe dovuto accontentare del Ministro Bondi che però ha dato buca. Insomma, un due a zero secco Scala-Maggio fiorentino.
Nei teatri dove non ci sono superstar disponibili allora si opta per lo striscione. Avviene in quei teatri dove sono passati da poco Pier'Alli o Pizzi e quindi ci sono metrature su metrature di tulle in sartoria che non si sa dove stivare. Si fanno delle gigantesche tovaglie e si impacchetta l'esterno e l'interno dell'edificio scrivendo con pennelloni intinti in vernice rosso sangue slogan più o meno incisivi. Poichè le rappresentanze sindacali dei Teatri sono, dopotutto, composte anche loro da creativi ne deriva che gli slogan siano divertenti e fantasiosi. Uno, addirittura, partiva dal palco di proscenio e superava il quello reale di diversi metri. "Il nostro paese ha bisogno di cultura se non vuole diventare quello che non ha mai voluto essere". Oddio, l'ho dovuto rileggere due o tre volte per capirne bene il contenuto. Altre volte ho trovato il celebre detto di Neruda (La cultura costa ma l'incultura costa molto di più) che trovi ormai anche nei biscotti cinesi oppure, più curioso, quello in stile giuridico: "Il comma terzo, paragrafo due dell'art. x della legge y del x luglio xxxx uccide la musica!" Ha ragione Brunetta: la burocrazia si è infiltrata anche nella protesta. Ma il più strano di tutti è stato quello visto in un teatro lombardo: "La cultura cresce solo se la pianti!"; se letto in tono esortativo anzichè affermativo può rivelarsi un pericoloso boomerang.
In alcuni teatri la protesta è accompagnata da eleganti gadget. A Firenze per la Frau le maschere distribivano sobri fiocchetti -li ricordo rossi- che si potevano appuntare con spillette dorate e che facevano una notevole figura sul bavero dello smoking. Alcuni ne avevano due o tre e al bar sembrava di essere ad un veglione natalizio. Certi tremendi vecchioni, di quelli che basta guardarli in faccia e capisci che se avessero un lanciafiamme darebbero fuoco a tutti quelli che protestano, neri, rom, omosessuali, extracomunitari compresi, li portavano orgogliosi e divertiti, come se fosse un nuovo gioco di società: "L'hai messo anche tu, gioia?" "Certo che si, l'ha messo anche l'Adelaide e il Marcello. Dopotutto qualcosa bisogna fare, non si può sempre stare con le mani in mano!" Come dar loro torto.
Dove non ci si può permettere il gadget si ripiega sul volantino, o meglio, sui volantini. Ogni sigla sindacale scrive il suo; durante una recita di Traviata un bimbo ha confezionato una squadriglia di aerei e ne ha lanciato un paio nel mio palco. Mi sono immalinconito. Era un barracuda soffiettato di cui pensavo di detenere il segreto di costruzione. Io però, da piccolo, ci facevo gli alettoni e i miei non cadevano a spirale come i suoi.
Poche sere fa, a Bologna, prima di un Tannhauser tutt'altro che disprezzabile, anzi, di buon livello complessivo, la protesta ha avuto almeno il pregio del karaoke. Sipario chiuso, microfono, invito a spegnere i cellulari, lettura della Costituzione in cui si enuncia il dovere da parte della Repubblica di tutelare la cultura seguita da una frase lapidaria: "con questi tagli al FUS si chiude, quindi noi, per difendere la Costituzione suoneremo e canteremo l'Inno nazionale." Evviva! Tutti sono scattati in piedi come dei serramanico. Di fronte a me un tenerissimo quartetto di anziani spettatori dopo una lotta con pesantissimi pelliccioni, si è messo in verticale che eravamo già all'elmo di Scipio, ma ugualmente hanno cominciato a cantare a piena voce seguiti a ruota da altri del pubblico; in breve la sala tuonava di impeti risorgimentali. I problemi sono arrivati nel passaggio in minore "stringiamci a coorte" dove la tenuta ritmica era quella che era, per poi, ovviamente, cadere miseramente nell'ostico passaggio di registro che chiude il pezzo. Arrivati al conclusivo "l'Italia chiamò" c'è stata una serie di scrocchi dovuti, ovviamente, a una mancata copertura del suono nella zona fa-sol. Dietro di me un poderoso giapponese seguiva il canto modulando a bocca chiusa; era come avere un gigantesco moscone sulle spalle.
Spiace constatatare però che alcuni esponenti di questo canoro popolo di difensori della cultura (tra cui i miei quattro dirimpettai) al primo intervallo se ne siano andati, seguiti a ruota da altrettanti, durante il secondo. In pratica gli applausi finali (più che meritati) sembravano una cerimonia tra pochi intimi. La Costituzione, avranno pensato questi fuggitivi, la si difende per Verdi e Puccini. A difendere Wagner ci pensi la Costituzione tedesca che noi abbiamo già le nostre grane.
Salutoni
WSM