Romani e Cammarano

opere, compositori, librettisti e il loro mondo

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Romani e Cammarano

Messaggioda Tucidide » mer 02 dic 2009, 23:51

MatMarazzi ha scritto:Per altro l'adolescente e impetuoso Bardari, fiero partenopeo tanto quanto il più illustre collega, compose la sua Stuarda con stile e furore romantico del tutto assimilabili alla "maniera" cammaraniana (e non certamente a quella romaniana), anche se con equilibri meno ricercati.
Il San Carlo di Napoli (che tenne o doveva tenere a battesimo entrambe le opere, praticamente contemporanee anche come pensiero e composizione) fu il teatro della svolta di cui parliamo, svolta che condusse la musica di Donizetti (sull'onda dei soggetti "romantici" e nordici) verso quei colori corruschi, tormentati e fiammeggianti che non solo si ritrovano puntualmente in entrambe le opere, ma che in generale hanno reso Donizetti il più rivoluzionario e inquietante compositore d'opera degli anni '30-40.
Fu in questa fase (che è lecito definire "cammaraniana") che Donizetti divenne non solo - come si diceva un tempo - l'anticipatore di Verdi, ma qualcosa di più: la voce "operistica" del lato oscuro del Romanticismo, il cantore "maledetto" delle dissociazioni e dei contorcimenti dell'anima, dei castelli diroccati e delle segrete grondanti umidità dove la coscienza si smarrisce.

Parrà strano - anzi, per certi versi lo è - ma pur avendo una formazione umanistica non ho mai approfondito molto la questione dei librettisti. :oops:
La cosa è tanto più vergognosa :oops: se penso che ho sempre sostenuto la grandezza letteraria dei librettisti romantici (Romani e Cammarano su tutti, ma anche Piave), degni a mio avviso di figurare anche nelle antologie della letteratura italiana, pur con le scopiazzature da Manzoni e Leopardi: "Come rugiada al cespite", da Ernani, è un verso dall'Adelchi; "l'esecrabile vero" di Cammarano è ben più di una reminiscenza leopardiana :) .

Detto questo, mi piacerebbe approfondire la questione Romani - Cammarano.
Secondo voi si può parlare di due maniere, due poetiche diverse? Oppure si trattò di un'evoluzione, da Romani, classicista ma con squarci già romantici o almeno protoromantici, a Cammarano, vero poeta del "lato oscuro" romantico?
Secondo me, si trovano striature "nere" anche in Romani.
La scena finale della Beatrice di Tenda non ha molto da invidiare a certe atmosfere cammaraniane.
Non parliamo poi della Sonnambula e delle sue torbide implicazioni, che per certi versi paiono quasi anticipare Freud e la teoria dell'inconscio: perché Amina, seppure sonnambula, si intrufola nella stanza del Conte?
Nei Puritani, poi, il Romanticismo è già bello presente, con tanto di temporali, castelli dove si aggirano dame in preda alla follia (senza arrivare all'agghiacciante pazzia di Lucia), persino un omaggio alla tradizione medievale trobadorica ("A una fonte afflitto e solo s'assideva un trovator") che mai sarebbe potuta uscire dalla penna di un neoclassico DOC.
Lo confesso: ho sempre trovato Romani un genio. :D
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda Enrico » gio 03 dic 2009, 0:24

Il libretto dei Puritani è del conte Carlo Pepoli (il "Pepoli mio" di Leopardi).
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda Tucidide » gio 03 dic 2009, 0:33

Enrico ha scritto:Il libretto dei Puritani è del conte Carlo Pepoli (il "Pepoli mio" di Leopardi).

Oddio!!!
Che lapsus! :oops:
Chiedo venia! L'ora tarda mi ha fatto scrivere una scemenza! :oops: : Hurted :
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda Enrico » gio 03 dic 2009, 22:39

Indipendentemente dal lapsus , in una discussione su libretti classici e romantici i Puritani dell'amico di Leopardi devono entrare necessariamente.
Sulla questione ho già pronte tante idee, e sto esplorando alcune fonti interessanti.
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda Tucidide » gio 03 dic 2009, 22:50

Enrico ha scritto:Indipendentemente dal lapsus , in una discussione su libretti classici e romantici i Puritani dell'amico di Leopardi devono entrare necessariamente.
Sulla questione ho già pronte tante idee, e sto esplorando alcune fonti interessanti.

Ti ringrazio per aver attenuato l'enormità della mia castroneria. :D
Aspetto con curiosità le tue considerazioni in merito, così come quelle di chiunque vorrà intervenire.
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda Rodrigo » dom 06 dic 2009, 16:27

C'è chi sostiene che i versi di Leopardi possono avere suggerito qualche idea (o una verdiana tinta) a Romani per l'invocazione lunare in Norma, stante anche la vicinanza cronologica tra la pubblicazione dell'edizione fiorentina dei Canti e l'opera di Bellini.
Per parte sua il recanatese ha lasciato un celebre giudizio sulla Donna del Lago da lui vista a Roma.
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda Enrico » dom 06 dic 2009, 20:28

Il mio intervento a proposito della "polemica sul romanticismo" nei libretti del primo Ottocento (ma si dovrà proseguire fino a molti libretti verdiani) comprenderà un buon numero di riferimenti a Leopardi, o meglio a tutto un percorso letterario e poetico che partendo da lontano produce negli sviluppi della linea Mestastasio - Alfieri - Parini - Foscolo - Leopardi quelle forme lessicali e stilistiche che costituiscono poi il punto di partenza, il repertorio, il linguaggio di base di alcuni tra i più famosi librettisti italiani.

Un problema interessante da affrontare è quello delle reciproche influenze, imitazioni, contaminazioni, quando non si tratti di plagi letterari dovuti alla fretta e ad esigenze commerciali.
Non è facile stabilire che cosa si intenda per "originalità" parlando dei poeti ottocenteschi, anche in ambito romantico, se questa originalità sembra spesso contraddetta dal ricorso continuo a elementi tradizionali che risalgono addirittura fino a modelli trecenteschi, dai quali si continuano a prendere parole, versi, formule, frasari già pronti buoni per tutti gli usi.

Se riconosciamo anche nel linguaggio dei librettisti un fondo comune da cui attingono, un repertorio sterminato di situazioni, versi, frasi, aggettivi ricorrenti, sentenze (non solo metastasiane) ricorrenti e spesso quasi interscambiabili, dovremo cercare l'originalità non tanto nella presenza di questi elementi, ma nel modo personale e nuovo in cui ogni autore, se si tratta di vero poeta e non semplice imitatore, li ha utilizzati per i propri fini, con intenzioni nuove, per esprimere qualcosa di proprio o di adeguato agli spiriti della "poesia moderna".

Un primo esempio potrà sembrare lontanissimo dal tema che dovrei sviluppare (il rapporto tra classicismo e romanticismo nei libretti di Romani e Cammarano), ma mi permetterà di trovare i primi solidi riferimenti alla tradizione poetica neoclassica e preromantica, per tornare poi, attraverso il nostro Leopardi, ai lavori di Bellini e Donizetti.

Il primo autore che propongo è un povero poeta settecentesco che già secondo Carducci nessuno citerebbe mai se non per burla; ma leggiamo questi versi:

[…] Col nuovo gregge andrai
Di Maratona a spaziar sul lito
E ne’silenzi de la notte udrai
Squillo di trombe e di destrier nitrito:
ch’ivi pugnano ancor l’ombre sdegnose
de’persi arcieri e de gli astati Achei.
Un cippo a’spenti eroi la patria pose,
l’aligera Vittoria alzò trofei.


Sono parte di un componimento d’occasione dedicato Al Duca di Gustermania per la sua solenne acclamazione in Arcadia dal poeta Dorillo Dafnejo, alias Carlo Gastone della Torre di Rezzonico, morto nel 1796. Inutile dire che il componimento in sé è per noi lettori moderni di una noia evidente e insopportabile.

Ma quando Foscolo, meditando sui sepolcri dei grandi Italiani sepolti in Santa Croce volle mettere in evidenza l’ispirazione morale e civile che si può ricavare dall’esempio degli antichi eroi morti pugnando in difesa della patria, ripensò probabilmente ai versi del Rezzonico (che ai suoi tempi si considerava grande e celebre poeta), e li riprese, spostando e modificando, rielaborandoli per i propri fini:

Ah sí! da quella religiosa pace un Nume parla:
e nutria contro a' Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,
la virtú greca e l'ira. Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l'Eubea,
vedea per l'ampia oscurità scintille
balenar d'elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d'armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all'orror de' notturni
silenzi si spandea lungo ne' campi
di falangi un tumulto e un suon di tube
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a' moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
[Foscolo, Dei Sepolcri]

Non manca nulla: Maratona, il mare, il silenzio della notte, le trombe guerriere (Squilli echeggi la tromba guerriera…), le larve guerriere, eroi greci e persiani, cavalli al galoppo, morte eroica, canto e ricordo perenne: ma il povero Rezzonico rimane per noi un noiosissimo letterato cortigiano di fronte al genio di Foscolo: che, attenzione, non inventa quasi nulla (nei suoi saggi letterari afferma varie volte di aver sempre utilizzato la più pura lingua dei classici trecenteschi), ma riutilizza da par suo gli elementi tradizionali per fini espressivi e poetici moderni.

Non voglio seguire per intero nei secoli la tradizione che ha portato le parole e le frasi fatte trecentesche (in particolare quelle di Petrarca e dei poeti petrarchisti) fino a Metastasio e oltre: molte citazioni verranno fuori spontaneamente quando andremo a cercare le fonti anche vicine dei libretti d’opera dei nostri autori ottocenteschi.

Più facile sarebbe notare l’eredità lessicale del petrarchismo in Foscolo e in Leopardi. Leopardi è un grande poeta, Leopardi è un genio, Leopardi è forse un romantico che non sa di esserlo o non vuole ammetterlo: ma anche nel suo caso la novità, l’invenzione, non risiedono affato nelle scelte linguistiche e spesso nemmeno nei contenuti. Potremmo dire che di ermo colle parlava già un tal Galeazzo di Tarsia (e chi mai se lo ricorderebbe, oggi?), che Passer mai solitario in alcun tetto / non fu quant’io è l’inizio di un sonetto di Petrarca, e così giocando potremmo mescolare espressioni dei due poeti, anzi tre se mettiamo nel calderone anche Dante: Passero solitario, alla campagna cantando vai (Leopardi), vago augelletto che cantando vai (Petrarca), Tu solingo augellin (Leopardi), finché non more il giorno, odi per lo sereno un suon di squilla (Leopardi), s’ode squilla … che paia il giorno pianger che si muore (Dante); e se scriviamo udian greggi belar, mugghiare armenti, il verso non è più di Leopardi ma di Annibal Caro, nella traduzione dell'Eneide: e che fa Leopardi? Cambia udian in odi, impersonale ma che sembra affettuosamente rivolto sia al passero sia al lettore, cambia mugghiare in muggire, alleggerisce il verso, lo fa seguire da un magnifico volo d’augelli, e ne fa un verso che più suo di così non poteva essere: odi greggi belar, muggire armenti, gli altri augelli contenti, a gara insieme per lo libero ciel fan mille giri…

Quel mugghiare che Leopardi scarta, può stare benissimo in altri contesti, in altri versi, con altra musica, per altri fini: io venni in loco d’ogne luce muto, / che mugghia come fa mar per tempesta (Dante); d’antichi fatti certo udisti sonar / dell’Ellesponto i liti, e la marea mugghiar (Foscolo, che forse proseguendo nella composizione dei Sepolcri aveva ancora in mente il lido trovato nei miseri versi del povero Rezzonico).

E vediamo che la dolce famiglia leopardiana si trovava già nei versi d’un tal Forteguerri, che la novella età e l’età verde o l’età mia nova infestano i versi di tutti i grandi e minori e minimi per settecento anni e oltre, e perfino l’età fiorita e il fior degli anni erano già ai tempi di Leopardi espressioni antichissime e ammuffite che torneranno, più o meno lucidate e ripulite, in molti libretti d’opera: se una pudica vergine / degli anni suoi nel fiore…

Se quindi l’originalità non è nel linguaggio, vecchio e tradizionale, la novità sarà da ricercarsi, ripeto, anche nei libretti d’opera, nel modo in cui gli elementi antichi vengono riutilizzati e reinterpretati, o semplicemente riassemblati: non faremo come chi pensa che non possa più esistere musica originale se le note sono solo le sette (o meglio dodici) della scala musicale.

Pensando a qualche esempio tratto da libretti d’opera mi è venuto in mente il Cammarano del Trovatore:

Tacea la notte placida
E bella in ciel sereno
La luna il viso argenteo
Mostrava lieto e pieno
Quando suonar per l’aere
Infino allor sì muto
Dolci s’udiro e flebili
Gli accordi fi un liuto
E versi melanconici
Un trovator cantò


Tacea la notte placida
Placida notte e verecondo raggio della cadente luna… (Ultimo canto di Saffo, di Leopardi: e cosa mai ci sarà nella Saffo di Cammarano?)
C’è anche in Leopardi la placida notte, così come a Natale si canta ancora “In notte placida” attribuendolo a Couperin, ma già Leopardi che attribuisce la verecondia alla luna ha trovato la stessa idea nei versi di Monti, il più famoso dei poeti del primo Ottocento (e quindi anche il più imitato), che prima ho dimenticato di citare (insieme al fratellino minore Pindemonte). Leggiamo altri versi:

Alta è la notte, ed in profonda calma
dorme il mondo sepolto, e in un con esso
par la procella del mio cor sopita.
Io balzo fuori delle piume, e guardo;
e traverso alle nubi, che del vento
squarcia e sospinge l’iracondo soffio,
veggo del ciel per gl’interrotti campi
qua e là deserte scintillar le stelle.
Oh vaghe stelle!
...

Ecco qui: potrebbe sembrare Leopardi, e invece è Monti, il classicissimo Monti!

Ma torno a Cammarano: il viso argenteo della luna c’era già nei versi di Romani (quando il suo viso argenteo / la nuova luna sveli), ma le campagne inargentate ed acque sono anche di Leopardi (Il tramonto della luna): Casta diva che inargenti / queste sacre antiche piante scrive Romani; ma ricordo anche Vaga luna che inargenti / queste rive questi fiori (di chi sono questi versi?); e quel viso della luna, lieto e pieno: quale ne’plenilunii sereni / Trivia ride tra le ninfe eterne (Dante!); e quel canto misterioso e lontano nel silenzio della notte:

Dolce e chiara è la notte e senza vento…
posa la luna… rivela serena ogni montagna…
Per la via odo non lunge il solitario canto…

...
Io doloroso in veglia/ premea le piume ed alla tarda notte / un canto che s’udia per li sentieri / lontanando morire a poco a poco…

Sono arrivato per queste strane vie a La sera del dì di festa: non è un caso, perché dai versi di Leopardi deriva l’ingresso inquieto e trepidante del Conte di Luna:

Tace la notte! immersa
Nel sonno, è certo, la regal Signora;
Ma veglia la sua dama...
Oh! Leonora,
Tu desta sei; mel dice,
Da quel verone, tremolante un raggio
Della notturna lampa...
Ah! l'amorosa fiamma
M'arde ogni fibra!...


Torniamo a Leopardi:

Dolce e chiara è la notte […] O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno.


È vero che in Cammarano dorme la regal Signora, mentre Leonora è ben desta: ma le derivazioni stilistiche mi sembrano evidentissime.

Gli esempi e le citazioni potrebbero moltiplicarsi all’infinito: ma chiudo qui questo primo capitolo, che a questo punto sarà soltanto l’introduzione al discorso vero e proprio sui libretti di Felice Romani e di Salvatore Cammarano (passando per I Puritani del conte Carlo Pepoli).
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda Enrico » dom 06 dic 2009, 23:08

Uno dei maestri di Felice Romani, tal Solari, convinto e deciso classicista lodato dal Monti come traduttore di Orazio, aveva stabilito che nelle traduzioni ad ogni verso dell’originale dovesse corrispondere un solo verso italiano: seguendo tal principio un certo Pietro Bagnoli di Sanminiato aveva provato a tradurre tutta l’Eneide in endecasillabi, e poi, nel 1821, aveva pubblicato un lungo poema intitolato Cadmo; anche lui buon classicista che, non ottendendo il successo sperato, finì per “impazzarne”.

Trovo questa notizia nel volume L’Ottocento (1934, ristampa 1949, in due tomi), di Guido Mazzoni, nella Storia Letteraria d’Italia dell’editore Vallardi, da cui traggo anche molte delle notizie seguenti.
A parte il riferimento a quel tal Pietro Bagnoli, che andò costantemente ma invano alla ricerca di “un tema nuovo”, notiamo che il nostro Romani, genovese, proveniva da solida e rigorosa educazione classica. Altro suo maestro fu Marco Faustino Gagliuffi, capace di improvvisare versi latini e autore appunto di opere in latino.

Frequentando prima tali maestri, e poi a Milano il cavalier Vincenzo Monti, il nostro Romani cominciò a scrivere e comporre, ottenendo le prime commissioni per libretti e drammi teatrali.
Nel 1834 lo troviamo a Torino, nominato da Carlo Alberto direttore della Gazzetta Ufficiale.
In una lettera a Cavour, nel 1839, scriveva: «Io non sono né classico né romantico; amo il bello e l'ammiro ove c'è»: ma seguace del Monti non nascondeva le proprie simpatie per l’arte desunta dagli antichi contro quella tentata dai moderni.

Criticò aspramente sia I Lombardi alla Prima Crociata (il poema di Tommaso Grossi, da cui molto trasse Solera per Verdi) sia, nel 1827, i Promessi Sposi di Manzoni; e lodò invece la Callomazia di un tal Bernardo Bellini perché l’autore “non fu trascinato dal torrente che rapisce la maggior parte dei poeti moderni; e non pose in non cale né i classici greci e latini né i padri dell’Italiana Poesia; non si diede al libertinaggio che ha per guida il capriccio, e per assioma: s’ei piace, ei lice”.

Nei fatti il Romani fu “contrariamente a’suoi propositi e alle sue affermazioni, un favoreggiatore del Romanticismo: basta scorrere la serie de’suoi melodrammi, che son circa novanta” (Mazzoni).

T.Mamiami nel 1844 affermava di non capire le ragioni del successo dei versi di Romani (la cui fama contrapponeva a quella di Giordani e di Leopardi): “Che novità, ceh forza, che squisitezza trovano ne’suoi versi?”. Un altro rigido classicista, Ranalli, sosteneva che Felice Romani aveva riempito il teatro di stranezze, di nullità, di parolacce prosaiche e di versi senza armonia. Perfino nel 1853 un tal Francesco Capozzi scrivendo contro il Romani gli consigliava di “virgolare” tutti i suoi versi, che così nel canto sarebbero stati omessi. Da ciò si vede come il nostro classicista non fosse stimato proprio da molti che si dichiaravano classicisti.

Le prime opere furono nel 1813 La rosa bianca e la rosa rossa (tema sentito già come “moderno”) e Medea in Corinto (mito greco!). Nel 1814 Aureliano in Palmira (argomento romano!) per Rossini; Bianca e Falliero nel 1820 per Rossini (traendo l’argmento da Niccolini e D’Arnaud) e, attenzione, La sacerdotessa d’Irminsul che molto potrebbe incuriosirci, dal momento che, dopo Medea, rappresenta la più probabile antenata di Norma. Dopo un Amleto per Mercadante tratto da un’opera di Ducis, e dopo una Francesca da Rimini, arrivano i tanti titoli importanti e famosi composti per Bellini e Donizetti. L’ultimo suo libretto fu nel 1855 una Cristina di Svezia per Thalberg (curioso questo richiamo, consapevole o meno, a fine carriera, alla madre fondatrice e ispiratrice dall’antica accademia d’Arcadia, e di conseguenza di tutti i melodrammi di stampo metastasiano del ‘700!).

Le fonti a volte sono facilmente ricavabili dai titoli stessi, ma come tanti librettisti anche Romani tendeva a utilizzare e riciclare tutto ciò che potesse fargli comodo: drammi, poemi, romanzi, libretti altrui, e nel far ciò diede spesso false indicazioni per sviare i critici o per sfuggire a cause giudiziarie come quella intentatagli da Victor Hugo per la Lucrezia Borgia, che dovette per questo più volte mutare titolo e casato trasformandosi perfino in Eustorgia da Romano o Giovanna di Napoli, per citarne solo due tra i tanti. Scott, Byron, Hugo, Dumas sono alcuni degli autori da lui sfruttati: e tutti ben poco classici.
Già gli argomenti scelti, con le loro fonti, secondo Mazzoni, che cita anche l’autorità di un musicista come Pacini, servirono a favorire lo sviluppo di un romanticismo musicale: perché le novità del libretto, negli argomenti e nelle parole, spingono il compositore a cercare e trovare nuove forme.

Nel melodramma in generale il rispetto delle regole classiche, a partire dall’unità luogo e di tempo, era quasi impossibile: l’unità di luogo spesso non c’è per nulla, quella di tempo a volte c’è solo in apparenza: “A mala pena, dunque, egli restava classicista per le apparenze esterne; nella sostanza era costretto a militare in favore di quei Romantici che sempre peggio con gli articoli critici andava o pungendo o mordendo” (Mazzoni, tomo II, p.839).

Lodato da Monti fin dal 1816, divenne, come sappiamo il librettista preferito di Bellini: gli si riconosceva non tanto una bravura “drammatica”, nella quale era ritenuto inferiore agli autori di teatro e allo stesso Metastasio, quanto la capacità di trovare parole, frasi, espressioni adatte all’essere poste in musica: all’opposto del giudizio quasi tutto negativo che Bellini espresse sul povero Pepoli.

“Il Cammarano, che gli si affermò discepolo, qualche volta lo saccheggiò”, scrive Mazzoni: purtroppo non fornisce esempi, spero di trovare un po’ di tempo per andare a cercarne qua e là nei libretti, a parte il “viso argenteo” che Norma ha prestato al Trovatore.

Tra i drammi giocosi degni di attenzione, oltre a L’elisir d’amore, Mazzoni cita Un’avventura di Scaramuccia: ne riconosce il brio, ma dice che quelli di Gherardini hanno maggiori pregi letterari, e quelli di Ferretti maggiore comicità.

Ciò che Mazzoni fa notare, dopo aver dedicato una mezza pagina anche al povero Pepoli, è l’avvenuta trasformazione del melodramma da genere tipicamente classico (Zeno, Metastasio) a prodotto decisamente romantico: conclude raccontando che “il buon Ferretti”, nel 1831, scrisse un poemetto in ottave contro la nuova scuola romantica, ma permise che il suo Corsaro, scritto per Pacini, venisse definito nel frontespizio <<melodramma romantico>>: “Il Classicismo dovè, non più per vincere, ma per vivere, tentar d’assimilarsi il meglio che potesse dagli esempî pratici del Romanticismo”
Ultima modifica di Enrico il lun 07 dic 2009, 3:34, modificato 1 volta in totale.
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda Tucidide » lun 07 dic 2009, 0:39

Enrico ha scritto:Uno dei maestri di Felice Romani, tal Solari, convinto e deciso classicista lodato dal Monti come traduttore di Orazio, aveva stabilito che nelle traduzioni ad ogni verso dell’originale dovesse corrispondere un solo verso italiano: seguendo tal principio un certo Pietro Bagnoli di Sanminiato aveva provato a tradurre tutta l’Eneide in endecasillabi, e poi, nel 1821, aveva pubblicato un lungo poema intitolato Cadmo; anche lui buon classicista che, non ottendendo il successo sperato, finì per “impazzarne”.

:D A parte l'omonimia con il Grande Capo, mi stupisce questa cosa: :shock: far corrispondere ad un esametro latino un endecasillabo italiano. Sarà stata una lingua assai brachilogica...

Enrico, complimenti per la messe straordinaria di documentazione che ci offri. Per caso, la diatriba classicisti / romantici dei primi del XIX secolo è uno dei tuoi argomenti preferiti? :) Le tue competenze sono sterminate!
Mi occorrerà un po' per assimilare tutte le notizie che ci hai fornito. Prometto di ritornare sull'argomento quando avrò trovato qualcosa da dire a riguardo. : Thumbup :
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda MatMarazzi » ven 11 dic 2009, 1:53

Caro Enrico,
premetto che concordo in partenza sul fatto che stabilire la "romanticità" di Romani o il "classicismo" di Cammarano sia un esercizio molto faticoso, e forse anche inutile. Troppo sono le interrelazioni, le contraddizioni, le aperture a una o all'altra scuola.
Il fatto è che entrambi sono romantici; entrambi sono classici (potremmo dire lo stesso di quasi ogni poeta italiano del periodo), come tu hai dimostrato benissimo.

Quello che conta (e che avevo scritto nel thread su Lucia e da cui Tucidide è partito per aprire il presente) è investigare la natura specifica dell'uno rispetto all'altro, le diversità di stile, le rispettive novità che hanno impresso al modo di fare libretti nei loro anni.
Tucidide, almeno così mi pare, ha frainteso il mio concetto.

Se uso la parola "classicismo" nei confronti di Romani non è certo perché non lo consideri un Romantico.
Lo era! Altroché se era Romantico!
E' stato il primo grande librettista romantico italiano.
Il suo però era un romanticismo diverso da quello (innovativo) che sfoderò Cammarano qualche anno dopo.
Quello di Romani era, per me, un romanticismo più ...classicheggiante, che si esaltava nelle proporzioni, nelle euritmie.
Constable contro Turner, per intenderci...

Il modo in cui Romani concepiva l'azione teatrale, il suono e lo stimolo ritmico del verso (pur all'interno di un tracciato già romantico) è solennemente affrescato, curato nelle proporzioni, negli equilibri, nei chiaroscuri, nelle sue grandi architetture.
I tempi si dilatano, con Romani, in funzione del volo che il compositore prenderà, sulle ali del "sublime". Il suo è un romanticismo dai campi lunghi, che ama gli spazi, le grandi foreste, gli ampi saloni, i panorami alpini e soprattutto che è dominato da un senso di ordine, di compostezza, fin nel recitativo o nell'uso dei versi, che sono lunghi e dilatati, dal respiro lento, ricchi di enjambements
Se leggi "Al dolce guidami" capisci subito non è un banale cantabile in quinari, come parrebbe:

Al dolce guidami
castel natio,
ai verdi platani,
al queto rio,
che i nostri mormora
sospiri ancor.
Colà, dimentico
de' corsi affanni,
un giorno rendimi
de' miei primi anni,
un giorno solo
del nostro amor.

Nascosto lì, ci trovi un vero e proprio endecasillabo (il primo quinario sdrucciolo diventa un senario, che unito al quinario piano o tronco che segue, produce l'effetto di un endecasillabo rolliano).
E l'endecasillabo come sai era bandito dai brani lirici dei libretti d'opera (perché riservato al recitativo).
E invece Romani lo recupera, sia pure travestendolo, per dare al canto di Anna un senso di infinitezza sublime, eppure raccolta, ipnotica.
E Donizetti lo capisce bene. E non si fa scappare l'occasione di comporgli sopra quella melodia incantata che tutti conosciamo, che si adagia lunga e struggente su tutto l'arco del verso.
La tesi è confermata dal fatto che i versi dispari (1-3-5-7) non sono in rima fra loro, riservandosi le rime solo ai versi pari (2-4-6-8).

Al dolce guidami castel natio,
ai verdi platani, al queto rio,
che i nostri mormora sospiri ancor.
Colà, dimentico de' corsi affanni,
un giorno rendimi de' miei primi anni

Quale altro librettista dell'epoca avrebbe osato un simile verso, così ampio, sfinito, struggente!
Questo è ciò che intendo quando parlo di "classicismo" di Romani.
Il senso della vertigine (romantica) è da Romani ricomposto in ampiezze controllate, squarci di natura maestosi ma non selvaggi, senso della sfumatura e del trapasso chiaroscurale, brivido dell'infinito ma solo al di là di "quella siepe".

Cammarano è a sua volta un romantico (è vero) ed è a sua volta sensibile alla lezione dei classici (anche questo è vero), ma il suo stile - almeno a partire dalla metà degli anni '30 - è diverso.
Il suo verso non è assaporato, composto, inglobante, ma aggressivo, ritmato, aggettante: stimola i compositori allo slancio, al paradosso, alla rincorsa.
Proprio i versi da te citati del Trovatore (quando, non dimentichiamolo, era un Cammarano già declinante e incline al manierismo) lo attestano:

Tacea la notte placida
E bella in ciel sereno
La luna il viso argenteo
Mostrava lieto e pieno
Quando suonar per l’aere
Infino allor sì muto
Dolci s’udiro e flebili
Gli accordi fi un liuto
E versi melanconici
Un trovator cantò

Sono normali settenari, ma il prevalente ritmo giambico (e l'alternanza di versi sdruccioli e piani) costringe Verdi a un cantabile bellissimo, ok, ma pur sempre a "rincorsa", dove ogni frase musicale pare slanciarsi a partire dalla precedente, anche perché ogni verso è un blocco di concetto.
Il personaggio non si "placa" in una sublime meditazione, come farebbe con Romani, ma palpita, freme, assale, partecipa alla storia che narra e rivive.
Bellini e Romani, a leggere questi versi, si sarebbero guardati in faccia perplessi.... ma che cantabile è questo? Sembra una cabaletta...
Vuoi un vero cantabile? Beccati questo:

Come per me sereno
Oggi rinacque il dì!
Come il terren fiorì
Più bello e ameno!
Mai di più lieto aspetto
Natura non brillò;
Amor la colorò
Del mio diletto.

Questo è un cantabile! Due quartine di settenari (uno piano e due tronchi), alleggerite da un quinario di profumo saffico (che unito al precedente evoca ancora una volta l'endecasillabo). La stessa alternanza delle rime (ABBa CDDc) da un senso di stabilità, raccoglimento, di completezza...
Di (se mi concedi l'espressione) emozione misurata, dominata, circoscritta.
Altro che la corsa a perdifiato di "Tacea la notte placida".
Ma prendi questo...

Com'è bello! Quale incanto
In quel volto onesto e altero!
No, giammai leggiadro tanto
Non sel pinse il mio pensiero.
L'alma mia di gioia è piena,
Or che alfin lo può mirar ...
Ma risparmia, o ciel, la pena
Ch'ei mi debba un dì sprezzar.

Dentro al personaggio (Lucrezia Borgia) si agitano sentimenti sconquassanti... fuori invece, nella purezza statica del verso, tutto si ricompone in un tale equilibrio e semplicità di esposizione che il povero Donizetti si vede costretto a sfoderare arpe angeliche e una delle sue melodie più dolci e sfumate.
L'inferno con Romani si intuisce, lo si intravede, lo si percepisce con orrore sotto la compostezza maestosa della superficie!
Con Cammarano no: l'inferno si mostra, fiammeggiante e sfacciato; gli orrori sono espliciti ed erompono provocatori.

Regnava nel silenzio
Alta la notte e bruna...
Colpìa la fonte un pallido
Raggio di tetra luna...
Quando sommesso un gemito
Fra l’aure udir si fe’,
Ed ecco su quel margine
L’ombra mostrarsi a me!

Di nuovo una corsa, una progressione, una vocazione allo squilibrio, al dissesto.

Romani lavora le sue psicologie nel profondo, tratta i sentimenti nella loro complessità più freudiana e inquietante (la Bolena è un capolavoro in questo senso), ma lo fa senza permettere loro di ermompere, di scagliarsi fuori, sconvolgendo la grandiosità della struttura.
Per Cammarano invece la stessa struttura narrativa coincide con l'eruzione. I personaggi si contorcono, si estremizzano, si rivoltano.
I loro sentimenti più contraddittori li spaccano ed escono fuori.
Sarà per questo che la "pazzia" per antonomasia è quella di Lucia? E non i grandiosi precedenti romaniani di Amina, Imogene, Anna?

Le tue interessantissime citazioni paiono darmi ragione:

In una lettera a Cavour, nel 1839, scriveva: «Io non sono né classico né romantico; amo il bello e l'ammiro ove c'è»


Il bello...
Ossia il misurato, il proporzionato, il saldamente strutturato...

lodò invece la Callomazia di un tal Bernardo Bellini perché l’autore “non fu trascinato dal torrente che rapisce la maggior parte dei poeti moderni; e non pose in non cale né i classici greci e latini né i padri dell’Italiana Poesia; non si diede al libertinaggio che ha per guida il capriccio, e per assioma: s’ei piace, ei lice”.


Cosa aggiungere? E' detto tutto...

Già gli argomenti scelti, con le loro fonti, secondo Mazzoni, che cita anche l’autorità di un musicista come Pacini, servirono a favorire lo sviluppo di un romanticismo musicale: perché le novità del libretto, negli argomenti e nelle parole, spingono il compositore a cercare e trovare nuove forme.


Come ho già detto, io non ho affermato che Romani non fosse un romantico. Lo era. Lo ho dichiarato plurime volte anche in passato su questo forum.
Quindi ti dò ragione (e dò ragione al Mazzoni) nell'inserirlo fra i padri di questa temperie librettistica.
Ho solo detto che il suo era un romanticismo di un certo tipo, sicuramente non nero, sconvolto, satanico. Non certo "byroniano". Non "turneriano".

Nel melodramma in generale il rispetto delle regole classiche, a partire dall’unità luogo e di tempo, era quasi impossibile: l’unità di luogo spesso non c’è per nulla, quella di tempo a volte c’è solo in apparenza:


Qui però Mazzoni mi pare mescoli concetti non del tutto assimilabili.
Il classicismo (o neoclassicismo) primo ottocentesco non era tale per l'osservanza alle regole e unità aristoteliche (che furono i francesi a imporre al teatro moderno, più che il povero "ipse dixit").
Quello delle regole e delle unità era un problema "pratico" su cui si erano scannati nel 500 e nel 600... Già nel 700 era diventata una questione oziosa.
I "classicisti" dell'800 ormai se ne fregavano della Unità e puntavano piuttosto a una "distanza" emotiva dalla narrazione; a una perfezione di forme e di equilibri che, secondo loro, li avvicinava spiritualmente agli "antichi".

Ciò che Mazzoni fa notare, dopo aver dedicato una mezza pagina anche al povero Pepoli, è l’avvenuta trasformazione del melodramma da genere tipicamente classico (Zeno, Metastasio) a prodotto decisamente romantico:


Ecco. Questo è proprio l'inghippo che denunciavo prima.
Mazzoni confonde l'osservanza alle "regole" (dei francesi e dei nostri poeti riformati, i sedicenti "arcadi") con il Classicismo.
Ma Zeno e Metastasio, seppur rispettosi delle "regole" (detti per questo "infranciositi") non possono essere definiti "classicistici" e non certo in senso ottocentesco, per la semplice ragione che in loro non agiva alcun culto per l'Antico (come invece nei nostrani pre-romantici).
Ma questo sono quisquilie.
Ciò che conta è grazie alla ricchezza dei tuoi interventi, delle tue riflessioni e citazioni, abbiamo l'occasione di ragionare insieme su questi affascinantissimi problemi.

Salutoni,
Mat

PS
Enrico ha scritto:A parte il riferimento a quel tal Pietro Bagnoli, che andò costantemente ma invano alla ricerca di “un tema nuovo”

Ed è quell' "invano" che lo distingue dal nostro... ;)
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda Enrico » ven 11 dic 2009, 3:21

MatMarazzi ha scritto: Mazzoni confonde l'osservanza alle "regole" (dei francesi e dei nostri poeti riformati, i sedicenti "arcadi") con il Classicismo.
Ma Zeno e Metastasio, seppur rispettosi delle "regole" (detti per questo "infranciositi") non possono essere definiti "classicistici" e non certo in senso ottocentesco, per la semplice ragione che in loro non agiva alcun culto per l'Antico (come invece nei nostrani pre-romantici).
Ma questo sono quisquilie.
Ciò che conta è grazie alla ricchezza dei tuoi interventi, delle tue riflessioni e citazioni, abbiamo l'occasione di ragionare insieme su questi affascinantissimi problemi.


Forse la colpa è anche un po' mia, perché ho cercato di sintetizzare le notizie trovare nei due dotti tomi del Mazzoni mescolandole ai riferimenti foscoliani e leopardiani e ai versi cammaran-romaniani che mi venivano in mente spontaneamente. Nel frattempo aspettavo che qualcuno come te intervenisse a ravvivare la discussione prima che diventasse un mio vano soliloquio; e intendevo continuare con l'esame di altri libretti che non fossero legati soltanto a Donizetti o Bellini (o Verdi): ma tra riunioni a scuola e compiti da correggere non ho più avuto tempo né forze (per non parlare della Carmen scaligera dalla quale siamo stati tutti un po' distratti).

La questione del classicismo, o meglio del neoclassicismo tra Settecento e Ottocento, ha messo in difficoltà molti miei alunni, che consideravano già classicisti gli arcadi e Metastasio (dei quali, tuttavia, hanno avuto solo brevi e scarse notizie; né s'intendono d'opera e di musica) e non riuscivano a comprendere perché altri, dopo di quelli, venissero considerati neo-classici.
Ho cercato di semplificare il problema dicendo che il classicismo settecentesco è più formale che di contenuti: si reagisce al barocco, si ritorna allo stile semplice misurato proporzionato, si ragiona su emozioni e sentimenti snocciolando sentenze della vecchia sana tradizione, e si utilizza a scopo decorativo tutto l'armamentario mitologico tradizionale. So bene che detta così la semplificazione è eccessivamente riduttiva: ma devo tentare di farmi capire dai giovani d'oggi e di domani!
Con quelli che chiamiamo neoclassici e che spesso sono etichettati anche come pre-romantici il discorso è diverso: non solo Foscolo, ma anche Monti e Pindemonte, e quindi poi i nostri librettisti, e perfino Leopardi, che rinuncia quasi del tutto alla mitologia, riscoprono della classicità non tanto le forme, sempre sopravvisute e sempre presenti e in vario modo rielaborare e riciclate, quanto lo spirito, i valori, la visione del mondo e dell'uomo: e così, spesso con lo stesso materiale linguistico della vecchia tradizione e della vecchia Arcadia, esprimono in vario modo il loro mondo nuovo.

Sarebbe allora interessante vedere come nell'opera, oltre alle varie manifestazioni di "classicismo romantico" presenti nei nostri librettisti, si realizza o si riflette questa trasformazione anche negl aspetti musicali, da Bellini a Donizetti, da Pacini a Mercadante, da Spontini al giovane Verdi. Certamente possiamo circoscrivere il discorso e limitarlo agli esempi più significativi: ma sarebbe bello riuscire a comprendere i possibili rapporti tra i diversi autori anche partendo dalla considerazione che i versi di uno stesso Romani funzionano e suonano diversamente con la musica di Bellini o di Donizetti, e quelli Cammarano non producono certo gli stessi effetti se le musiche sono scritte da Pacini (Saffo, per esempio) o da Verdi: nemmeno quando alcuni libretti in parte riprendono situazioni e schemi apparentemente quasi uguali (come nel caso di Lucia e di Leonora, anche se una notte è placida e l'altra è bruna, una luna è tetra e pallida e l'altra è lieta e piena).
Ma l'ora è tarda, l'aere è fosco, il cielo è muto, tu canterai sul tuo liuto, in sonno placido io dormirò. : Chessygrin :
Enrico B.
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda pbagnoli » ven 11 dic 2009, 7:18

Enrico ha scritto: Ma l'ora è tarda, l'aere è fosco, il cielo è muto, tu canterai sul tuo liuto, in sonno placido io dormirò. : Chessygrin :

Beati voi!
Perdonate l'OT (non ho saputo resistere), ma io non ho dormito una fava :(
E scusate il francesismo...
"Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi!"
(Arturo Toscanini, ai musicisti della NBC Orchestra)
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Re: Romani e Cammarano

Messaggioda Tucidide » ven 11 dic 2009, 10:01

MatMarazzi ha scritto:Quello che conta (e che avevo scritto nel thread su Lucia e da cui Tucidide è partito per aprire il presente) è investigare la natura specifica dell'uno rispetto all'altro, le diversità di stile, le rispettive novità che hanno impresso al modo di fare libretti nei loro anni.
Tucidide, almeno così mi pare, ha frainteso il mio concetto.

[/quote]
Beh, caro Matteo, io ero partito proprio da una domanda concettuale che ammetteva appunto fra le opzioni di risposta quella che hai fornito tu. :)
Due maniere diverse, caratterizzate da stili e sensibilità differenti, che si ripercuotono anche sulla versificazione, come hai benissimo evidenziato.
Grazie mille a te e ad Enrico per i contributi. :)
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
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