I ruoli Colbran

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Re: I ruoli Colbran

Messaggioda beckmesser » lun 15 feb 2010, 14:02

MatMarazzi ha scritto:E siamo noi che, alla luce di tali questioni, forziamo la "nota", la "scrittura", il "suono" per farvelo aderire a tutti i costi.
Ci pare talmente importante che Elisabetta sia cattiva e che Elena sia buona, da pensare che persino la scrittura rossiniana diverga, mentre non è così.
Se noi fossimo in grado di vedere la vera "costante" fra i ruoli Pasta o fra i ruoli Colbran, capiremmo che le distinzioni da noi operate sono solo fuorvianti... e ci conducono a travisamenti, forzature, tradimenti del personaggio.


Anche a me il cd della DiDonato fa sorgere buone speranze (per quanto si può capire da un recital) circa il prossimo futuro di questi ruoli, eppure mi ha anche confermato alcuni dubbi che già avevo su quella che chiami la “costante Colbran”, o meglio sul fatto che esista davvero una “costante Colbran”. Non mi riferisco alla scrittura vocale (in questo senso tutti i ruoli hanno di certo caratteristiche comuni), quanto piuttosto al profilo psicologico di quei ruoli. Provo a spiegarmi, anche se non è semplice.

Una cosa che mi ha sempre incuriosito è il diverso esito che le opere del Rossini napoletano hanno avuto. Voglio dire: ci troviamo di fronte al curioso caso per cui una decina di opere sono state composte in un periodo tutto sommato breve, tutte in un’ottica stilistico espressiva simile, con cast sostanzialmente simili, andate in scena davanti allo stesso pubblico, eppure con risultati diversissimi; alcune ebbero un successo delirante (Elisabetta, Otello, Armida, Mosè, anche Donna del lago, seppure non immediato), altre o caddero miseramente (Ermione) o comunque ebbero notevoli problemi (Maometto II). Perché? Non è certo questione di diversa qualità. Né mi convince la solita tesi che Ermione e Maometto erano troppo avanzate per il pubblico retrogrado di Napoli: un pubblico in grado di fare furore per le novità di Elisabetta era perfettamente in grado di capire Ermione. Io ho il dubbio che forse il problema era proprio la Colbran; che forse nemmeno lei era in grado di venire a capo di tutti i ruoli-Colbran.

Se si guardano le opere che ebbero successo (Elisabetta, Otello, Mosè, Zelmira), si tratta di opere in cui la protagonista ha caratteri ben definiti: personaggi decisi, accentratori, vincenti, autocompiaciute, tutto sommato lineari nelle loro evoluzioni psicologiche, nel bene o nel male, in effetti molto:

MatMarazzi ha scritto:dinamica signora-manager, appena uscita, tutta pimpante, da una palestra o da un parrucchiere per ricche signore, col pc in borsetta, seguita con devozione e solo apparente complicità dalla segretaria.
Un raggio di sole nel Rossini serio....


Ermione, Anna Erisso sono all’opposto (non vocalmente): personaggi dilaniati, incerti, “piccoli” nelle loro incertezze. Semiramide, per mio conto, fa un po’ casa per conto proprio, anche perché mi sembra che tutta l’opera abbia un diverso “posizionamento” storico, ma questo è altro discorso…

Schematizzando, mi sembra che gli esiti dei diversi approcci interpretativi un po’ riflettano questa ripartizione. Tralasciando le belcantiste “pastiane” (Sutherland, Caballé, la stessa Callas) che anche a me sembrano lodevoli eccezioni, mi sembra che quasi sempre le diverse artiste siano riuscite ad ottenere discreti risultati solo in uno dei due gruppi.

La Anderson, tanto per dire, mi ha sempre convinto nei ruoli del primo gruppo: Elcia, Desdemona, Elena (non so se abbia fatto Elisabetta, ma credo sarebbe stata notevole), mentre la sua Anna mi lascia perplesso. Non so se abbia cantato Ermione, ma non credo avrebbe (abbia?) ottenuto grandi risultati.

Se prendiamo invece una Gasdia, non mi convince nei ruoli “Colbran-riusciti” (improponibile la sua Armida) mentre la sua Ermione discografica ha una sua fisionomia e la sua Anna Erisso alla Scala la ricordo con emozione: quel suo lanciarsi in una vicenda più grande di lei fino ad esserne schiacciata era efficacissimo.

L’Antonacci, Ermione somma, in Elisabetta mi lascia perplesso: ok, forse era solo troppo presto, ma insomma…

La stessa Ganassi, che mi parve Elisabetta miserrima, come Ermione ha trovato un approccio interessante: da piccola donna tenuta in disparte e piena di livorosa voglia di vendetta…

La DiDonato mi sembra non smentisca lo schema: mi convince moltissimo nei ruoli “Colbran-riusciti”. Splendide Elisabetta, Armida, Elena, Desdemona. Molto interlocutoria Anna: e sì che canta solo la preghiera… E, come Ermione, non riesco proprio a vederla.

Insomma, a me pare che il quid-Pasta (che poi è il quid-Pasta-Bellini) così come il quid-Ronzi (che poi è il quid-Ronzi-Donizetti) lo si è potuto trovare in quanto ne esistevano le basi: si trattava di opere in cui la stessa artefice aveva mostrato di aver trovato la propria fisionomia. Il quid-Colbran (che è poi il quid-Colbran-Rossini) secondo me esiste in alcuni dei ruoli per lei scritti da Rossini. In altri, come spesso avviene quando un “creatore” (sia esso compositore, autore teatrale, regista cinematografico) espressamente “crea” per un dato interprete, la maionese è impazzita e ha generato un “quid” diverso, a cui lo stesso interprete destinatario non riesce a far fronte completamente. Nei ruoli del primo gruppo, secondo me la DiDonato avrà molto da dire. Nei secondi, secondo me, no. Ma magari mi sbaglio…

Saluti,

Beck

PS: evidentemente la Colbran stimola le lenzuolate... sorry.
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Re: I ruoli Colbran

Messaggioda Triboulet » lun 15 feb 2010, 17:38

MatMarazzi ha scritto:Ecco... la Callas dell'epoca avrebbe certamente fatto vivere questi personaggi, scovato la loro verità, giù dal piedistallo.
Ma, caro Triboulet, conveniamo che stiamo parlando di sogni.
Chi le avrebbe potuto offrire, all'epoca, la possibilità e soprattutto il "tempo" per un simile approfondimento?
In fondo la sua rivoluzione più importante (la definizione dei ruoli "Pasta") si è retta sulla popolarità di opere come Norma e Sonnambula, che tutto il mondo era disposto a programmare.
Già di Bolene ne ha fatta solo una...
Forse all'epoca noi stessi avremmo ritenuto uno spreco che ...la più grande Violetta del Novecento perdesse il suo prezioso (e poco) tempo con opere poco note.


Sul fatto che il pubblico l'avesse ritenuto uno spreco non credo... del resto la Callas li aveva abituati bene a titoli fino ad allora mai sentiti o sentiti pochissimo. E poi non dimentichiamoci che la diva dell'epoca, la Sutherland, cantava Beatrice e Semiramide alla Scala, ovvero quel che avrebbe dovuto cantare la Maria, se avesse voluto. Proprio in quel periodo (gli anni 60) stava esplodendo sul serio la moda della "riscoperta", e c'era tutto un mondo sotterrato di titoli meravigliosi che la gente non aveva mai ascoltato. Io penso ci fosse molta curiosità in giro, più di oggi....
E sì, poi non ebbe tempo, preferì dedicarsi ad altro (scelte personali sulle quali credo nessuno possa entrare nel merito), ma penso che il mondo fosse pronto ad una Callas-Colbran, e lei anche. Semmai non ce la vedo a cantare Donizetti, forse perchè sono troppo legato alla visione genceriana (che reputo seminale) e sono convinto che la Callas non avrebbe mai potuto cantare come la Gencer.
Sul come sarebbe stata una Callas-Colbran seconda maniera, beh io ho postato due brani prima, non certo per dimostrare che la Callas cantasse Semiramide come Cenerentola (che poi con la Colbran non centra manco nulla), ma per sottolineare come, prendendo come punto di riferimento (in mancanza d'altro) la "voce" di Angelina come quella di un personaggio rossiniano "della porta accanto", la Semiramide callasiana (o meglio quel che si può intuire dall'aria) si cominci ad avvicinare a questa visione umanizzata, senza peraltro perderne il senso di grandezza. Come si è detto, è un po' la stessa evoluzione che è toccata a Medea o Lady Macbeth. Purtroppo un'Armida anni 60 della Callas non ce l'abbiamo...


secondo me invece i ruoli "pasta" non presentano affatto una scrittura diversa, e nemmeno i ruoli Colbran
Siamo noi che, perdendo di vista il mondo che sta dietro alle note, ci attacchiamo a questioni che a noi sembrano importanti (mentre non lo sono) come l'opposizione buona-cattiva (Elena-Armida) o tragica-elegiaca (Norma-Sonnambula).
E siamo noi che, alla luce di tali questioni, forziamo la "nota", la "scrittura", il "suono" per farvelo aderire a tutti i costi.
Ci pare talmente importante che Elisabetta sia cattiva e che Elena sia buona, da pensare che persino la scrittura rossiniana diverga, mentre non è così.
Se noi fossimo in grado di vedere la vera "costante" fra i ruoli Pasta o fra i ruoli Colbran, capiremmo che le distinzioni da noi operate sono solo fuorvianti... e ci conducono a travisamenti, forzature, tradimenti del personaggio.
Poi.. che queste forzature, tradimenti e travisamenti possano anche sortire grandi interpretazioni (la Dessay come Amina) è vero.
Chi è Amina... cosa si cela dietro di lei, la Dessay non potrà mai rivelarcelo, perchè il "quid Pasta" non è fra le sue corde.


Sulla Dessay sono daccordo, in Bellini non la trovo eccezionale... magari dal vivo rimarrei soggiogato come voi dalla sua presenza, ma in disco non la ritengo indispensabile.
Non credo in una "Norma cattiva" e in una "Amina buona" (per fare l'esempio Pasta, forse il più lampante), torneremmo come giustamente hai detto alla dicotomia soprano di forza VS soprano leggero... credo però che Norma e Amina abbiano un carattere diverso, perchè (banalmente) sono due personaggi non sovrapponibili e vivono realtà, conflitti, responsabilità, sentimenti che non sono in stretta corrispondenza.
Tu dici che la scrittura è la stessa, forse sbaglio io a parlare di "scrittura"... quando si parla di opera non si sa mai qual'è il linguaggio tecnico più corretto : Chessygrin : magari l'estensione vocale è la stessa, così pure il legato richiesto nei cantabili o il grado di virtuosismo nelle agilità; anche il peso vocale può essere il medesimo, quel che voglio dire è che Norma, in virtù di quel che è e di come si muove rispetto alla vicenda, esordisce (ad esempio) con "Sediziose voci", un recitativo che richiede all'interprete una "voce diversa" (in termini di colore, tipo di emissione, aperture e coperture, fraseggio, scansione, proiezione, potenza ecc.) rispetto a quella di "Compagne teneri amici", ma secondo me questa voce diversa è reclamata proprio da una scrittura funzionale al dramma... Amina ad esempio non si lancia mai in cose come "Non tremare o perfido" coi do sparati tipo pallottole, o "Tutti i romani a cento a cento" cantata con gli occhi di fuori, non è necessario che una cantante che voglia cantare Amina sappia essere credibile in pagine del genere. Amina non ha invettive, e coerentemente manca in lei quel tipo di scrittura. Il dramma di Amina è un altro, è vittima come Norma, ma Norma davanti alle situazioni che le si pongono ha delle reazioni completamente diverse. Semplificare estremizzando è quindi sbagliato, ma anche sovrapporre, a mio avviso, lo è.
La Sutherland ad esempio. La Sutherland è tra quelle che cantava Norma più o meno come Amina. A me non piace. Sarà pure che ha trovato la costante Pasta (ovvero semplicemente il SUO modo di cantare), ma di questa esprime sempre e solo un aspetto, quello che passa attraverso il legato etereo, su tutti gli altri profili la trovo artefatta, nei momenti buoni, semplicemente carente, in quelli cattivi.
La Callas è stata l'unica che, secondo me, ha intuito la costante di cui parli (che indubbiamente ritroviamo nei due ruoli da lei interpretati) e al contempo è stata in grado di cogliere (e realizzare vocalmente e interpretativamente) le diversità tra la sacerdotessa dei druidi e la campagnola svizzera. Tant'è che Norma e Sonnambula della Callas sono a loro modo DIVERSE fra loro, e non per incrostazioni della tradizione, come spesso ho sentito dire, ma per volontaria scelta artistica dell'interprete.
La mia visione del mondo Pasta è fatta da vari insiemi con un ampia intersezione comune (quella che tu chiami "costante") ed altre parti disgiunte che appartengono esclusivamente ad ognuno dei personaggi.
Ma per coprire tutti questi sottinsiemi ci vuole un interprete d'eccezione, appunto. Ecco, togliamo la parola onnipotente, che mi rendo conto essere fuorviante (la Callas era tutt'altro che onnipotente), però serve l'inteprete che non solo abbia tutti gli strumenti per affrontare tutti i ruoli, ma sia in grado di caratterizzarli e diversificarli a dovere, altrimenti si rischia di avere "La .... che fa Norma", "La .... che fa Sonnambula", stile Sutherland.
Per i ruoli Colbran secondo me è lo stesso, magari in maniera meno accentuata... lasciamo perdere la distinzione fittizia e, pure questa, fuorviante tra "buoni e cattivi", è un modo come un altro per esprimere un concetto di diversità, per dire "Elena è, forse, più vicina a Desdemona che non a Semiramide"... poi si possono anche contestare gli accostamenti; ad esempio sono estremamente affascinato dalla "classificazione" (passatemi il termine) di beckmesser, che può rappresentare un punto di vista diverso dalla divisione "elegiaco" VS "conturnato". Non entro nel merito del suo discorso perchè non ho sufficienti elementi per avvallarlo o contestarlo, però chiediamoci perchè la Antonacci o la Gasdia (e su questo posso dire, con cognizione, che sono daccordo) funzionano perfettamente in Ermione e forse meno in Armida o Elisabetta. Anche lui arriva, per quel che concerne al DiDonato, a conclusioni diverse dalle mie però mette in conto delle differenze. Il discorso è che, personalmente, rivendico la possibilità che una cantate si possa trovare più a suo agio in un ruolo piuttosto che in un altro, e questo dipenderà dagli strumenti (vocali e interpretativi) a sua disposizione, e quanti di questi strumenti si rivelano utili e adatti per realizzare un dato personaggio.
Spero di aver ulteriormente chiarito quel che intendevo dire, e spero di aver capito cosa intendevi dire tu Mat : Chessygrin :
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Re: I ruoli Colbran

Messaggioda Tucidide » lun 15 feb 2010, 19:50

Solo su una cosa non sarei d'accordo... la difesa del "piedistallo" suggerita da Tucidide, secondo cui esso sarebbe giustificato dai gusti degli anni '50 e '60.
Eh, no! Indipendentemente da Sutherland e Callas (maestre della sublimazione e della metafisica operistica), non c'è epoca (nè la loro, nè la nostra) che giustifichi la scappatoia rappresentata dal "piedistallo", per lo meno nell'accezione che - in questa discussione - ho dato al termine, ossia un simbolico cumulo di frasi fatte, luoghi comuni, manierismi "operesi", ovvietà pontificanti ma in realtà pantofolaie.

Bisogna intendersi su che cosa sia il piedistallo. In linea di massima posso essere d'accordo con te, ma mi risulta strano quanto affermi sulla Sutherland nei ruoli Pasta:

Era forse - la Sutherland - un'interprete onnipotente e camaleontica?
No, non lo era affatto... anzi era compassata, statica e prevedibile.
Eppure è riuscita "stupenda" sia in Amina, sia in Norma... Proprio come la Pasta.
Come è possibile?
Semplicemente perché ha intuito in cosa consisteva il "quid Pasta", la "costante" che una volta scoperta ti permette di essere Amina e Norma (e Beatrice e Anna...) senza alcuna difficoltà, anche se non sei - come lei non era - un'attrice camaleontica.

Quindi secondo te la Sutherland, piedistallosa come Semiramide, diventava perfetta, giù dal piedistallo, come Norma e Amina o come Beatrice? Io apprezzo moltissimo la Sutherland, che è stata una delle massime cantanti del '900, ma la avverto SEMPRE sul piedistallo. E' appunto la sua caratteristica. Una Sutherland non sul piedistallo... non è la Sutherland. :D Non vedo come possa essere un lato positivo nei ruoli Pasta, un difetto nei ruoli Colbran...
Tu potresti dirmi che la prova sta nel fatto che pur con le loro prove vocali da urlo, né la Callas né la Sutherland sono riuscite a reimporre i ruoli Colbran all'attenzione ed alla curiosità del pubblico. Insomma, il piedistallo potrebbe aver operato la stessa funzione "allontanatrice" che c'è stata nel barocco, prima degli specialisti. Eppure io penso che la risposta migliore la dia tu stesso, Mat:
MatMarazzi ha scritto:Bene, se anche noi ragionassimo come quei passatisti disutili, dovremmo esaltare i vari Francesco Albanese e Umberto Grilli, quali modelli di interpreti rossiniani... Ma ovviamente non è così. Erano cantanti preparati per altro repertorio, costretti a cimentarsi con Rossini.
Il problema era serio per tenori e bassi (che ormai in nessun repertorio - parlo degli anni '50 e '60 - coltivavano agilità e spettacolarità di estensione).
Per le donne era un po' più semplice: il virtuosismo era ancora abbastanza praticato.

La mancanza di interpreti maschili adeguati ha reso poco interessante queste opere per tanti anni: mentre le donne erano sovente interessanti, talvolta grandissime (Callas, Sutherland, Caballé, Zeani, Gencer), gli uomini, ahimè, erano impresentabili per Rossini. E con questa tara, nemmeno le grandi cantatrici elencate potevano farci nulla.
E il piedistallo sutherlandiano e callasiano conta fino ad un certo punto, in questo senso. Anzi, sono convinto che una Sutherland ed una Callas, in un cast con Merritt e Blake, o Kunde e Matteuzzi, o Florez e Ford, sarebbero risultate ancora più grandi di quanto non siano state, ed avrebbero segnato LORO la rinascita rossiniana, con venti-trent'anni d'anticipo.
Così almeno pare a me. : Sig : :wink:
Sono malaticcio, quindi non so se il discorso fili... :cry: :oops:
Ultima modifica di Tucidide il lun 15 feb 2010, 22:38, modificato 1 volta in totale.
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
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Re: I ruoli Colbran

Messaggioda Bertarido » mar 16 feb 2010, 10:08

Esordisco ringraziando Matteo e tutti gli altri per i loro magnifici interventi, che sono occasione per discutere di una problematica veramente interessante – breve inciso plaudatorio: il bello di questo Forum è che anziché di occuparsi di “frutta e verdura” di cui spesso si discetta in altri siti, ci dà la possibilità di approfondire, e sottolineo approfondire, tematiche quanto mai varie dove il particolarismo, la partigianeria, e i toni irrispettosi solitamente altrove profusi, sono per fortuna banditi: quindi tanti complimenti ai creatori del Forum - Detto questo veniamo alla nostra Colbran-Di Donato. Gli interventi sono stati numerosi e molto corposi per cui mi è difficile andare a ripescare e quotare in ognuno i passi che mi hanno colpito; cercherò senza un preciso ordine enuclearne alcuni. Partiamo dalla vocalità della mitica spagnola.

Ha scritto Mat
Sappiamo che la vocalità della Colbran era strana, virtuosa ma disomogenea, franta, costellata di lacerazioni, stridenze e disarmonie fra i registri, tanto che Stendhal la considerava in declino già al suo primo incontro con Rossini. E sappiamo che Rossini, il più geniale compositore “per voci” di tutti i tempi, scriveva talmente “su misura” da consegnarci – attraverso le sue partiture – veri e propri calchi dei suoi cantanti.

Le diseguaglianze della voce: andando a rileggere quel poco che ho trovato a casa sulla nostra ho notato che le cronache dell’epoca riferivano di una voce estesa su tre ottave (!!); molto enfatizzata doveva essere la componente tragica e drammatica del canto tanto che Mayr ne fece la prima interprete della sua Medea in Corinto (sarebbe stato interessante, e forse meno scontato, che la Joyce avesse pescato anche nel resto dell’amplissimo repertorio della Colbran che cantava anche Vestale). Quindi si trattava di una voce assai particolare contraltare della celeberrima collega attiva nello stesso tempo e celebrata per essere la voce più bella del secolo: parlo di quell’Angelica Catalani, quella che oggi definiremo una “pura” belcantista (dicotomia Sutherland/Callas per capirci). La cosa che impressiona è che la Colbran debuttò con l’Elisabetta di Rossini, prima delle perle napoletane, nel 1815 ad appena vent’anni (era nata in Spagna nel 1785)!!; e questo la dice lunga sulla maturità espressiva dell’artista impensabile oggi a quell’età… ma si sa, la vita era allora molto più breve. E’ molto interessante il fatto che Rossini si sia innamorato, sia in senso figurato che reale, della voce della Isabella che, si deve ricordare, elemento di certo non estraneo alla ragione del suo enorme successo, era donna di assoluto fascino, come riportano sempre le cronache del tempo. Interessante perché Rossini amava le voci stilizzate e non è un caso che con lui si rinnovi, per l’ultima volta, il mito della voce en travesti, ma declinato nel genere femminile. Certo la scrittura di Rossini è diversa da quella della Medea di Mayr, più neoclassica nel senso comune che si suole dare a questo termine, più belcantista. Non sono sicuro che sia solo un’ipotesi di Celletti che Rossini abbia utilizzato una scrittura musicale ricca di coloratura minuta per coprire le defaillances del registro centrale della Colbran, che con difficoltà riusciva a sostenere frasi lunghe, cosa che procurava problemi seri di intonazione. Questi problemi sono documentati dai cronisti dell’epoca, tra cui mi pare ci fosse anche Sthendal (che descrisse anche la Colbran nell’Elisabetta e Rognoni, che riporta la notizia, afferma che lo scrittore sembrava stesse descrivendo una performance di un’attrice drammatica) e che la portarono ad un ritiro precocissimo dalle scene, mi pare nel 1824. Anche se questa fosse in parte la verità, credo che non diminuisca né il genio di scrittura di Rossini né l’abilità e il talento artistico della nostra, che forse a causa di debolezze vocali, riuscì comunque a creare un modello interpretativo divenuto poi paradigmatico, e difficilissimo da imitare, più di quanto lo sarà il “modello Pasta”, in fondo più moderno. Certo l’uso che Rossini fa della coloratura in questi ruoli è “abnorme” rispetto al momento, e già quasi fuori contesto; per vocalizzare roulades, scale, e gruppetti su gruppetti, era comunque necessario avere la gorgia superbamente allenata alla tecnica vocale più prettamente belcantista, intesa nella valenza originaria del termine. Difficile, se non impossibile, determinare ora cosa sia stato realmente il “quid Colbran”; del tutto d’accordo sul fatto che non sia corretto dividere i ruoli per lei scritti in buoni e cattivi dal momento che la nostra doveva eccellere in entrambi nel tratteggiarli: non sono sicuro che gli insuccessi di alcune delle opere siano da ascrivere a performances poco convincenti della Isabella, piuttosto che ad un tipo di scrittura poco digeribile per i napoletani del tempo. Per avere però un quadro esaustivo dell’artista è necessario, e qui lo ripeto la Joyce avrebbe potuto fare scelte meno ovvie (la Bartoli le avrebbe potuto insegnare come fare), prendere in considerazione il suo intero repertorio e verificare come quel quid fosse stato recepito e “utilizzato” dagli altri musicisti. Passando ora alla nostra Joyce, devo dire, caro Mat, che il ritratto che tu hai così sapientemente delineato della Colbran non mi pare trovi un corrispettivo nelle caratteristiche della voce della texana, così “per bene”. Un'altra cosa su cui dissento è la corda mezzosopranile che tu vedi distintiva della Di Donato; il registro centrale non mi sembra possieda quella corposità e spessore richiesti per questa chiave, mentre ha fluidità e leggerezza che la nostra tende viepiù a sviluppare con il passar degli anni, evidentemente con l’intenzione di aprire nuovi orizzonti al proprio repertorio. Inoltre non vi trovo nemmeno una lettura “rivoluzionaria” del fraseggio rossiniano, senza dubbio intelligente ma non tale da scardinare e rifondare moduli musicali correnti. A proposito di questo non so se avete mai ascoltato la sua Elisabetta della Stuarda donizettiana, ruolo che la Di Donato ha invece risolto in maniera eccellente, senza dubbio tra le migliori, non solo vocalmente ma soprattutto dal punto di vista drammatico, con un risultato nel complesso assai più convincente rispetto all’Antonacci: in questo ruolo, spesso considerato secondario (che fu brutalizzato dalla Baltsa), ha saputo scrivere, a mio avviso, una pagina veramente nuova e di eccellenza assoluta; non a caso si tratta di una parte non marcatamente mezzosopranile (mi sbaglio o la nostra ha intenzione di debuttare nel ruolo principale della Stuarda, versione Malibran?). Riguardo alla Antonacci, è vero, come dice Mat, che avrebbe potuto con autorevolezza appropriarsi di molti dei ruoli Colbran, e la sua Ermione è notevole (ma, lasciatemelo dire, l’opera è di una noia mortale …!); ma la nostra, per affrontare con disinvoltura la serie di perfide roulades e i veloci passaggi nel registro acuto, avrebbe dovuto affinare con maggior studio una tecnica, non mi spiego il perché, nata periclitante (me la ricordo ancora nel vecchio Concorso Callas). Se Sutherland con Semiramide ha prodotto un capolavoro a sé stante, era chiaro che poco aveva a che fare con le eroine sancarliane; Callas invece avrebbe tratteggiato con assoluta autorità questi ruoli …Quindi in definitiva non vedo nel futuro primedonne in grado di padroneggiare tutta le partiture Colbran: ci vorrebbe un “soprano assoluto”, e questo nasce una volta al secolo (mi riferisco alla Callas, e mi perdoni Stecca); sarà più facile magari assistere, da parte di una artista, a grandi interpretazioni di un singolo ruolo (la Ganassi non ha per me storia, mentre scritte nell’albo d’oro dell’interpretazione sono l’Anna Erisso e la Zelmira della Gasdia), e credo che Di Donato nella programmata Donna del Lago, riscaldata dalle tavole del palcoscenico, potrebbe fornire un ritratto comunque assai convincente della malinconica Elena; ma quello che titilla di più la mia melomania è il debutto della Di Donato, come si apprende dal sito, nel ruolo di Adalgisa accanto, udite, udite, alla Grubi addirittura nel prossimo Festival di Salisburgo …Che ne pensate?

Cari saluti Bert

PS a proposito di cantanti “fuori dagli schemi” e per gli amanti della Cecilia nazionale ho saputo di una sua eccezionale Cleopatra cantata appena pochi giorni fa alla Salle Pleyel a Parigi
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CAllas - Colbran

Messaggioda MatMarazzi » ven 19 feb 2010, 13:33

Carissimi,
per evitare la solita lenzuolata (come dice Beck) provo a rispondere separatamente sui vari argomenti.

Partirei dall'ipotesi di Triboulet dei Colbran per la Callas matura.


Triboulet ha scritto:Sul fatto che il pubblico l'avesse ritenuto uno spreco non credo... del resto la Callas li aveva abituati bene a titoli fino ad allora mai sentiti o sentiti pochissimo.


Premetto, Triboulet, che in astratto hai assolutamente ragione. Mi hai convinto.
Un'evoluzione della Callas verso gli impegni Colbran nel periodo 57-61 era una possibile risposta al degrado del registro acuto e sopracuto della Callas, ma anche alla maturità artistica senza paragoni raggiunta in quella fase (anni luce sopra la stessa Callas dei primi anni italiani).
Dopo il 61 però non credo...
Quella Norma a cui fai riferimento (EMI) è del 60. La Callas è ancora titanica ovunque non debba muoversi sopra il la bemolle. Addirittura in certe frasi (il monologo dei figli) è più incisiva e sottile di quanto non sia mai stata.
Stesso effetto fa il Poliuto.
Per quanto riguarda il disco di arie francesi (il primo) inciso nel 61 io lo trovo grandioso, l'ultima testimonianza della Callas "divina", almeno finché canta in tessiture mezzosopranili (Carmen, Samson, Orfeo), ma lì... lì è sempre lei. Con un registro centrale capace di mille lusinghe, una tecnica coloristica giunta al massimo delle sue possibilità, una musicalità da vera regina dell'interpretazione.
L'ipotesi Callas in tessiture più centralizzanti (o nei ruoli Colbran, ma anche certi grandiosi personaggi post-Falcon di Saint-Saens o Reyer, per non parlare di Kundry, una Kundry moderna, non quella "borgattiana" del 1950) mi persuaderebbe ciecamente fino al 60-61.
Dopo non è più solo l'acuto - secondo me - ad entrare in crisi. E' tutto il corpo vocale...
e soprattutto mi pare che la Callas, non potendo più portare avanti le sue strade rivoluzionarie, ne cerchi altre senza trovarle.
Tu hai postato la sua Cenerentola del '63... giusto. E' bella... Ma sei sicuro che non la consideriamo bella solo perchè ..."meglio di quel che ci aspettiamo dalla Callas del '63"?



Io penso ci fosse molta curiosità in giro, più di oggi....

Sul repertorio ottocentesco e "borghese" senz'altro.
Ma penso che il merito (di allora) fosse di alcuni direttori artistici, mentre quelli di oggi non amano più questo repertorio.
Ma le cose stanno cambiando...
leggi i programmi dell'Opéra Comique di Parigi e lo vedrai! :)

Semmai non ce la vedo a cantare Donizetti, forse perchè sono troppo legato alla visione genceriana (che reputo seminale) e sono convinto che la Callas non avrebbe mai potuto cantare come la Gencer.


Sui ruoli Ronzi e assimilati (Ungher) non lo so... Certo la Gencer è talmente perfetta da sembrare nata apposta.
Come li avrebbe resi la Callas non sappiamo.
Sui ruoli Pasta e assimilati (Meric-Lalande) invece personalmente non ho dubbi: la Callas era ad altri livelli.
Non solo la Bolena della Callas mi pare decisamente migliore di quella della Gencer, ma fra i miei sogni impossibili (sempre nel periodo 56-59) c'è una Lucrezia Borgia in cui la Callas avrebbe lasciato un segno imperituro, mentre la Gencer - come tu hai giustissimamente scritto tempo fa - si limita a "ronzeggiare" la parte, con risultati per i quali non perdo la testa.

Sul come sarebbe stata una Callas-Colbran seconda maniera, beh io ho postato due brani prima, non certo per dimostrare che la Callas cantasse Semiramide come Cenerentola (che poi con la Colbran non centra manco nulla), ma per sottolineare come, prendendo come punto di riferimento (in mancanza d'altro) la "voce" di Angelina come quella di un personaggio rossiniano "della porta accanto", la Semiramide callasiana (o meglio quel che si può intuire dall'aria) si cominci ad avvicinare a questa visione umanizzata, senza peraltro perderne il senso di grandezza. Come si è detto, è un po' la stessa evoluzione che è toccata a Medea o Lady Macbeth. Purtroppo un'Armida anni 60 della Callas non ce l'abbiamo...


L'avevo capito! Il tuo esempio era stato efficacissimo.
In fondo già il Bel Raggio del 56 ai Martini Rossi era promettente.
Qui Belcantismo potrà correggermi, ma pare che Rescigno avesse proposto (per il debutto della "Callas for Dallas") i tre ruoli dei Racconti di Hoffman e Semiramide (invece delle ben più scontate Traviata, Medea e Lucia).
Pare che la Callas abbia escluso entrambe le proposte: nel caso dei Racconti perché trovava assurda la sovrapposizione dei tre ruoli ("e poi come mi pagate? con tre cachet?"), nel caso di Semiramide perché riteneva troppo poco "centrale" la sua parte nell'economia dell'opera (tesi talmente strampalata, da far dubitare che sia vera).

Salutoni,
Mat
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il "Piedistallo"

Messaggioda MatMarazzi » ven 19 feb 2010, 14:28

Caro Tuc,
tu ormai mi conosci molto bene, e quindi temevo che non avresti avuto difficoltà a smascherare la mia tesi! :)

Tucidide ha scritto:Bisogna intendersi su che cosa sia il piedistallo. In linea di massima posso essere d'accordo con te, ma mi risulta strano quanto affermi sulla Sutherland nei ruoli Pasta:


Io mi sono spesso professato "relativista".
E mi piacerebbe che questa sfumatura sottendesse tutte le mie affermazioni.
E mi piacerebbe che fosse sempre chiaro che ogni volta che dichiaro qualche mie opinione, non parto dal concetto che essa sia "legge" e che non vi siano eccezioni, sfumature, varietà di tinte.
Purtroppo la dialettica, specie all'interno di una discussione accesa, porta a estremizzare le tesi, a radicalizzarle, ad assolutizzarle.
E io ci casco... come tutti! :)
In apparenza sembra che io descriva leggi universali, mentre parlo solo di tendenze, che posso ritenere giuste o sbagliate, ma che sono sempre aperte a qualsiasi contraddizione.

Sono anni, da quando abbiamo aperto questo forum, ma anche da prima, quando scrivevo su altre piattaforme, che io affermo che l'astrazione, la "levitazione" misticheggiante è il segreto di alcune grandi interpretazioni: i Pasta di Callas e Sutherland ne sono un esempio. Le contraddizioni stratificate e "a maschere" della Gencer sono una risposta (convincentissima) ai ruoli Ronzi.
Ma allora... giustamente tu affermi... se il piedistallo è - in pratica - la strada giusta per esaltare i ruoli Pasta o i ruoli Rubini, perché ora lo contesti sui ruoli Colbran.
Se Callas e Sutherland bene hanno fatto a "estraniarsi" nei loro vortici iperurani come belliniane, perché è - in astratto - così assurdo fare lo stesso in Rossini?

Giustamente mi costringi a cercare di spiegare meglio il mio "j'accuse" contro il piedistallo.
Perché ci sono piedistalli che amo (quello della Sutherland in "qual cor tradisti" o della Callas in "Ah, non credea") e altri che odio (visto che se ne parla in questi giorni, tutto quell'armamentario di sottolineature, compiacimenti, sbrodolamenti espressivi di Corelli, o l'inerzia "virgolettata" - l'immagine è di maugham - di Bergonzi?).

Il "piedistallo" come scelta espressiva è frutto di lavoro, impegno, costruzione.
Non è "casuale", ma è una faticosa realizzazione.
Con la Callas il concetto è più semplice da capire: basta confrontare la sua Turandot discografica alla sua Butterfly.
La seconda "costruisce" la sua umanità più spoglia con un sapiente gioco di effetti rivoluzionari, di accento, di procuncia, di gestione del ritmo, e soprattutto con un esasperato colorismo, che ci regala la più "vera" della Butterfly ma che la mette anche in difficoltà con la scrittura: la stessa Callas - che dal vivo osò Butterfly una sola volta - se la prendeva con Puccini: "vuole la bambina e poi ti schianta sotto un'orchestrona da dramma musicale".
Al contrario in Turandot (parlo di quella discografica, non di quelle circensi da spedizione punitiva argentina), la Callas abbandona i colori, recupera un canto aulico, monumentale, tutto costruito sulla linea. Ma non si limita a questo.
La sua non è l'astrazione monolitica, tutta-suono della Nilsson. Eh no... per evocare l'astrazione la Callas lavora sui ritmi, sugli accenti della musica, sul rapporto con l'orchestra, sulla dinamica elaboratissima della frase.
Quello che combina nel monologo e nel duetto finale è talmente incredibile che ci vorrebbero pagine e pagine solo per analizzarlo, cosa che personalmente ho tentato di fare a un corso sulla Callas in quattro serate che ho tenuto alcuni anni fa nelle sedi del Wanderer Club.
Solo per analizzare la prima parte di "In questa reggia" c'è voluta la prima lezione.
Ecco... questo è un esempio di come il "piedistallo" possa essere una scelta espressiva di tutto rispetto, che, come tutte le scelte espressive, reclama lavoro, impegno, analisi del testo, capacità straordinarie e forza di persuasione.
Il "piedistallo" (se a questo termine diamo il significato di "astrazione espressiva") è la base della rivoluzione "pastiana" della Callas.

Il piedistallo di cui parlavo io è un'altra cosa.
E' una non-scelta.
E' il contrario dell'analisi di un testo, del lavoro su uno spartito, della ricerca su ogni suono, per conseguire un risultato.
E' anzi la scarsa voglia di analizzare di chi preferisce restare in superficie.
Corelli è un esempio deprimente, ovviamente per me, di quello che chiamo il "piedistallo" (ovviamente in questa accezione).
NOn è in discussione la sua capacità tecnica (quel tipo di tecnica che non è l'unica, ma che a molti piace).
Però se si analizza nota per nota il suo "Meco all'altar" si sentirà che ogni effetto (portamenti, sottolineature, esasperazioni consonantiche, singulti, rallentamenti - inevitabili e prevedibilissimi, su ogni acuto, ogni pianissimo - ecc...) non corrispondono mai a una scelta, non costruiscono nulla.
Quando la Price o (mi spiace per Stecca) la Caballé cantavano il Trovatore, senti che ogni effetto, ogni strumento musicale e sonoro sono funzionali al "piedistallo", al compiacimento di fare certe note, farle bene, e lasciare il personaggio lassù, a pavoneggiarsi della sua monumentalità.
NOn c'è un disegno drammaturgico.

Possiamo concludere che, secondo me, una cosa è usare gli strumenti tecnico-musicali-espressivi in proprio possesso per elevarsi (fino a costruire un personaggio volutamente astratto) un'altra è lasciare il personaggio a se stesso, arrampicandosi su qualcosa che già esiste (un complesso di effetti tradizionali e prevedibili) e sostituendo con tutto ciò quel che dovrebbe essere il lavoro dell'interprete.

Personalmente credo che la Sutherland fosse negata per ogni tentativo di "umanizzazione" dei personaggi.
Ciò le era precluso dalla sua personalità, ma anche dalla sua tecnica, monocromatica ed eccessivamente omogenea.
Così li monumentalizzava tutti.
In alcuni casi - se i personaggi si prestavano - ottenendo ottimi risultati, in altri casi pessimi.
Tuttavia, quando otteneva ottimi risultati, ti accorgi che in essi la "costruzione metafisica" non è affatto casuale, nè affidata semplicemente al suono.
Ti accorgi che la Sutherland usava mille accorgimenti (come la Callas, anche se con minore consapevolezza teatrale) per esprimere il coté mistico e sublimante di certi ruoli.
Accorgimenti ritmici (in particolare l'uso del rubato), accorgimenti dinamici (la liquefazione della linea in mille sfumature di intensità), persino - tienti stretto - accorgimenti attorali: ebbene sì, lei che era una pessima attrice, nei momenti di maggiore ispirazione "aulicizzante" trovava un'improvvisa autorità scenica, fatta di sguardi intensi e lontani, di staticità altera, di ieraticità anche d'espressione.
L'apparizione di Lakmé o lo stesso finale (nell'orribile video da Sidney) sono secondo me grandi momenti d'Opera. Così come la sua solennità intangibile nel Casta Diva o nel "Qual cor tradisti", che per me resta il migliore di tutti i tempi (meglio persino della Callas).
Chi la vide a venezia in Alcina, ne conserva anche un impressionante memoria "visiva".

E' per questo che sono d'accordo solo in parte con quanto afferma Triboulet, a proposito dei ruoli Pasta.

Triboulet ha scritto:La Sutherland ad esempio. La Sutherland è tra quelle che cantava Norma più o meno come Amina. A me non piace. Sarà pure che ha trovato la costante Pasta (ovvero semplicemente il SUO modo di cantare), ma di questa esprime sempre e solo un aspetto, quello che passa attraverso il legato etereo, su tutti gli altri profili la trovo artefatta, nei momenti buoni, semplicemente carente, in quelli cattivi.


Se il paragone è tra i ruoli Pasta (Amina e Norma) come il faceva la Callas e come li faceva la Sutherland, allora non puoi che avere ragione.
La Callas è un abisso al di sopra (mi dispiace per Celletti... ma è così).
Eppure, se togli la Callas, secondo me non c'è un'Amina e una Norma che sia convincente come la Sutherland.
Proprio perché il suo abbandono estatico e lontano, come ondeggiante in una dimensione incerta fra realtà e non-realtà, non è ottenuto "a caso", semplicemente compiacendosi dei suoni, ma con un ricco e articolato bagaglio di effetti, disposti e disseminati con estrema coerenza.
ciò è possibile anche perché i personaggi (ed è proprio stata la Callas a dimostrarlo) si prestano...
con Violetta, mi spiace, ma Dame Joan funziona molto peggio. Con Lucia e Maria Stuarda (e ci aggiungo un gigantesco PER ME) non funziona affatto.
Con Semiramide funziona a metà.
Ossia, funziona perché Joan è talmente persuasiva da convincerci che... sì, questo personaggio PUO' anche essere disumanato e quasi "robotizzato" come una sorta di androide indecifrabile. E poiché ho sempre detto che l'interprete può anche forzare un personaggio (sempre che riesca a persuaderci della sua versione), non vedo motivo di impedirlo a lei.
E tuttavia nessuno mi toglie dalla testa che i ruoli Colbran, e pure Semiramide, non sono pensati per essere disumanati. Solo che la loro umanità non è romantica e passionale (o eticamente valutabile), bensì architettonica.
NOn so se mi sono spiegato.

Tornando a Tuc

sono convinto che una Sutherland ed una Callas, in un cast con Merritt e Blake, o Kunde e Matteuzzi, o Florez e Ford, sarebbero risultate ancora più grandi di quanto non siano state, ed avrebbero segnato LORO la rinascita rossiniana, con venti-trent'anni d'anticipo.


Non credo che la presenza di interpreti "moderni" avrebbe tanto cambiato l'impronta Sutherland.
La sua Alcina sarebbe forse cambiata a contatto con i nuovi "barocchisti" senza piedistallo, che hanno lanciato finalmente il Barocco nel nostro tempo?
Forse che la sua Norma o Semiramide sono risultate "diverse" (più coloriste, umane, moderne) per il fatto di trovarsi al proprio fianco il canto aspro e sensuale di Marilyn Horne, anticipatrice di tutti i rossiniani successivi? Per niente... Il bello dei loro duetti era proprio il contrasto radicale, abissale, fra le loro sonorità (Mira o Norma, dove cantano le stesse note l'una dopo l'altra, è sbalorditivo: due mondi a contrasto).
Io credo che una Sutherland giovane negli anni '80 si sarebbe trovata a disagio a maneggiare la propria uniformità e solennità rossiniana a fianco di quel mostro di furore e calore che era, ad esempio, Blake.
Con la Callas il discorso è diverso... ne abbiamo parlato.

UN salutone,
Mat
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il "quid"

Messaggioda MatMarazzi » ven 19 feb 2010, 14:56

Altra contestazione che ho ricevuto - a cui sono abituato, perché già in passato mi fu mossa da Riccardo - è quella di presentare il "quid Pasta" o il "quid Colbran" come un vincolo inaggirabile, indiscutibile e oggettivo.

Triboulet, come già Riccardo a suo tempo, sostiene che si può prescinderne (ed essere della ottime Amine anche trascurando il "quid").
Beckmesser poi avanza un'ipotesi suggestivissima: e se il compositore avesse sbagliato a capire questo "quid" e avesse consegnato all'interprete un personaggio al di fuori delle sue possibilità espressive?


beckmesser ha scritto:Io ho il dubbio che forse il problema era proprio la Colbran; che forse nemmeno lei era in grado di venire a capo di tutti i ruoli-Colbran.


Intanto complimenti per l'osservazione.
Altroché se è possibile che un compositore (pur volendo valorizzare il "quid" - perché è indubbio che questa fosse l'intenzione di Rossini, anche per Ermione) faccia in realtà qualcosa che l'interprete non è in grado di assecondare.
L'esempio più famoso lo ha offerto Bellini col "quid Pasta".
"In alto... in alto... seguiamo la diva che si sublima, che porta la sua voce oltre i confini dell'umano..."
Tanto in alto, che la povera Pasta non è stata in grado di cantare in tono quel Casta Diva che pure Bellini aveva scritto per lei! :)

Il fatto è che il "quid" di cui parliamo non è solo ricavabile dalla caratteristiche del cantante, ma da ciò "che ci si aspetta da lui".
Il discorso è complicato e non so se riuscirò a spiegarmi bene.
Il divo (perché di divi stiamo parlando) proietta un'immagine di sè, che entusiasma il pubblico, e che viene sintetizzata (a proposito e a sproposito) in una serie di caratteristiche. Può anche non esserci perfetta identità tra le caratteristiche di un cantante e il suo "quid".
La Gencer si è sempre lamentata del fatto che nessuno le affidasse ruoli comici. Lei aveva le potenzialità del "comico"; ma il suo "quid" no.
Ciò che il pubblico si aspettava da lei era altro...
Alle volte il "quid" può diventare una prigione.
Bene, quello che interessa noi è il "quid Colbran".

Oddio, può anche non interessarci e prescinderne completamente, e magari fare qualcosa di bello e convincente (la Sutherland mille volte citata in Semiramide), però "sfruttarlo" può essere utile, come appunto nel caso della Callas e dei ruoli Pasta, o della Gencer e dei ruoli Ronzi.

E questo ci riporta alla questione DiDonato e alle contestazioni di Bertarido.

Passando ora alla nostra Joyce, devo dire, caro Mat, che il ritratto che tu hai così sapientemente delineato della Colbran non mi pare trovi un corrispettivo nelle caratteristiche della voce della texana, così “per bene”.


Potrei rispondere che non vedo tanto "per bene" la DiDonato (lo direi per Kiri te Kanawa, o per la Della Casa, non certo per lei).
Potrei anche rispondere che non vedo perché la Colbran non debba essere "per bene".
Ma in realtà non è questo il punto.

Ho usato prima (a proposito del "quid") l'espressione "sfruttare".
L'interprete che, a cento o duecento anni di distanza, sfrutta il "quid" non è quello che lo imita, ma quello che lo coglie, lo intuisce e poi lo rielabora.
La Sutherland colse il quid Pasta, pur senza avere la voce della Pasta, forse nemmeno la tecnica (una pasta con un solo colore mi convince poco), sicuramente non la forza di personalità.
Eppure colse il "quid" e ne fece qualcosa di suo, di personale.
Lo sfruttò trovandogli il contrappunto con i propri suoni, la propria personalità, il proprio universo espressivo.

La corrispondenza tra la Di Donato e i ruoli Colbran consiste, secondo me, nell'essere gioisamente e incontenibilmente espressiva, pur senza avvertire la "verità" degli schemi morali propri del romanticismo, pur senza "credere" nel grande sentimento.
L'espressività caricata (grazie ai mille colori ed effetti) commista al distacco, al cinismo, al gusto del divertimento rappresenta "un" modo di tradurre nell'attualità il "quid Colbran", almeno per me.

Quanto alla questione vocale

Un'altra cosa su cui dissento è la corda mezzosopranile che tu vedi distintiva della Di Donato; il registro centrale non mi sembra possieda quella corposità e spessore richiesti per questa chiave, mentre ha fluidità e leggerezza che la nostra tende viepiù a sviluppare con il passar degli anni, evidentemente con l’intenzione di aprire nuovi orizzonti al proprio repertorio. I


nemmeno la Colbran era definita "mezzosoprano". Le affinità tra la Colbran e la Di Donato non stanno nel "colore" (è una nostra abitudine novecentesca, quella di categorizzare le voci sulla base del timbro o del volume), ma nella tessitura.

noltre non vi trovo nemmeno una lettura “rivoluzionaria” del fraseggio rossiniano, senza dubbio intelligente ma non tale da scardinare e rifondare moduli musicali correnti. A proposito di questo non so se avete mai ascoltato la sua Elisabetta della Stuarda donizettiana, ruolo che la Di Donato ha invece risolto in maniera eccellente, senza dubbio tra le migliori, non solo vocalmente ma soprattutto dal punto di vista drammatico, con un risultato nel complesso assai più convincente rispetto all’Antonacci:


Qui invece mi dai ragione! :)
Perché la Di Donato ti è parsa rivoluzionaria più in Donizetti che in Rossini?
Semplice: perchè in Rossini gli americani hanno imposto da svariati decenni il colorismo più esplicito e audace: il pubblico si è abituato e non si scandalizza più (persino i "passatisti" se la prendono con Florez perché non abbastanza "colorato").
In Donizetti invece non ci sono state, negli ultimi decenni, veri aggiornamenti: siamo ancora arroccati ai modelli Caballé, Kraus e Sutherland, tanto che di fronte alla strepitosa Lucia della Dessay c'è persino chi grida allo scandalo (e per incredibile che possa sembrare, c'è qualche critico che ancora considera "illeciti" in Donizetti i chiaroscuri della Gencer).
Il fatto, Bertarido, è che Joyce ti pare "rivoluzionaria" in Donizetti solo perché quel canto iper-colorato (mutuato come dice Triboulet dal modo attuale di affrontare il Barocco) non sei abituato a sentirlo. Mentre in Rossini sì....
Però attenzione! :) Anche nei ruoli Colbran?
E' lì che c'è rivoluzione, anche non considerando l'aspetto interpretativo.

Affettuosi saluti,
Mat
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Re: il "Piedistallo"

Messaggioda Tucidide » sab 20 feb 2010, 0:40

MatMarazzi ha scritto:Il "piedistallo" come scelta espressiva è frutto di lavoro, impegno, costruzione.
Non è "casuale", ma è una faticosa realizzazione.
[...]
Il piedistallo di cui parlavo io è un'altra cosa.
E' una non-scelta.
E' il contrario dell'analisi di un testo, del lavoro su uno spartito, della ricerca su ogni suono, per conseguire un risultato.
E' anzi la scarsa voglia di analizzare di chi preferisce restare in superficie.

Beh... capisco quel che vuoi dire. Ti spieghi molto bene, ma resta, come ricordi tu stesso, la soggettività. Tu riconosci nella Sutherland - Pasta una ricerca espressiva, non in Corelli. I corelliani e non solo non saranno d'accordo. :D
Ma a parte questo, chiarisco il punto seguente:

Non credo che la presenza di interpreti "moderni" avrebbe tanto cambiato l'impronta Sutherland.
La sua Alcina sarebbe forse cambiata a contatto con i nuovi "barocchisti" senza piedistallo, che hanno lanciato finalmente il Barocco nel nostro tempo?
Forse che la sua Norma o Semiramide sono risultate "diverse" (più coloriste, umane, moderne) per il fatto di trovarsi al proprio fianco il canto aspro e sensuale di Marilyn Horne, anticipatrice di tutti i rossiniani successivi? Per niente... Il bello dei loro duetti era proprio il contrasto radicale, abissale, fra le loro sonorità (Mira o Norma, dove cantano le stesse note l'una dopo l'altra, è sbalorditivo: due mondi a contrasto).
Io credo che una Sutherland giovane negli anni '80 si sarebbe trovata a disagio a maneggiare la propria uniformità e solennità rossiniana a fianco di quel mostro di furore e calore che era, ad esempio, Blake.

Attenzione: non ho detto che la Sutherland e la Callas sarebbero state diverse, a contatto con altri artisti maschili. Dico invece che l'effetto complessivo sarebbe stato ben diverso, ed anche loro avrebbero brillato di più, al punto magari da far rivivere davvero quei ruoli e quelle opere, e non semplicemente risuscitarle per poco tempo.
Il tuo esempio Sutherland - Horne in Norma è ottimo: con una compagna di palcoscenico di tal risma, la Norma della Sutherland è e resta leggendaria. Non a caso, le registrazioni più paradigmatiche della Norma della Sutherland sono quelle con la Horne (sia quella ufficiale sia quelle dal vivo).
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
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Re: il "Piedistallo"

Messaggioda Rodrigo » dom 21 feb 2010, 20:18

MatMarazzi ha scritto:Joan è talmente persuasiva da convincerci che... sì, questo personaggio PUO' anche essere disumanato e quasi "robotizzato" come una sorta di androide indecifrabile. E poiché ho sempre detto che l'interprete può anche forzare un personaggio (sempre che riesca a persuaderci della sua versione), non vedo motivo di impedirlo a lei.
E tuttavia nessuno mi toglie dalla testa che i ruoli Colbran, e pure Semiramide, non sono pensati per essere disumanati. Solo che la loro umanità non è romantica e passionale (o eticamente valutabile), bensì architettonica.
NOn so se mi sono spiegato.


Trovo convincente la tesi di chi sostiene che Semiramide sia il meno Colbran dei dei ruoli-Colbran. Anche la struttura dell'opera secondo me tradisce uno spirito piuttosto diverso da quello delle vere partiture-Colbran. Rossini, che scemo e sordo non lo è mai stato, aveva capito alla perfezione che donna Isabella era vocalmente finita e, per di più, il suo (di Rossini) futuro professionale era in qualche modo incerto dopo l'addio al S. Carlo. Ritengo che queste due evenienze abbiamo inciso in modo decisivo: Rossini ha ideato un "melodramma da viaggio" adatto a essere smontato e rimontato senza troppa difficoltà anche in palcoscenici che, sul momento, non era in grado di prevedere con certezza. Di qui, sul piano formale, la rinuncia a quelle spericolate licenze che contrassegnano le partiture napoletane (libertà nell'uso delle forme, inserimento di danze, dissolvimento della tradizionale sinfonia) in favore di una solidità formale che da qualcuno è stata gabellata come ritorno all'ordine (con tutti i discorsi su Semiramide opera accademica, neobarocca, sublime passo indietro ecc. ecc.), ma che invece risponde all'esigenza di predisporre una partitura funzionale, "neutra".
Lo stesso discorso si può fare anche sul piano della vocalità della protagonista, tanto è vero che mentre Ermione, Armida, Zelmira e compagnia napoletana siono precocemente scomparse dal repertorio, Semiramide ha resistito (sia pure rabberciata in tutti i modi) al trascorrere del tempo e al mutare dei cantanti decisamente meglio di tutti gli altri titoli seri. Forse perché è più bella o più moderna drammaturgicamente? MADDAIII!!! Semplicemente perché meglio adattabile alla primadonna di turno, più funzionale appunto. E lo stesso discorso si può fare con le riprese moderne: è stato molto più facile "montare" Semiramide che il resto del Rossini serio. Non è un caso che la regina babilonese è stata impersonata, senza troppi patemi, da una rosa di cantanti dalla vocalità diversissima se non antitetica (sopranoni, sopranini, mezzi acuti, ecc.). Estremizzando potrei dire che con Semiramide Rossini si è posto difronte alla Colbran "per sottrazione", evitando con cura quegli stilemi che erano propri di Isabella (e di lei sola). Anche le altre parti rispondono allo stesso principio, Arsace in primis (per Idreno l'adattamento era più difficile, ma in compenso la parte si poteva tagliare senza grossi problemi di ocerenza nella messa in scena).

Poi si può ragionare sul piano strettamente drammaturgico e, sempre a mio avviso, le cose cambiano, non poco per giunta.
Forse il mio sarà un ragionamento un tantino facinoroso, ma Semiramide è letteralmente il mausoleo della Colbran. Pensiamoci bene: è la storia di una regina che viene sacrificata per permettere al figlio di regnare e dunque di compiere il suo destino. E, di converso, il figlio se vuole regnare, deve inevitabilmente deporre la regina e uccidere Assur. Io ci colgo più di un riferimento alla biografia di Rossini e della Colbran (perché non anche di Barbaja?). Secondo me il librettista non poteva fotografare meglio la crisi umana, sentimentale e professionale che cominciava ad aleggiare sui coniugi Rossini...
altro che l'armamentario similbabilonese e la freddezza "robotizzata" che viene solitamente associata alla messa in scena di questa partitura!
Avrò esagerato?
Saluti.
Ultima modifica di Rodrigo il lun 22 feb 2010, 20:23, modificato 1 volta in totale.
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Re: il "Piedistallo"

Messaggioda MatMarazzi » lun 22 feb 2010, 12:38

Rodrigo ha scritto:Avrò esagerato?



Non so se hai esagerato, ma questa mi sembra una tesi affascinantissima.
In fondo hai proprio ragione: Semiramide è stata smontata e rimontata per tutto l'800, è passata per artiste radicalmente diverse, tanto che ancora nel '900 la sentivamo nei dischi di una tipica coloratura liberty come la Abendroth, regina di Dresda, e dei soprani drammatici "tardo-romantici" (specializzati in anticaglie) come la Russ e la Boninsegna.
Che questa de-personalizzazione vocale e psicologica fosse un progetto meditato di Rossini è una tesi effettivamente sconcertante; ma che questo fosse il (magari inconsapevole, più o meno involontario) risultato è incredibilmente vero.

Complimenti,
Mat
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Re: I ruoli Colbran

Messaggioda Triboulet » lun 22 feb 2010, 19:36

MatMarazzi ha scritto:Un'evoluzione della Callas verso gli impegni Colbran nel periodo 57-61 era una possibile risposta al degrado del registro acuto e sopracuto della Callas, ma anche alla maturità artistica senza paragoni raggiunta in quella fase (anni luce sopra la stessa Callas dei primi anni italiani).
Dopo il 61 però non credo...
pare che Rescigno avesse proposto (per il debutto della "Callas for Dallas") i tre ruoli dei Racconti di Hoffman e Semiramide (invece delle ben più scontate Traviata, Medea e Lucia).


Io arriverei almeno fino al 62, anche se concordo che proprio da quell'anno ci fu un peggioramento sensibile della sua voce (la stessa Callas registra nel novembre del 61 un recital intero di arie di Rossini, Bellini e Donizetti cestinandolo completamente e reincidendolo più o meno un anno e mezzo dopo).
La Callas di Dallas è la Callas del 1958-59, tesa come una corda di violino, con una voce che palesemente cominciava a non risponderle, con l'ansia di rimanere fuori dai circuiti "che contavano" (dopo i litigi con Ghiringhelli e Bing non le restava che debuttare all'Opera di Parigi e organizzarsi un tour di concerti).
Ci fu secondo me un momento di panico, che Maria come al solito esorcizzava esprimendo il "quid" di se stessa (per usare una tua espressione) ovvero cantando i suoi tre o quattro cavalli di battaglia con ostentata sicurezza e, in alcuni casi, desiderio di rivalsa (vedi la Medea versione iena inferocita). Stessa cosa accadde nel 64-65. E effettivamente l'occasione Dallas poteva essere ghiotta: l'Opera di Dallas non era il Met di Bing (dove era un po' "costretta" a cantare quei ruoli), Rescigno -suo amico- era il padrone di casa il che, in pratica, le dava carta bianca. Pensiamo a Chicago 1955 (pure roba di Rescigno) dove cantò di nuovo Trovatore, i tanto amati Puritani e l'unica sua Butterfly (cioè l'unico Puccini a cui teneva particolarmente), ovvero le opere che voleva lei. Ma in quel momento preferì fare una magra figura con Lucia (ed era pure l'allestimento della Sutherland!!) piuttosto che osare qualcosa di nuovo, e stavolta fu scelta sua. C'è pure da dire che difficilmente avrebbe debuttato qualcosa nel 58 in un teatro che non fosse la Scala...

Dei Racconti non so, però Semiramide era uno di quei "suggerimenti" di Rescigno, assieme a Gluck, Bellini (la Straniera) e altre cose che sapeva potevano esser ghiotte per Maria. Oltre a proporle ruoli stimolanti e più adatti alla sua nuova condizione vocale, con la scusa Rescigno cercava anche l'esclusiva per il suo teatro (chiamatelo fesso con la Callas sotto mano :D), almeno questa è l'idea che mi sono fatto. Lei, se Rossini doveva essere, preferiva ripiegare sul Barbiere. Poi, per cause di forza maggiore, saltò pure quello. Penso che nella stagione 57-58, quando era ancora alla Scala, se le avessero offerto Semiramide l'avrebbe cantata di buon grado. Sarebbe comunque stata una Semiramide ancora un po' "piedistallosa" però (me lo fa pensare non solo il concerto del 56 ma anche cose come la sua Ifigenia o la sua Bolena, migliore sì di quelle genceriane, ma, per gli standard callasiani, terribilmente ingessata).
La Callas 58-59 sarebbe quindi stata l'ideale compromesso fra sanità vocale e acume interpretativo (anche io prima sognavo una Armida del 1958) ma mi rendo conto quant'è assolutamente inverosimile l'idea che potesse accettare un ruolo che non fosse "callasiano" puro.

La Callas del 60 è un discorso assai diverso. E' come se acquistando consapevolezza del suo essere donna (riappropriandosi della sua sfera privata in effetti) la Callas riuscisse ora a scrollarsi più facilmente di dosso l'incombenza di essere "la Callas", con annessi residui di piedistalli. Persino il fatto di ACCETTARE il Poliuto rema secondo me in questa direzione. La Callas 60-62 sarebbe stata ideale da un altro punto di vista, 1) perchè le sue mutazioni vocali la portarono alla ricerca di nuovi repertori in cui potersi esprimere con la stessa eccellenza: si pensi al già citato meraviglioso disco di arie francesi (che, tolta Louise, poteva essere benissimo un disco di un mezzo/falcon), o agli stessi concerti del 1962; 2) perchè l'equilibrio tra "umanità" e "grandeur" raggiungeva, a dispetto della forma vocale ormai in deciso declino, la sua piena sintesi (Norma 1960, Medea 1961, scena del Pirata -in studio- 1961, scena dal Don Carlo 1962 ecc.).
Quella Cenerentola viene proprio da un concerto del 1962, dove è vero, tutte le note dal La in su sono uno strazio, ma per il resto trovo che non solo regga più o meno bene sul centrale e nelle agilità con un colore ancora "callasiano" (dal 64 diventerà pesantissima e intubatissima), ma mantenga anche interpretativamente una strada definita ed eloquente. A giudicare dai programmi dei concerti (Cid, Ernani, "O don fatale", Cenerentola, Oberon, Carmen ecc.) sarebbe stato un buon momento per ampliare il repertorio magari proprio con Semiramide o, volendo osare, Otello (in barba all'Otello verdiano della Teby, magari : Chessygrin : ).

Se è vero che la Colbran era un mezzosoprano acuto o un soprano corto o quel che volete, doveva essere questo il territorio della nuova Callas, quantomeno se fossa voluta restare nell'ambito del belcanto (i ruoli Pasta erano ormai off-limits, i ruoli Ronzi secondo me inadatti, e comunque ancora da riscoprire). Certo ora il problema era un altro, per nuovi ruoli, nuovi allestimenti, nuove sfide, non c'era il tempo e non c'era la voglia (insomma le arie sono una cosa... ma impegnarsi a teatro con un opera... con tutti quegli impegni mondani...).
La Callas nel 62 è ancora "saggia", da un lato, e "spensierata" dall'altro.
Il 1963 è invece un anno interlocutorio. E' la Callas che timidamente fa marcia indietro, comincia a pensare ad un ritorno "da Callas", e si prepara adeguatamente per questo, cercando disperatamente un nuovo assetto che le permetta di cantare ancora le sue vecchie cose. Anche nei concerti tornano Nabucco, Butterfly (insomma, cose che aiutano a limitare i danni :mrgreen: ) e pure Casta diva! Il rendimento dipende molto dalla serata (quella di Berlino è una di quelle buone).
Nelle sue numerosissime registrazioni del 1964, fatte le dovute eccezioni, la sento meno ispirata del solito, o forse meno di quanto non poteva esserlo una Callas in condizioni vocali migliori. I primi acuti tornano un po' più sicuri, ma come la scrittura si fa più impervia si va in crisi, proprio perchè va a farsi benedire il controllo dei timbri, dei colori ecc.
L'ingranaggio funziona ancora molto bene con Carmen o Tosca (ma anche, stranamente, con Aida e Otello), ma per il resto concordo, è una Callas con mille intenti ma con le ali legate (basta ascoltare i dischi di arie italiane e tedesche). Una Semiramide di fine carriera la Callas non l'avrebbe comunque accettata e, sicuramente, sarebbe stata molto meno emblematica di quel che poteva essere, però poteva essere un più dignitoso "addio al belcanto" rispetto alle massacranti (per lei e per chi le ascoltò) Norme parigine.

Quanto alle riflessioni di Mat, beh ha spiegato tutto in maniera perfetta, che altro aggiungere. In effetti personalmente non sono affatto contrario alla monumentalizzazione in sè, anzi come ho scritto anche nella recensione del disco della DiDonato per certi ruoli la ritengo necessaria. Sarà anche un mio limite, ma io una Armida che non guardi dall'alto in basso non me la so immaginare. La Anderson e la Fleming fanno ad esempio due cose totalmente diverse, eppure ti aggrediscono in qualche modo. Il loro piedistallo è evidentemente costruito con materiale differente. La visione quasi carnale della Fleming non la abbassa, ma quasi la eleva di più, perchè le dà una profondità, un piedistallo a tre dimensioni va :mrgreen:
L'ipotetico ruolo Colbran di una Callas anni 60 avrebbe avuto semplicemente una componente dimensionale in più rispetto al pur impressionante dipinto a due dimensioni dei primi anni 50. La Callas quando cantava il belcanto non rinunciava mai al suo piedistallo, che scaturiva in qualche modo dalla sua ferrea e personale visione del belcanto stesso e dalle regole per la sua buona realizzazione che si portava con sè (la famosa "camicia di forza").
Perdonate la lunga digressione da Callas-fan :oops:
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